La condizione degli immigrati in Italia

Francesco Carchedi

 

L’oggetto di indagine è stato circoscritto a un insieme di tematiche che rimandano alle politiche attivate per facilitare l’avvio e il rafforzamento dei processi di inserimento socio-economico, scolastico-culturale e sanitario, nonché di protezione sociale alle donne vittime della tratta a scopo di sfruttamento sociale. Trattandosi di componenti della popolazione non nazionale è quasi tautologico registrare deficit di cittadinanza nelle diverse fasi che scandiscono il processo di inserimento sociale complessivo. Le tematiche affrontate, dunque, sono state descritte e interpretate dal punto di vista della pratica dei diritti fondamentali della persona e dei diritti di cittadinanza.

Queste rispondono a esigenze primarie degli immigrati e rappresentano alcune delle dimensioni principali che concorrono a determinare le forme di inclusione o, al contrario, quelle di esclusione degli stessi. I meccanismi che spingono gli immigrati verso forme stabili di inserimento nelle specifiche realtà locali diventano strutturalmente efficaci allorquando hanno l’opportunità di combinarsi tra loro e di produrre - conseguentemente - processi multi-dimensionali, soprattutto per l’effetto congiunto delle azioni che intraprendono gli immigrati stessi (in qualità di attori sociali coinvolti) e quelle che intraprendono le istituzioni interessate.

Gli immigrati presenti nel nostro paese - soprattutto quelli della prima generazione - si collocano generalmente nella fascia secondaria dei mercati del lavoro locali (a causa della particolare strutturazione degli stessi) senza molte possibilità di mobilità professionale. La segmentazione dei mercati del lavoro su due livelli incomunicabili spiega anche la compresenza - nei contesti di insediamento urbani - di richiesta di lavoro immigrato e di contemporanea disoccupazione locale. Questa, per sue caratteristiche, aspira (in genere) ad accedere nella fascia garantita del mercato del lavoro, lasciando, di fatto, quella non garantita e scoperta contrattualmente alle componenti immigrate. Queste ultime - influenzate dalle necessità economiche - tendono a occuparla quasi a prescindere dalle precarie condizioni strutturali che spesso la contraddistinguono.

Tuttavia, la presenza di lavoratori immigrati si evidenzia in maniera significativa sia in quelle aree geografiche dove l’offerta di lavoro è sostenuta (Centro-Nord), sia in quelle aree dove invece è molto stagnante e si presenta, tra l’altro, strutturalmente debole (il Sud e le Isole). Nel primo caso (specialmente per alcune aree più settentrionali) l’immigrazione è presente in contesti a bassa presenza di disoccupati autoctoni, mentre nel secondo (nelle aree meridionali) l’immigrazione è presente - in maniera complementare - in contesti caratterizzati dall’alto tasso di disoccupazione.

La collocazione degli immigrati nel mercato del lavoro varia anche in riferimento al genere: i gruppi maschili si inseriscono principalmente nelle attività di fatica nella piccola industria manifatturiera (elettro-metalmeccanica, edile-carpenteria, mobilio-falegnameria), nelle imprese di trasporto (specialmente quelle di lunga percorrenza) e nell’agricoltura, mentre i gruppi femminili si inseriscono principalmente nelle attività domestiche e nella cura delle persone anziane e dei minori/bambini, nonché delle persone non auto-sufficienti e dei portatori di handicap. Tali inserimenti necessiterebbero comunque di una formazione professionale aggiuntiva: sia per rafforzare quella esistente e pregressa, sia per acquisirne una maggiormente adeguata alle abilità richieste dalle tecnologie presenti nell’impresa nostrana.

L’accesso alla formazione professionale degli immigrati - a fianco a quella degli autoctoni - dovrebbe rappresentare una tematica specifica di politica attiva del lavoro e adeguarsi alle caratteristiche strutturali della domanda, in particolar modo sulle abilità concernenti la lingua italiana al fine di far emergere le competenze pregresse.

Le migrazioni familiari - e le politiche di ricongiungimento - svolgono una funzione significativa nei processi di insediamento nel nostro paese. I flussi migratori assumono spesso una dimensione che coinvolge attivamente la famiglia perché contribuisce, da un lato, alla pianificazione del progetto migratorio dei membri candidati all’espatrio e, dall’altro, perché contribuisce a definire la direzione/meta che gli stessi membri dovranno intraprendere, anche sulla base delle reti socio-economiche mobilitabili dalla famiglia medesima. Per queste ragioni i membri migranti risentono dei condizionamenti e delle influenze dei membri rimasti in patria, specialmente da parte di quelli che mantengono la gestione complessiva della famiglia (ossia i membri anziani e quelli gerarchicamente più forti). Il lavoratore migrante diventa da questa prospettiva l’agente di sviluppo della famiglia allargata, poiché attraverso le rimesse e i beni di consumo che invia alla famiglia di origine (fintanto che non crea un suo specifico nucleo familiare) contribuisce al suo sostentamento e alla sua riproduzione sociale ed economica.

La ricomposizione e la costruzione della famiglia nucleare, attraverso i processi di ricongiungimento, rafforza la propensione degli immigrati alla stabilizzazione nel nostro paese, propensione che matura attraverso la presenza del coniuge prima (sovente di genere femminile) e dei figli dopo. Infatti, nell’ultimo decennio la componente femminile aumenta molto di più di quella maschile. Essa passa dalle 360.000 unità registrate nel 1991 alle 483.000 registrate del 1998, con una variazione - in termini di valori assoluti - di 122.000 unità, pari al 33%; mentre quella maschile aumenta soltanto di 50.000 unità (in valori assoluti), pari a un incremento del 10%. Questi differenti incrementi hanno determinato un riavvicinamento quantitativo tra i generi, giacché le collettività maschili decrescono di 5 punti percentuali mentre quelle femminili aumentano quasi dello stesso valore.

Il processo di riequilibrio di genere che si riscontra negli ultimi anni interessa maggiormente le collettività di origine europea e le collettività di origine asiatica, in quanto si collocano con le loro reciproche componenti femminili, rispettivamente, intorno al 51 e al 47%. Restano ancora in marcato disequilibrio invece le collettività africane (per la forte influenza di quelle maghrebine) sbilanciate sul versante maschile e le collettività latino-americane sbilanciate invece su quello femminile (rispettivamente con il 30% e il 70%). Queste ultime, in particolare, non hanno al momento canali di reciproco avvicinamento a scopo matrimoniale con i membri di altre comunità, sia per motivi religiosi che per motivi correlabili ai differenti costumi di accoppiamento.

Per questi motivi la costruzione di matrimoni esogami in questa fase storica interessa molto di più un coniuge straniero con il partner italiano/a e molto poco gli stranieri di diversa nazionalità, mentre sono in evidente (ma relativa) crescita quelli registrabili all’interno delle stesse collettività. L’asimmetria ancora forte in alcune collettività determina condizioni di vita caratterizzate da forme di solitudine esistenziale e affettiva rilevanti, al punto che sarebbero auspicabili politiche di riequilibrio demografico basate sulle singole comunità straniere.

La questione relativa alle organizzazione degli immigrati e alla loro capacità di creare sistemi di rappresentanza politico-sociale trova fondamento nei legami familiari e parentali primari, in quanto producono, per molti versi, la struttura reticolare di supporto, di mobilitazione sociale e politica di base per successive aggregazioni. Questa tende col tempo ad auto-organizzarsi e a creare forme di rappresentanza concrete più complesse, al fine di soddisfare le esigenze e i diritti della comunità all’interno dei processi più generali di insediamento.

Ma i processi di inserimento degli immigrati non sono lineari e non privi di contraddizioni anche conflittuali. Ragion per cui la strutturazione delle organizzazioni di rappresentanza degli immigrati oscilla nel nostro paese a seconda delle fasi storiche che attraversa e a seconda dei rapporti che si instaurano tra le leadership che man mano emergono e le rispettive collettività di popolazione che esse stesse tendono a rappresentare. Non secondari sono i rapporti che le organizzazioni immigrate producono con le organizzazioni autoctone del settore e quanto queste le sostengono nel processo di strutturazione e di crescita politico-sociale. Sostegno che assume differenti configurazioni sulla base delle caratteristiche dei legami che si costruiscono tra le parti interessate e la loro durata sociale.

Nel corso degli anni molte organizzazioni immigrate sono nate autonomamente o con il supporto di altre organizzazioni (spesso di origine sindacale), mentre altre hanno smesso le loro attività nella stessa maniera che si riscontra nelle associazioni similari di origine autoctona. I dati più recenti relativi alle organizzazioni che intervengono nel settore immigrazione (tra quelle di origine straniera e quelle di origine autoctona) si aggirano intorno alle 1.000 unità. Se confrontiamo questa cifra con i dati relativi a tutto l’universo delle organizzazioni non profit operanti in Italia - che si aggirano intorno a 13.000 unità - si riscontra un rapporto abbastanza significativo: cioè un'organizzazione su 13 opera nel settore dell’immigrazione in maniera diretta e quasi specialistica. Si tratta sostanzialmente di quelle organizzazioni - specialmente tra quelle composte da immigrati - che hanno raggiunto soglie consistenti di visibilità, al punto da essere intercettabili e pertanto censibili all’esterno.

In pratica rappresentano la parte emergente dell’arcipelago associativo di origine immigrata più dinamico e variamente partecipativo, ma strettamente correlato ad altre organizzazioni più piccole, di carattere informale, dai confini flessibili e immerse nelle rispettive comunità di appartenenza. Queste ultime però rappresentano generalmente il substrato sul quale le organizzazioni più consolidate e più visibili si appoggiano per rinnovare le leadership e per legittimare la loro azione articolata in differenti settori di attività e rivolta sia all’interno che all’esterno delle organizzazioni comunitarie. Attività che si diramano nel settore socio-assistenziale e sanitario, politico-sindacale, culturale-ricreativo e sportivo. Si tratta comunque di un universo associativo in fase di rafforzamento, giacché risente ancora molto del supporto di altre organizzazioni autoctone.

I bisogni formativo-culturali degli immigrati non sono successivi a quelli concernenti la dimensione lavorativo-alloggiativa o sanitaria, ma sono presenti e caratterizzanti ogni fase dell’esperienza migratoria e ne condizionano lo sviluppo e gli esiti, a seconda delle risposte che ricevono dalle istituzioni del nostro paese. Il cambiamento culturale per facilitare l’incontro tra segmenti differenti di popolazione interessa sia il gruppo maggioritario della stessa che quello minoritario. Le politiche educative monodirezionali, cioè che mirano soltanto al cambiamento delle minoranze, rischiano di produrre un effetto opposto, ossia di reciproca radicalizzazione culturale e simmetricamente autoreferenziale destinata ad alimentare tensioni xenofobe e razziali.

Nel nostro paese le politiche scolastiche e le modalità attraverso le quali si concretizzano nelle classi di insegnamento, nonché le forme di socializzazione extrascolastiche che si intraprendono sono basate sull’approccio interculturale. Approccio che formalmente sembra essere piuttosto acquisito a livello di istituzioni centrali, mentre sembra essere non molto compreso a livello periferico, ossia a livello si singola scuola o unità educativa. A questo proposito si riscontra che soltanto una piccola élite di insegnanti sembra aver compreso a fondo l’importanza dell’approccio interculturale e la sua valenza strategica nel processo di inserimento e di sviluppo complessivo delle collettività straniere. Questa constatazione è riscontrabile in differenti aree del territorio nazionale: quindi sia al Nord che Centro e al Sud, anche se la presenza degli alunni stranieri è diversamente articolata in quanto ricalca (in linea generale) la collocazione degli stranieri adulti nelle differenti aree geografiche.

Una significativa accentuazione delle presenze studentesche straniere si registra nell’anno scolastico 1995-96: in termini assoluti l’aumento maggiore avviene nelle scuole del Nord, dove gli iscritti si quadruplicano e oltrepassano il 60% del totale, mentre al Sud quasi si triplicano mantenendo però lo stesso rapporto percentuale. Un aumento minore si registra al Centro - quasi due volte e mezzo quelli precedenti - ma diminuiscono, al contempo, in termini di valori percentuali (passano infatti dal 35% circa al 27%). Le presenze studentesche rispecchiano in definitiva gli effetti congiunti di tre variabili interconnesse: l’anzianità di insediamento, il procedere - in termini di acquisizione progressiva di benessere - dell’inserimento socio-economico e soprattutto la propensione alla formazione e costituzione dei nuclei familiari, nonché del successo del processo di ricongiungimento.

La condizione di salute dei migranti e il corrispettivo profilo epidemiologico tendono a divaricarsi sulla base della volontarietà o meno della scelta migratoria. Da questa prospettiva possiamo definire due profili principali. Il primo, composto dalle componenti che intraprendono il processo migratorio dopo ponderate valutazioni delle risorse a disposizione (comprese quelle relative allo stato di salute). Il secondo profilo è composto dalle componenti che intraprendono il processo migratorio sulla base di scelte coercitive e coatte, dovute a conflitti bellici (come nel caso delle guerre balcaniche) o a forme violente di tratta a scopo di sfruttamento (sessuale o lavorativo).

Da un lato, quindi, si riscontra un profilo epidemiologico sostanzialmente sano, in quanto si tratta di componenti generalmente giovani, portatori di una sana e robusta costituzione, nonché di una maggiore iniziativa e intraprendenza sociale. Dall’altro, la condizione sanitaria può presentarsi esattamente opposta, evidenziando un profilo epidemiologico molto deteriorato a testimonianza delle sofferenze subite alla partenza, nel percorso di espatrio e nella fase di stabilizzazione. Le due tipologie di migranti che sottendono i differenti profili epidemiologici hanno conseguentemente un differente impatto con il contesto territoriale di insediamento.

Il nostro paese nel corso degli anni ha attivato strategie articolate di carattere sanitario, ma quasi sempre basate su una sostanziale restrizione delle opportunità curative indirizzate a entrambe le tipologie. La copertura socio-sanitaria non è stata mai sufficiente a costruire intorno alle collettività immigrate una protezione epidemiologica in grado di preservarle adeguatamente dal punto di vista della salute e permettere così, in linea generale, percorsi di assolvimento del progetto migratorio. Il problema quindi non sembra essere rappresentato dalle cosiddette malattie di importazione - quelle cioè che i migranti porterebbero con sé - in quanto ritenute molto marginali, ma quanto lo stato di salute che si acquisisce nel processo di insediamento sulla base delle condizioni socio-economiche e cultural-relazionali concretamente vissute.

A tutt’oggi rimane comunque difficile circoscrivere, dal punto di vista statistico, lo stato di salute degli stranieri per la scarsa attenzione posta al problema della raccolta dei dati e delle informazioni al riguardo. Dai pochi dati a disposizione - riferiti alle dismissioni ospedaliere avvenute nel 1991 e nel 1997 - si riscontra una variazione negativa degli immigrati che hanno beneficiato di cure. Variazione che raggiunge il 30% e sta a dimostrare gli effetti restrittivi della normativa dell’epoca. Le patologie maggiori che si riscontrano tra gli immigrati - sulla base dei dati in possesso delle organizzazioni non profit del settore - sono quelle respiratorie (che interessano mediamente il 16% degli utenti), seguite da quelle di natura ortopedica e da quelle relative all’apparato digerente, dovute innanzitutto al tipo di alimentazione praticata.

Anche quelle dermatologiche hanno una loro rilevanza, così pure - anche se in misura minore - quelle di carattere ostetrico, genito-urinario e infettivo. Un aspetto per certi versi preoccupante è quello concernente l’elevato numero di donne straniere che decidono di ricorrere all’interruzione volontaria della gravidanza. Questo dato evidenzia due questioni importanti: da un lato, la scarsa garanzia del diritto alla maternità che hanno le donne straniere e dall’altro la scarsa informazione diretta specificatamente alle stesse su contraccezione ed educazione sessuale, anche dal punto di vista della prevenzione.

Il gruppo sociale di origine immigrata che al momento desta maggiori problemi epidemiologici e sociali è quello formato dalle prostitute che esercitano in strada. Si tratta di un fenomeno piuttosto complesso e problematico, in quanto è ancora estremamente difficile comprendere lo spartiacque tra l’esercizio della prostituzione cosciente e con espressioni comportamentali volontarie e di quella coatta e coercitiva, dove le donne vengono letteralmente tenute in condizioni para-schiavistiche senza nessuna possibilità di auto-determinare i propri comportamenti (e finanche quelli dei rispettivi familiari).

In quest'ultimo caso le donne trafficate sono sostanzialmente vittime di sequestro o rapimento, in quanto attivamente resistenti e contrarie al compimento dell’azione medesima e contemporaneamente vittime di tratta, in quanto sradicate coattivamente allo scopo specifico di spingerle alla prostituzione. Aspetti che ne connotano il carattere quasi schiavistico previsto dal codice penale. In questa prospettiva i rapporti tra le vittime e le persone che ne detengono il controllo assomigliano a quelli della schiavitù classica, anche se la differenza risiede nel contesto, in quanto in questa fase storica è il mercato delle prestazioni sessuali a dominare incontrastato questo genere di rapporti.

Difficile al momento è la possibilità di circoscrivere adeguatamente il fenomeno della prostituzione straniera e quello della tratta. A proposito sono possibili soltanto delle stime che si riferiscono al 1998. Secondo tali stime il fenomeno complessivamente si attesta numericamente tra le 15.000 e le 19.000 unità. Riguardo alle diverse aree geografiche le presenze maggiori sono quelle che si concentrano nell’area settentrionale con cifre comprese tra le 7.700 e le 11.300 unità, seguite dal Centro con 5.600-7.000 presenze e al Sud con presenze comprese tra le 700 e le 1.700 unità.

Gli strumenti normativi attualmente in vigore offrono percorsi di fuoriuscita dal giro della prostituzione, anche se ancora sono in fase di rodaggio e di messa a punto delle procedure amministrative conseguenti. Sono strumenti importanti che devono potersi sviluppare al meglio delle loro possibilità, giacché ci troviamo davanti un fenomeno violento e ancora non del tutto conosciuto.

Le condizioni di vita degli immigrati sono, dunque, sostanzialmente precarie per una parte consistente di essi. Condizioni che sono il risultato (volente o nolente) dei sistemi normativi che hanno regolato il fenomeno fino a tutti gli anni Novanta. La precarietà è rapportabile a quelle collettività immigrate collocate al di fuori dei sistemi di garanzia (solo il circa il 50% dei titolari dei permessi di soggiorno per motivo di lavoro sono contemporaneamente assicurati presso l’Inps), sia per quanto concerne le attività lavorative che, di conseguenza, quelle correlabili alla sistemazione spaziale e abitativa. Queste condizioni, in alcuni segmenti di immigrati, si riverberano anche sulle modalità relazionali all’interno e all’esterno delle rispettive comunità, producendo così (anche) forme di isolamento e di separatezza fisica ed esistenziale.

Il problema di fondo relativo all’inserimento delle componenti immigrate risiede nella loro esclusione dalla partecipazione alla vita politica che tende conseguentemente a rafforzare in maniera negativa anche le altre difficoltà esistenti. Non partecipando in maniera piena alle dinamiche politiche - in quanto escluse dall’esercizio di voto attivo e passivo - non hanno nessuna forma diretta di rappresentanza se non quella sussidiaria svolta in particolare dalle organizzazioni sindacali e dalle organizzazioni quelle non profit. Le organizzazioni gestite soltanto da immigrati sono presenti e operanti ma sono ancora in fase di strutturazione e di sviluppo.

Una parte significativa della popolazione residente sul territorio nazionale ha quindi meno libertà dell’altra, nonostante sia sancita (da oltre 15 anni) la parità di trattamento e le pari opportunità (art. 1 della legge n. 943 del 1987), nonché tutta una serie articolata di diritti sociali ed economici. Questi ultimi, che rappresentano una importante parte degli attuali sistemi normativi, sono piuttosto organici e anche innovativi (rispetto a quelli delle normative precedenti) dal punto di vista formale. Il problema di fondo - a cui va data maggiore attenzione - è la loro implementazione, la loro praticabilità e la loro fruibilità a livello fattuale, ossia ai livelli che possono influire positivamente sulle condizioni di vita e di lavoro delle componenti straniere e attivare meccanismi di sviluppo.

 

La condizione degli immigrati in Italia

Francesco Carchedi

 

L’oggetto di indagine è stato circoscritto a un insieme di tematiche che rimandano alle politiche attivate per facilitare l’avvio e il rafforzamento dei processi di inserimento socio-economico, scolastico-culturale e sanitario, nonché di protezione sociale alle donne vittime della tratta a scopo di sfruttamento sociale. Trattandosi di componenti della popolazione non nazionale è quasi tautologico registrare deficit di cittadinanza nelle diverse fasi che scandiscono il processo di inserimento sociale complessivo. Le tematiche affrontate, dunque, sono state descritte e interpretate dal punto di vista della pratica dei diritti fondamentali della persona e dei diritti di cittadinanza.

Queste rispondono a esigenze primarie degli immigrati e rappresentano alcune delle dimensioni principali che concorrono a determinare le forme di inclusione o, al contrario, quelle di esclusione degli stessi. I meccanismi che spingono gli immigrati verso forme stabili di inserimento nelle specifiche realtà locali diventano strutturalmente efficaci allorquando hanno l’opportunità di combinarsi tra loro e di produrre - conseguentemente - processi multi-dimensionali, soprattutto per l’effetto congiunto delle azioni che intraprendono gli immigrati stessi (in qualità di attori sociali coinvolti) e quelle che intraprendono le istituzioni interessate.

Gli immigrati presenti nel nostro paese - soprattutto quelli della prima generazione - si collocano generalmente nella fascia secondaria dei mercati del lavoro locali (a causa della particolare strutturazione degli stessi) senza molte possibilità di mobilità professionale. La segmentazione dei mercati del lavoro su due livelli incomunicabili spiega anche la compresenza - nei contesti di insediamento urbani - di richiesta di lavoro immigrato e di contemporanea disoccupazione locale. Questa, per sue caratteristiche, aspira (in genere) ad accedere nella fascia garantita del mercato del lavoro, lasciando, di fatto, quella non garantita e scoperta contrattualmente alle componenti immigrate. Queste ultime - influenzate dalle necessità economiche - tendono a occuparla quasi a prescindere dalle precarie condizioni strutturali che spesso la contraddistinguono.

Tuttavia, la presenza di lavoratori immigrati si evidenzia in maniera significativa sia in quelle aree geografiche dove l’offerta di lavoro è sostenuta (Centro-Nord), sia in quelle aree dove invece è molto stagnante e si presenta, tra l’altro, strutturalmente debole (il Sud e le Isole). Nel primo caso (specialmente per alcune aree più settentrionali) l’immigrazione è presente in contesti a bassa presenza di disoccupati autoctoni, mentre nel secondo (nelle aree meridionali) l’immigrazione è presente - in maniera complementare - in contesti caratterizzati dall’alto tasso di disoccupazione.

La collocazione degli immigrati nel mercato del lavoro varia anche in riferimento al genere: i gruppi maschili si inseriscono principalmente nelle attività di fatica nella piccola industria manifatturiera (elettro-metalmeccanica, edile-carpenteria, mobilio-falegnameria), nelle imprese di trasporto (specialmente quelle di lunga percorrenza) e nell’agricoltura, mentre i gruppi femminili si inseriscono principalmente nelle attività domestiche e nella cura delle persone anziane e dei minori/bambini, nonché delle persone non auto-sufficienti e dei portatori di handicap. Tali inserimenti necessiterebbero comunque di una formazione professionale aggiuntiva: sia per rafforzare quella esistente e pregressa, sia per acquisirne una maggiormente adeguata alle abilità richieste dalle tecnologie presenti nell’impresa nostrana.

L’accesso alla formazione professionale degli immigrati - a fianco a quella degli autoctoni - dovrebbe rappresentare una tematica specifica di politica attiva del lavoro e adeguarsi alle caratteristiche strutturali della domanda, in particolar modo sulle abilità concernenti la lingua italiana al fine di far emergere le competenze pregresse.

Le migrazioni familiari - e le politiche di ricongiungimento - svolgono una funzione significativa nei processi di insediamento nel nostro paese. I flussi migratori assumono spesso una dimensione che coinvolge attivamente la famiglia perché contribuisce, da un lato, alla pianificazione del progetto migratorio dei membri candidati all’espatrio e, dall’altro, perché contribuisce a definire la direzione/meta che gli stessi membri dovranno intraprendere, anche sulla base delle reti socio-economiche mobilitabili dalla famiglia medesima. Per queste ragioni i membri migranti risentono dei condizionamenti e delle influenze dei membri rimasti in patria, specialmente da parte di quelli che mantengono la gestione complessiva della famiglia (ossia i membri anziani e quelli gerarchicamente più forti). Il lavoratore migrante diventa da questa prospettiva l’agente di sviluppo della famiglia allargata, poiché attraverso le rimesse e i beni di consumo che invia alla famiglia di origine (fintanto che non crea un suo specifico nucleo familiare) contribuisce al suo sostentamento e alla sua riproduzione sociale ed economica.

La ricomposizione e la costruzione della famiglia nucleare, attraverso i processi di ricongiungimento, rafforza la propensione degli immigrati alla stabilizzazione nel nostro paese, propensione che matura attraverso la presenza del coniuge prima (sovente di genere femminile) e dei figli dopo. Infatti, nell’ultimo decennio la componente femminile aumenta molto di più di quella maschile. Essa passa dalle 360.000 unità registrate nel 1991 alle 483.000 registrate del 1998, con una variazione - in termini di valori assoluti - di 122.000 unità, pari al 33%; mentre quella maschile aumenta soltanto di 50.000 unità (in valori assoluti), pari a un incremento del 10%. Questi differenti incrementi hanno determinato un riavvicinamento quantitativo tra i generi, giacché le collettività maschili decrescono di 5 punti percentuali mentre quelle femminili aumentano quasi dello stesso valore.

Il processo di riequilibrio di genere che si riscontra negli ultimi anni interessa maggiormente le collettività di origine europea e le collettività di origine asiatica, in quanto si collocano con le loro reciproche componenti femminili, rispettivamente, intorno al 51 e al 47%. Restano ancora in marcato disequilibrio invece le collettività africane (per la forte influenza di quelle maghrebine) sbilanciate sul versante maschile e le collettività latino-americane sbilanciate invece su quello femminile (rispettivamente con il 30% e il 70%). Queste ultime, in particolare, non hanno al momento canali di reciproco avvicinamento a scopo matrimoniale con i membri di altre comunità, sia per motivi religiosi che per motivi correlabili ai differenti costumi di accoppiamento.

Per questi motivi la costruzione di matrimoni esogami in questa fase storica interessa molto di più un coniuge straniero con il partner italiano/a e molto poco gli stranieri di diversa nazionalità, mentre sono in evidente (ma relativa) crescita quelli registrabili all’interno delle stesse collettività. L’asimmetria ancora forte in alcune collettività determina condizioni di vita caratterizzate da forme di solitudine esistenziale e affettiva rilevanti, al punto che sarebbero auspicabili politiche di riequilibrio demografico basate sulle singole comunità straniere.

La questione relativa alle organizzazione degli immigrati e alla loro capacità di creare sistemi di rappresentanza politico-sociale trova fondamento nei legami familiari e parentali primari, in quanto producono, per molti versi, la struttura reticolare di supporto, di mobilitazione sociale e politica di base per successive aggregazioni. Questa tende col tempo ad auto-organizzarsi e a creare forme di rappresentanza concrete più complesse, al fine di soddisfare le esigenze e i diritti della comunità all’interno dei processi più generali di insediamento.

Ma i processi di inserimento degli immigrati non sono lineari e non privi di contraddizioni anche conflittuali. Ragion per cui la strutturazione delle organizzazioni di rappresentanza degli immigrati oscilla nel nostro paese a seconda delle fasi storiche che attraversa e a seconda dei rapporti che si instaurano tra le leadership che man mano emergono e le rispettive collettività di popolazione che esse stesse tendono a rappresentare. Non secondari sono i rapporti che le organizzazioni immigrate producono con le organizzazioni autoctone del settore e quanto queste le sostengono nel processo di strutturazione e di crescita politico-sociale. Sostegno che assume differenti configurazioni sulla base delle caratteristiche dei legami che si costruiscono tra le parti interessate e la loro durata sociale.

Nel corso degli anni molte organizzazioni immigrate sono nate autonomamente o con il supporto di altre organizzazioni (spesso di origine sindacale), mentre altre hanno smesso le loro attività nella stessa maniera che si riscontra nelle associazioni similari di origine autoctona. I dati più recenti relativi alle organizzazioni che intervengono nel settore immigrazione (tra quelle di origine straniera e quelle di origine autoctona) si aggirano intorno alle 1.000 unità. Se confrontiamo questa cifra con i dati relativi a tutto l’universo delle organizzazioni non profit operanti in Italia - che si aggirano intorno a 13.000 unità - si riscontra un rapporto abbastanza significativo: cioè un'organizzazione su 13 opera nel settore dell’immigrazione in maniera diretta e quasi specialistica. Si tratta sostanzialmente di quelle organizzazioni - specialmente tra quelle composte da immigrati - che hanno raggiunto soglie consistenti di visibilità, al punto da essere intercettabili e pertanto censibili all’esterno.

In pratica rappresentano la parte emergente dell’arcipelago associativo di origine immigrata più dinamico e variamente partecipativo, ma strettamente correlato ad altre organizzazioni più piccole, di carattere informale, dai confini flessibili e immerse nelle rispettive comunità di appartenenza. Queste ultime però rappresentano generalmente il substrato sul quale le organizzazioni più consolidate e più visibili si appoggiano per rinnovare le leadership e per legittimare la loro azione articolata in differenti settori di attività e rivolta sia all’interno che all’esterno delle organizzazioni comunitarie. Attività che si diramano nel settore socio-assistenziale e sanitario, politico-sindacale, culturale-ricreativo e sportivo. Si tratta comunque di un universo associativo in fase di rafforzamento, giacché risente ancora molto del supporto di altre organizzazioni autoctone.

I bisogni formativo-culturali degli immigrati non sono successivi a quelli concernenti la dimensione lavorativo-alloggiativa o sanitaria, ma sono presenti e caratterizzanti ogni fase dell’esperienza migratoria e ne condizionano lo sviluppo e gli esiti, a seconda delle risposte che ricevono dalle istituzioni del nostro paese. Il cambiamento culturale per facilitare l’incontro tra segmenti differenti di popolazione interessa sia il gruppo maggioritario della stessa che quello minoritario. Le politiche educative monodirezionali, cioè che mirano soltanto al cambiamento delle minoranze, rischiano di produrre un effetto opposto, ossia di reciproca radicalizzazione culturale e simmetricamente autoreferenziale destinata ad alimentare tensioni xenofobe e razziali.

Nel nostro paese le politiche scolastiche e le modalità attraverso le quali si concretizzano nelle classi di insegnamento, nonché le forme di socializzazione extrascolastiche che si intraprendono sono basate sull’approccio interculturale. Approccio che formalmente sembra essere piuttosto acquisito a livello di istituzioni centrali, mentre sembra essere non molto compreso a livello periferico, ossia a livello si singola scuola o unità educativa. A questo proposito si riscontra che soltanto una piccola élite di insegnanti sembra aver compreso a fondo l’importanza dell’approccio interculturale e la sua valenza strategica nel processo di inserimento e di sviluppo complessivo delle collettività straniere. Questa constatazione è riscontrabile in differenti aree del territorio nazionale: quindi sia al Nord che Centro e al Sud, anche se la presenza degli alunni stranieri è diversamente articolata in quanto ricalca (in linea generale) la collocazione degli stranieri adulti nelle differenti aree geografiche.

Una significativa accentuazione delle presenze studentesche straniere si registra nell’anno scolastico 1995-96: in termini assoluti l’aumento maggiore avviene nelle scuole del Nord, dove gli iscritti si quadruplicano e oltrepassano il 60% del totale, mentre al Sud quasi si triplicano mantenendo però lo stesso rapporto percentuale. Un aumento minore si registra al Centro - quasi due volte e mezzo quelli precedenti - ma diminuiscono, al contempo, in termini di valori percentuali (passano infatti dal 35% circa al 27%). Le presenze studentesche rispecchiano in definitiva gli effetti congiunti di tre variabili interconnesse: l’anzianità di insediamento, il procedere - in termini di acquisizione progressiva di benessere - dell’inserimento socio-economico e soprattutto la propensione alla formazione e costituzione dei nuclei familiari, nonché del successo del processo di ricongiungimento.

La condizione di salute dei migranti e il corrispettivo profilo epidemiologico tendono a divaricarsi sulla base della volontarietà o meno della scelta migratoria. Da questa prospettiva possiamo definire due profili principali. Il primo, composto dalle componenti che intraprendono il processo migratorio dopo ponderate valutazioni delle risorse a disposizione (comprese quelle relative allo stato di salute). Il secondo profilo è composto dalle componenti che intraprendono il processo migratorio sulla base di scelte coercitive e coatte, dovute a conflitti bellici (come nel caso delle guerre balcaniche) o a forme violente di tratta a scopo di sfruttamento (sessuale o lavorativo).

Da un lato, quindi, si riscontra un profilo epidemiologico sostanzialmente sano, in quanto si tratta di componenti generalmente giovani, portatori di una sana e robusta costituzione, nonché di una maggiore iniziativa e intraprendenza sociale. Dall’altro, la condizione sanitaria può presentarsi esattamente opposta, evidenziando un profilo epidemiologico molto deteriorato a testimonianza delle sofferenze subite alla partenza, nel percorso di espatrio e nella fase di stabilizzazione. Le due tipologie di migranti che sottendono i differenti profili epidemiologici hanno conseguentemente un differente impatto con il contesto territoriale di insediamento.

Il nostro paese nel corso degli anni ha attivato strategie articolate di carattere sanitario, ma quasi sempre basate su una sostanziale restrizione delle opportunità curative indirizzate a entrambe le tipologie. La copertura socio-sanitaria non è stata mai sufficiente a costruire intorno alle collettività immigrate una protezione epidemiologica in grado di preservarle adeguatamente dal punto di vista della salute e permettere così, in linea generale, percorsi di assolvimento del progetto migratorio. Il problema quindi non sembra essere rappresentato dalle cosiddette malattie di importazione - quelle cioè che i migranti porterebbero con sé - in quanto ritenute molto marginali, ma quanto lo stato di salute che si acquisisce nel processo di insediamento sulla base delle condizioni socio-economiche e cultural-relazionali concretamente vissute.

A tutt’oggi rimane comunque difficile circoscrivere, dal punto di vista statistico, lo stato di salute degli stranieri per la scarsa attenzione posta al problema della raccolta dei dati e delle informazioni al riguardo. Dai pochi dati a disposizione - riferiti alle dismissioni ospedaliere avvenute nel 1991 e nel 1997 - si riscontra una variazione negativa degli immigrati che hanno beneficiato di cure. Variazione che raggiunge il 30% e sta a dimostrare gli effetti restrittivi della normativa dell’epoca. Le patologie maggiori che si riscontrano tra gli immigrati - sulla base dei dati in possesso delle organizzazioni non profit del settore - sono quelle respiratorie (che interessano mediamente il 16% degli utenti), seguite da quelle di natura ortopedica e da quelle relative all’apparato digerente, dovute innanzitutto al tipo di alimentazione praticata.

Anche quelle dermatologiche hanno una loro rilevanza, così pure - anche se in misura minore - quelle di carattere ostetrico, genito-urinario e infettivo. Un aspetto per certi versi preoccupante è quello concernente l’elevato numero di donne straniere che decidono di ricorrere all’interruzione volontaria della gravidanza. Questo dato evidenzia due questioni importanti: da un lato, la scarsa garanzia del diritto alla maternità che hanno le donne straniere e dall’altro la scarsa informazione diretta specificatamente alle stesse su contraccezione ed educazione sessuale, anche dal punto di vista della prevenzione.

Il gruppo sociale di origine immigrata che al momento desta maggiori problemi epidemiologici e sociali è quello formato dalle prostitute che esercitano in strada. Si tratta di un fenomeno piuttosto complesso e problematico, in quanto è ancora estremamente difficile comprendere lo spartiacque tra l’esercizio della prostituzione cosciente e con espressioni comportamentali volontarie e di quella coatta e coercitiva, dove le donne vengono letteralmente tenute in condizioni para-schiavistiche senza nessuna possibilità di auto-determinare i propri comportamenti (e finanche quelli dei rispettivi familiari).

In quest'ultimo caso le donne trafficate sono sostanzialmente vittime di sequestro o rapimento, in quanto attivamente resistenti e contrarie al compimento dell’azione medesima e contemporaneamente vittime di tratta, in quanto sradicate coattivamente allo scopo specifico di spingerle alla prostituzione. Aspetti che ne connotano il carattere quasi schiavistico previsto dal codice penale. In questa prospettiva i rapporti tra le vittime e le persone che ne detengono il controllo assomigliano a quelli della schiavitù classica, anche se la differenza risiede nel contesto, in quanto in questa fase storica è il mercato delle prestazioni sessuali a dominare incontrastato questo genere di rapporti.

Difficile al momento è la possibilità di circoscrivere adeguatamente il fenomeno della prostituzione straniera e quello della tratta. A proposito sono possibili soltanto delle stime che si riferiscono al 1998. Secondo tali stime il fenomeno complessivamente si attesta numericamente tra le 15.000 e le 19.000 unità. Riguardo alle diverse aree geografiche le presenze maggiori sono quelle che si concentrano nell’area settentrionale con cifre comprese tra le 7.700 e le 11.300 unità, seguite dal Centro con 5.600-7.000 presenze e al Sud con presenze comprese tra le 700 e le 1.700 unità.

Gli strumenti normativi attualmente in vigore offrono percorsi di fuoriuscita dal giro della prostituzione, anche se ancora sono in fase di rodaggio e di messa a punto delle procedure amministrative conseguenti. Sono strumenti importanti che devono potersi sviluppare al meglio delle loro possibilità, giacché ci troviamo davanti un fenomeno violento e ancora non del tutto conosciuto.

Le condizioni di vita degli immigrati sono, dunque, sostanzialmente precarie per una parte consistente di essi. Condizioni che sono il risultato (volente o nolente) dei sistemi normativi che hanno regolato il fenomeno fino a tutti gli anni Novanta. La precarietà è rapportabile a quelle collettività immigrate collocate al di fuori dei sistemi di garanzia (solo il circa il 50% dei titolari dei permessi di soggiorno per motivo di lavoro sono contemporaneamente assicurati presso l’Inps), sia per quanto concerne le attività lavorative che, di conseguenza, quelle correlabili alla sistemazione spaziale e abitativa. Queste condizioni, in alcuni segmenti di immigrati, si riverberano anche sulle modalità relazionali all’interno e all’esterno delle rispettive comunità, producendo così (anche) forme di isolamento e di separatezza fisica ed esistenziale.

Il problema di fondo relativo all’inserimento delle componenti immigrate risiede nella loro esclusione dalla partecipazione alla vita politica che tende conseguentemente a rafforzare in maniera negativa anche le altre difficoltà esistenti. Non partecipando in maniera piena alle dinamiche politiche - in quanto escluse dall’esercizio di voto attivo e passivo - non hanno nessuna forma diretta di rappresentanza se non quella sussidiaria svolta in particolare dalle organizzazioni sindacali e dalle organizzazioni quelle non profit. Le organizzazioni gestite soltanto da immigrati sono presenti e operanti ma sono ancora in fase di strutturazione e di sviluppo.

Una parte significativa della popolazione residente sul territorio nazionale ha quindi meno libertà dell’altra, nonostante sia sancita (da oltre 15 anni) la parità di trattamento e le pari opportunità (art. 1 della legge n. 943 del 1987), nonché tutta una serie articolata di diritti sociali ed economici. Questi ultimi, che rappresentano una importante parte degli attuali sistemi normativi, sono piuttosto organici e anche innovativi (rispetto a quelli delle normative precedenti) dal punto di vista formale. Il problema di fondo - a cui va data maggiore attenzione - è la loro implementazione, la loro praticabilità e la loro fruibilità a livello fattuale, ossia ai livelli che possono influire positivamente sulle condizioni di vita e di lavoro delle componenti straniere e attivare meccanismi di sviluppo.