Le migrazioni interne in Europa

Centro Italiano di Formazione Europea

 

Dal dopoguerra a oggi, le migrazioni interne all’Europa si sono sviluppate con ritmi e caratteristiche diverse nei vari decenni, a seconda dei differenti scenari che venivano delineandosi sia dal punto di vista demografico-economico, sia da quello delle politiche adottate dai principali paesi di destinazione di questi flussi. L’analisi di tali migrazioni può, quindi, svolgersi seguendo un criterio temporale ed evidenziando di volta in volta le aree del continente maggiormente interessate dal fenomeno, sia in termini di uscite che in termini di ingressi di migranti.

Oltre a queste analisi di flussi, è necessario anche effettuare una analisi di "stock"; non si può, infatti, dimenticare che i movimenti migratori interni hanno portato alla costituzione di comunità di immigranti più o meno integrate nei paesi di destinazione. La struttura demografica di tali comunità, i settori di attività nei quali operano, le politiche dei governi - passate più o meno decisamente dal modello del "lavoratore ospite" a quello di integrazione - sono tutti aspetti di grande rilevanza per uno studio completo del fenomeno.

Esistono, tuttavia, alcuni problemi di carattere metodologico: di migrazioni interne in Europa si parla, infatti, solo oggi, forse anche per il bisogno di distinguere i movimenti di cittadini di paesi che attualmente fanno parte dell’Unione Europea da quelli cosiddetti extracomunitari. All’epoca di tali migrazioni, invece, i movimenti verso paesi europei o verso altri continenti rientravano tutti sotto la stessa definizione di migrazioni internazionali. Questo dimostra il cambiamento avvenuto nella visione dello spazio europeo: una visione che lo studio ha ampliato a tutto il bacino del Mediterraneo e all’area dei paesi dell’Est. Questa, infatti, è la prospettiva dalla quale si deve partire per un'analisi della situazione attuale del vecchio continente e per orientare lo sguardo verso gli scenari futuri.

L’Europa del dopoguerra, dissanguata sul piano economico e demografico, si ritrovò politicamente subordinata alle due superpotenze, Stati Uniti e Unione Sovietica, entità continentali e multietniche, dotate di risorse territoriali e di materie prime ingenti, ciascuna, però, portatrice di un proprio messaggio globale, radicalmente contrapposto a quello dell’altra.

Dal punto di vista economico fu determinante l’apporto degli Stati Uniti, che con lo European Recovery Program, più comunemente noto come "Piano Marshall", consentì il rilancio delle economie del vecchio continente, a eccezione di quelle del blocco sovietico. Dal punto di vista demografico, gli anni immediatamente successivi alla fine del conflitto furono quelli in cui si manifestarono maggiormente gli effetti di compensazione sull’evoluzione della popolazione che, normalmente, si registrano dopo eventi eccezionali. Nel periodo immediatamente successivo alla conclusione della guerra si celebrarono molti matrimoni che, per diversi e comprensibili motivi, non si erano potuti celebrare durante il conflitto, provocando in tal modo una ripresa della nuzialità. Allo stesso tempo si ebbe anche una ripresa delle nascite e una consistente ripresa dei flussi migratori, sia interni che internazionali.

Dal periodo immediatamente successivo alla seconda guerra mondiale fino alla crisi economica dell’inizio degli anni Settanta, vi furono in molti paesi europei una serie di politiche tese a facilitare o a incoraggiare l’immigrazione di forza lavoro su larga scala. I vari paesi europei di accoglienza furono spinti da motivazioni simili ad aprire le porte all’immigrazione, anche se ogni stato perseguì delle politiche particolari. La necessità comune ai vari paesi era di disporre di una domanda di manodopera consistente, inizialmente tesa a ovviare alle carenze di forza lavoro interna per attuare la ripresa economica; in seguito, questa necessità venne legata alle carenze settoriali di forza lavoro causate dalla rapida crescita economica.

I grandi flussi migratori europei di questo periodo ebbero come paesi di partenza l’Italia, la Spagna, il Portogallo, la Turchia, la Jugoslavia e tutti i paesi del Maghreb, e come paesi di destinazione la Francia, la Germania, il Benelux, la Svizzera e il Regno Unito,

Queste migrazioni sono caratterizzate da una forte componente maschile, in particolare per le classi di età lavorativa, e presentano elevati tassi di turn over. La politica dei governi in questo periodo tende, infatti, a sfruttare al massimo questa manodopera a basso costo scoraggiando l’integrazione e la permanenza a lungo termine dei migranti, attraverso politiche restrittive riguardo ai ricongiungimenti familiari.

I fenomeni migratori in Europa hanno subito dei cambiamenti fondamentali a partire dalla fine del 1973. La conseguenza più importante consistette, schematicamente, nella riduzione dell’emigrazione, almeno quella di tipo tradizionale, e nell’inversione di tendenza del fenomeno dei rimpatri rispetto agli espatri. Il conseguente saldo, indicato come positivo, comportò, come è facile intuire, dei non lievi squilibri nelle regioni di origine dei flussi migratori, e questo sia per il problema di un incremento assoluto dell’area della disoccupazione, della sottoccupazione e della marginalità di individui rispetto al mercato del lavoro, sia, soprattutto, perché questa inversione di tendenza nei movimenti migratori si era prodotta con particolare accentuazione nell’area dell’emigrazione non qualificata.

Un nuovo contingente di disoccupazione non qualificata andava, pertanto, ad aggiungersi, aggravandola, alla situazione in cui disoccupati e sottoccupati già premevano sul mercato del lavoro nelle regioni di origine. In compenso, l’emigrazione all’epoca sussistente diventava a carattere prevalentemente specializzato, non di rado al seguito di grandi imprese e verso nuove destinazioni produttive.

Gli anni Settanta, oltre a modificare drasticamente la struttura delle economie dei paesi di ricezione, creando degli indubbi problemi connessi all’accoglimento degli immigrati, favorirono anche un progressivo abbandono in Europa della netta suddivisione fra paesi di emigrazione e paesi di immigrazione. In realtà, questa suddivisione era iniziata a venir meno già a partire dagli anni Sessanta, in corrispondenza del boom economico raggiunto da alcuni paesi precedentemente poco sviluppati.

L’Italia è forse il caso più tipico, dal momento che si trova con sensibili flussi emigratori, con imponenti flussi di rimpatrio, con significativi flussi di immigrazione clandestina e con i ben noti tassi di disoccupazione e di sottoccupazione, appunto nelle regioni di origine delle emigrazioni. L’inversione di tendenza si concretizzò verso il 1973, allorquando il saldo migratorio del paese non assunse più segno negativo, ma iniziò a essere uno dei principali motivi della crescita demografica.

A partire dalla fine del 1973 fino all’inizio degli anni Ottanta, si è assistito in Europa al sovvertimento degli schemi migratori classici. Nelle regioni di destinazione, le politiche di veloce sostituzione ( o di turn over) dei lavoratori migranti, che avevano caratterizzato gli anni precedenti, venivano rapidamente sostituite con nuove politiche di integrazione di contingenti più selezionati e più qualificati di lavoratori migranti con le proprie famiglie. Questo ha ovviamente favorito, su basi più ridotte, il conseguimento di importanti progressi nelle condizioni civili e sociali dei lavoratori migranti e delle loro famiglie; ciò è avvenuto naturalmente a danno dei migranti non ritenuti necessari o spinti al rimpatrio, e con restrizioni ai ricongiungimenti familiari di questo tipo di immigrazione non desiderata.

Negli anni Ottanta l’Europa meridionale divenne un polo di attrazione "obbligato" sia per i paesi della riva Sud del Mediterraneo che per quelli dell’Est, il cui flusso, peraltro, si muoverà in maniera molto più sostenuta soltanto nel decennio successivo, a seguito del crollo dell’impero sovietico. Accanto alla Francia, tradizionale meta delle migrazioni internazionali dal secondo dopoguerra in poi, si istituirono nuovi paesi di accoglienza in quest’area: l’Italia, il cui cambiamento si era già avviato nel corso degli anni Settanta, la Spagna, la Grecia e, seppure in maniera più ridotta, il Portogallo.

In Portogallo e soprattutto in Spagna, in realtà, l’emigrazione non scomparse, ma si attenuò notevolmente, a seguito del completamento del processo industriale avviato massicciamente dopo l’abbandono delle dittature militari negli anni Settanta. Proprio questo progressivo arricchimento dei due paesi favorì lo sviluppo delle correnti immigratorie, provenienti da aree molto variegate.

In questo periodo in Europa maturò la consapevolezza dell’importanza critica dei paesi a sud e a est del bacino mediterraneo: è con questi paesi, infatti, che i rapporti sono più intensi ed è qui che si andrà accumulando nel prossimo futuro il capitale umano più rilevante della zona.

È, infatti, evidente che la pressione migratoria si esercita sempre a partire dai paesi a forte crescita demografica e a debole capacità di controllo del proprio sviluppo, così come nel breve periodo, una delle forme migliori di aiuto allo sviluppo sta proprio nell’accoglienza di significativi flussi migratori dai paesi sottosviluppati. La soluzione dei problemi delle migrazioni provenienti dal Sud verso il Nord del Mediterraneo sta, quindi, ancora una volta, essenzialmente nel successo delle politiche di sviluppo in questa regione: e questo successo è nell’interesse tanto dell’Europa che di tutta l’area.

Se gli anni Settanta furono caratterizzati da una evidente e brusca inversione di tendenza riguardo all’adozione delle politiche di immigrazione nei principali paesi europei di accoglienza, gli anni Ottanta, con il superamento della crisi economica avrebbero dovuto consentire un ritorno alle origini, con la conseguente rifioritura di strategie molto più aperte di fronte al fenomeno, il quale doveva essere trattato in maniera legislativamente più armonica e omogenea soprattutto nei vari paesi comunitari, anche in virtù del progressivo allargamento della Cee.

In effetti, queste nuove politiche migratorie, fondamentalmente ispirate dai buoni propositi espressi in materia con le Raccomandazioni sulle migrazioni internazionali alla Conferenza Internazionale sulla Popolazione Mondiale di Città del Messico nel 1984, non furono paragonabili a quelle del decennio precedente, sia per il mutato quadro economico internazionale, sia perché in Europa stava maturando la convinzione che un problema così diffuso a livello globale come era il fenomeno migratorio non potesse che essere risolto attraverso accorgimenti da adottare in comune. Bisogna, comunque, aggiungere che le politiche migratorie generalmente seguite negli anni Ottanta, pur essendo meno restrittive rispetto a quelle degli anni Settanta, prevedevano spesso ancora dei vincoli piuttosto stringenti, a dimostrazione di una ancora incerta pianificazione in materia, originata dai timori, peraltro ingiustificati, che una ulteriore ondata migratoria potesse aggravare le conseguenze di una eventuale nuova crisi economica.

Gli squilibri demografici, uniti ai forti squilibri economici esistenti tra il Nord e il Sud del Mediterraneo, portano in primo piano la questione delle politiche migratorie. L’improponibilità di soluzioni nazionali e bilaterali per affrontare questa esplosiva situazione spinge a pensare a un’area comunitaria multinazionale, pluriculturale e multietnica con l'obiettivo dell’unicità della cittadinanza e il riequilibrio interno, e non più internazionale, delle aree a differente e diseguale sviluppo.

Nel corso degli anni Ottanta l’attenzione si è spostata sull’integrazione, che si concreta sostanzialmente, ma sempre con restrizioni, sul piano dell’insediamento, dell’abitazione, del ricongiungimento familiare, dei programmi scolastici, dell’accesso all’assistenza pubblica e in alcuni casi sperimentali perfino del voto amministrativo. Conseguentemente il piano normativo cresce di natura e di qualità: sono ora leggi o atti politici nazionali a sancire le disposizioni che riguardano i lavoratori migranti e le loro famiglie, e accordi internazionali restrittivi a regolarne i movimenti. Sul piano delle fonti la tradizionale, seppur incerta, attenzione ai flussi migratori ha fatto tenere a lungo in secondo piano l’osservazione della struttura e dei caratteri delle collettività di migranti, che solo oggi vengono studiate con più attenzione come vere e proprie popolazioni nell’ambito di una politica delle comunità.

Alla fine degli anni Ottanta e nel corso degli anni Novanta si sviluppano nuovi fenomeni migratori, tra cui i movimenti migratori che coinvolgevano i paesi dell’Europa centrale e orientale; in effetti, prima dei mutamenti politici avvenuti tra il 1989 e il 1991, essi erano considerati come trascurabili.

Dopo la caduta del muro, la ritrovata libertà di movimento da parte dei cittadini dell’Est fece temere un esodo incontrollato e senza precedenti verso Ovest. Al contrario, non soltanto gli spostamenti di massa che si temevano dall’Europa centro-orientale, non si sono verificati, ma nel corso degli anni Novanta si è assistito all’inclusione delle nuove democrazie all’interno di una regione paneuropea di immigrazione.

L’Europa dell’Est è divenuta allo stesso tempo area di attrazione di flussi migratori. La cosiddetta migrazione di transito è stata la manifestazione principale di questo fenomeno, ma all’Est si è anche manifestata una migrazione di provenienza dall’Ovest, soprattutto da parte di persone altamente qualificate, e una migrazione di tipo etnico e vi è stato una crescente pressione di persone in cerca di asilo politico.

Per quanto riguarda la migrazione Est-Ovest occorre sottolineare che i nuovi flussi hanno seguito le tendenze migratorie già osservate in passato e che la Germania rimane il principale paese di ricezione per i migranti provenienti dall’Europa centro-orientale.

La natura e la grandezza dei movimenti Est-Ovest avvenuti dopo il 1989 si spiega con l'esistenza di comunità precedentemente costituite all’estero e con i flussi di lavoratori stagionali e che vivono al confine. Questi flussi corrispondono in gran parte a un processo di integrazione regionale limitato alle zone di confine entro il sistema di accordi bilaterali (ad esempio l’accordo tra Germania e Repubblica Ceca o tra Germania e Polonia). Inoltre, mentre l’emigrazione di tipo permanente verso Ovest sta diminuendo, si sta sviluppando sempre più un’emigrazione di lavoratori di tipo temporaneo sia da Est a Ovest, che all’interno dell’Europa centro-orientale.

L’Europa dell’Est è stata recentemente definita dai demografi come un "nuovo polo di attrazione" o come un "nuovo spazio migratorio". Questo ha portato a un nuovo tipo di regime migratorio tra i paesi dell’Est, poiché alcuni paesi, in particolare la Repubblica Ceca e l’Ungheria, sono divenuti attraenti e accessibili per gli altri, sia come paesi di destinazione che di passaggio.

Tra questi nuovi fenomeni vi è in primo luogo una grande intensificazione dei flussi interni alla regione: possiamo citare ad esempio, per la loro importanza in termini numerici i movimenti di riassestamento verificatesi tra il 1991 e il 1997 nei territori dell’ex Unione Sovietica e che hanno coinvolto circa dieci milioni di persone. Sulla base dei dati disponibili concernenti il numero di stranieri presenti in Europa centro-orientale, sembra che siano la Repubblica Ceca e l’Ungheria a ospitare il maggior numero di stranieri in possesso di un permesso di soggiorno di lunga durata.

Un altro tipo di fenomeno migratorio è quello rappresentato da un costante flusso di rifugiati o di persone in cerca di una protezione temporanea.

Fattori geopolitici, in particolare le guerre e i conflitti etnici, hanno generato questo tipo di flussi migratori. Infatti, sebbene la maggior parte di rifugiati, per esempio dell’ex Jugoslavia, si siano diretti a Ovest, anche alcuni paesi dell’Est hanno accolto un gran numero di rifugiati.

Un tipo di nuova migrazione è senza dubbio rappresentato dai flussi di persone provenienti dal di fuori della regione, flussi che stanno trasformando l’Europa dell’Est in una zona di ricezione dell’immigrazione. In alcuni stati vi sono già delle comunità molto numerose di stranieri, come la comunità cinese in Ungheria, le comunità cinesi e vietnamite nella Repubblica Ceca e la comunità armena in Polonia.

Attualmente si avverte la necessità di una politica di programmazione europea che tolga anche al fenomeno migratorio (così come ad altri problemi economici e sociali) quel carattere di congiunturalità sul quale si fondano soluzioni nazionali e nazionalistiche. D’altronde, la storia delle migrazioni internazionali in Europa negli ultimi anni ci porta a pensare che sta diventando sempre più urgente la necessità di realizzare una politica migratoria comune. Il processo di armonizzazione delle politiche migratorie è effettivamente iniziato grazie all’Unione Europea: la maggior parte dei paesi dell’Unione ha aderito agli accordi di Schengen che prevedono la libera circolazione di tutte le persone all’interno della cosiddetta "Area Schengen", costituita dall’insieme dei territori relativi ai paesi aderenti.

Per quanto concerne la cooperazione tra i paesi dell’Est e l’Unione, nel 1991 vennero firmati una serie di accordi noti come "Accordi europei", firmati inizialmente da Polonia, Ungheria, Repubblica Ceca e Slovacchia, e successivamente da Romania, Bulgaria, Repubbliche Baltiche e Slovenia. Gli Accordi europei stabilirono una serie di accordi bilaterali tra l’Unione e i singoli stati dell’Est, che riguardavano al tempo stesso sfere intergovernative e comunitarie, tra cui il dialogo politico, il movimento di persone e beni, la cooperazione economica, finanziaria e culturale, e che possono essere considerati come parte di una strategia di pre-ingresso nell’Unione.

La popolazione europea viene oggi considerata quella meno dinamica del mondo, in considerazione della bassa fecondità, dell’incremento demografico nullo se non negativo, del forte invecchiamento, in breve della quasi stazionarietà. Eppure, nell’ultimo decennio, la dinamica di questa popolazione può essere considerata straordinaria se accentuiamo maggiormente il carattere "europeo". Con una lettura europea del fenomeno, infatti, potremmo sostenere che questa popolazione si è raddoppiata in dieci anni, passando dai 421,5 milioni del 1988 ai 752,5 milioni del 1998. Ancora, contrariamente alle apparenze, è fortemente aumentata la mobilità interna e diminuita la migrazione internazionale: la mobilità per studio e per lavoro, ancorché poco visibile attraverso i media, è diventata infatti un fattore dominante.

La nuova popolazione europea che si va delineando dopo i rivolgimenti politici nell’est europeo sembra molto diversa dalla sommatoria delle precedenti popolazioni nazionali; si pensi ai modelli familiari, passati da un sistema matrimoniale tradizionale ai diversi e molteplici modi di costituzione, ricostituzione, scioglimento e organizzazione delle diverse generazioni nella famiglia, ai regimi di fecondità ormai uniformati al di sotto del livello di sostituzione delle generazioni, alla acquisita considerazione di mobilità interna e di popolazioni integrate per gli italiani, spagnoli, portoghesi, greci e altri presenti in Francia, Germania, Benelux e Regno Unito.

Appare, inoltre, rilevante sottolineare che le questioni della popolazione e della migrazione rivestono una dimensione locale molto particolare in Europa; vista la loro importanza, è necessario coordinare le risorse per sfruttare al meglio questi due fattori, al fine di costituire un polo d’osservazione permanente per seguirne l’evoluzione e i cambiamenti.

Sotto questo punto di vista, un ruolo sempre più decisivo dovrà essere svolto dai poteri locali, gli unici in grado di adottare degli interventi adeguati per controllare e coordinare i flussi, in quanto sono gli unici a conoscere effettivamente le realtà territoriali da cui questi nascono o arrivano. Tra l’altro, il principio di sussidiarietà più volte richiamato in ambito comunitario negli ultimi anni, non potrà che responsabilizzare ulteriormente le autorità locali, la cui attività non potrà, comunque, prescindere dalla collaborazione con i governi dei principali paesi di provenienza, spingendo verso la diffusione di forme sempre più evolute e innovative di cooperazione decentralizzata e partenariato, come è emerso dalle recenti Conferenze mediterranee su popolazione, migrazioni e sviluppo di Taormina (1993), Cipro (1995) e Palma de Maiorca (1996).