Le migrazioni intellettuali in Europa e in Italia

Lisa Francovich

 

Le cosiddette migrazioni intellettuali necessitano di una definizione poiché il termine può essere inteso in diversi modi. Nel corso di questo lavoro per migrazioni intellettuali intendiamo quelle compiute da persone con una formazione specialistica di alto livello (professionisti, tecnici, professori e così via) o da persone che stanno completando la loro formazione e si spostano per portare a compimento al meglio tali studi (universitari e post-universitari principalmente). In tale categoria è subito chiaro che rientrano due gruppi molto diversi di persone: da un lato coloro che hanno acquisito un bagaglio culturale e scientifico di valore e che lo "rivendono" sul mercato internazionale, spostando la loro residenza definitivamente o per certi periodi. Dall'altro lato coloro che stanno acquisendo tale formazione e che si spostano per raggiungere i luoghi dove specializzarsi al meglio, e che saranno attivi e produttivi a tempo pieno solo fra qualche anno. Le migrazioni intellettuali sono quindi quelle che avvengono per "vendere" o "acquistare" conoscenze scientifiche e tecnologiche e sono solitamente temporanee (almeno nelle intenzioni iniziali).

I fattori che muovono le migrazioni intellettuali sono spesso gli stessi che provocano altri tipi di migrazioni, quali le crisi economiche e politiche, i differenziali salariali e le profonde differenze nei livelli di vita; ma ne esistono, a livello individuale, di propri e specifici che li distinguono dalle altre, come la volontà di sfruttare al meglio l'investimento, spesso costoso, in anni di istruzione e la ricerca di un riconoscimento professionale e sociale del proprio valore. Inoltre, in virtù proprio della loro formazione avanzata, si immagina che studenti e professionisti abbiano una capacità comparativa più oggettiva rispetto ad altre categorie di migranti e possano procurarsi informazioni più accurate per poter valutare e comparare la situazione di partenza e quella di destinazione. Un ultimo fattore delle migrazioni intellettuali è l'esistenza di un legame forte del rischio di migrare con le fasi della carriera formativa e professionale. A livello macro, ovvero del contesto sociale ed economico sovra-individuale, i flussi hanno un insieme di cause legate alle differenze tecnologiche fra paesi e ai divari economici e di benessere fra nazioni, ma anche alla crescente "globalizzazione" delle economie: a favorire e promuovere le migrazioni di professionisti sono sempre più spesso, a partire dagli anni Ottanta fino a oggi, le grandi organizzazioni sovranazionali e le grandi industrie con più sedi in diversi paesi.

L'interesse suscitato dal tema delle migrazioni intellettuali è legato ad alcune particolarità di tali migrazioni, che le rendono rilevanti, ad esempio da un punto di vista economico, nel processo di crescita di un paese, e dal punto di vista antropologico e sociologico, nella trasmissione delle idee e nella trasformazione delle culture e delle identità etniche. Il primo aspetto prese rilevanza negli anni Sessanta quando vennero pubblicati i primi studi in materia, riguardanti da un lato la fuga dei cervelli dall'Italia e dalla Germania verso gli Stati Uniti d'America dagli anni Venti agli anni Quaranta per le note ragioni politiche; dall'altro un fenomeno allora agli inizi, quello del trasferimento di personale qualificato dai paesi in via di sviluppo a quelli sviluppati. In seguito la letteratura si è interessata a varie aree del mondo via via che il fenomeno si evolveva e coinvolgeva nuovi paesi. Così negli anni Settanta si trovano molti studi relativi al Sud America e all'Asia, aree da cui "fuggivano" studenti e professionisti diretti in Nord America e in Europa. Negli anni Ottanta il fenomeno comincia a coinvolgere anche diversi paesi Africani, e negli anni Novanta esplode il fenomeno della "fuga dei cervelli" dai paesi dall'Est europeo verso l'Europa occidentale e il Nord America a seguito dei cambiamenti politici del 1989. L'altra implicazione importante delle migrazioni intellettuali, quella relativa alla trasmissione delle idee e della cultura, è un tema le cui radici risalgono all'origine della storia umana; basti pensare che la diffusione dell'uomo sulla terra è avvenuta per migrazione, e così la diffusione della lingua e del patrimonio genetico di ciascun gruppo umano.

Problema scottante delle migrazioni di cervelli è stato fin dagli inizi quello del cosiddetto brain drain, ovvero della sottrazione di intelletti (e quindi di ricchezza) da un paese a favore di un altro. Il dibattito sulle migrazioni intellettuali è stato particolarmente acceso in letteratura a partire dagli anni Sessanta in poi, ovvero da quando emerse come quantitativamente ed economicamente rilevante il trasferimento di persone qualificate dai paesi meno ricchi a quelli più avanzati. Nel processo di sviluppo economico e nel raggiungimento di buoni livelli di salute pubblica e di benessere, nonché nel raggiungimento di livelli tecnologici avanzati, i paesi in via di sviluppo si sono trovati, e ancora si trovano, davanti alla scelta fra due strategie possibili: 1) importare manodopera qualificata e tecnologie dai paesi più avanzati, e/o 2) inviare all'estero propri connazionali per una formazione adeguata col fine di impiegarli in seguito nelle industrie e/o nelle élites nazionali. La prima strategia è a più breve termine e mira a colmare le differenze tecnologiche nel breve periodo, per far fronte alle necessità immediate di sviluppo. La seconda è a più lungo termine e implica una politica di sviluppo e di formazione che punta a far crescere il capitale umano. L'importanza del trasferimento di persone qualificate in entrambe le direzioni è fondamentale per le possibilità di crescita economica di un paese a bassa tecnologia, in quanto l'acquisizione di competenze è centrale al problema dello sviluppo. Il processo di acquisizione di tecnologie è complesso e numerosi esempi possono essere portati per illustrare il problema; del resto è chiaro che sono i paesi dove le strutture sono migliori e la tecnologia è più avanzata ad attrarre migrazioni. In questo modello migratorio (da Sud a Nord), è stato visto un pericolo di non poco conto per i paesi meno sviluppati, i quali rischiano di perdere proprio gli studenti e i professionisti sui quali hanno investito negli anni della formazione, se questi rimangono all'estero o vi si recano una volta finiti gli studi. Esistono al proposito due correnti interpretative opposte, una detta "nazionalista", che assume il punto di vista dei singoli stati e sottolinea la perdita di risorse umane ed economiche che i flussi migratori intellettuali, se non invertiti o bilanciati, comportano per i paesi "esportatori di cervelli". L'altra corrente, detta "cosmopolita" sottolinea come invece questi flussi costituiscano la logica e razionale allocazione delle risorse sul mercato mondiale, ormai unificato; queste si spostano là dove possono essere sfruttate al meglio, contribuendo così alla ottimizzazione dell'allocazione delle risorse, massimizzando la produzione mondiale. Inoltre questa corrente sostiene che le rimesse degli immigrati (se lavorano) sono tali da costituire in complesso una ricchezza ben superiore rispetto a quella investita dal paese di origine nella formazione dei migranti stessi e che il trasferimento di risorse umane dal sud al nord del mondo non è un furto dei ricchi ai poveri, ma una liberazione di questi da un surplus di manodopera che non potrebbero impiegare. I rischi di impoverimento di aree già deboli non riguarda solo i paesi in via di sviluppo, ma tutti i casi in cui convivono vicine situazione di relativa disparità dei livelli di vita e delle possibilità di sviluppo.

Nel contesto della Comunità Economica Europea questo elemento non è secondario in quanto le diversità di sviluppo economico fra le varie regioni della Comunità erano notevoli all'inizio del processo di integrazione economica (negli anni Sessanta) e pur essendosi attenuate, rimangono al centro dell'attenzione dei policy makers in quanto non sono del tutto scomparse. Se poi si pensa a possibili allargamenti a est della Ue la questione rimarrà di importanza centrale. Infatti la capacità di ridistribuire le risorse umane sul territorio della Comunità, di influenzarne le destinazioni, i modi e i tempi, ha delle conseguenze importanti sulle possibilità di ripresa o sul rischio di crisi economica.

In Europa, come un po' in tutto il mondo sviluppato, le migrazioni intellettuali sono, a partire dalla fine degli anni Settanta in poi, una quota crescente del totale delle migrazioni: ad esempio, storicamente, le emigrazioni di studenti europei in Nord America dagli anni Quaranta agli anni Sessanta è andata via via crescendo, così come il numero di studenti europei che andava a studiare in altri stati della Comunità.

I dati relativi agli spostamenti dei professionisti fra i paesi della Comunità sono più difficili da ottenere, ma nel caso di due paesi europei possiamo avere delle indicazioni, anche per anni più recenti: in Olanda fra il 1983 e il 1989 le migrazioni intellettuali sono aumentate di quasi il 40%, e in Germania nel periodo 1977-89 sono aumentate del 23%, mentre le migrazioni totali (e soprattutto quelle di lavoratori non specializzati) diminuivano.

Le modificazioni del sistema produttivo, quali la diminuzione della produzione mineraria e tradizionale, così come il declino delle industrie "fordiste" negli anni Settanta-Ottanta, e l'aumento invece delle industrie ad alto contenuto tecnologico e delle società di servizi e la crescita del numero delle piccole imprese negli anni Ottanta-Novanta, hanno portato a un calo della domanda di lavoratori manuali e non qualificati (come quelli invece richiesti negli anni Cinquanta-Sessanta), e ha provocato un incremento della domanda di immigrati qualificati e un’apertura di spazi per possibili "imprese etniche".

Trasformazioni di questo genere riguardano tutte le economie occidentali negli anni Ottanta-Novanta e fanno parte di quegli elementi che hanno concorso a plasmare un periodo denominato "di ristrutturazione". La tendenza è ancora oggi questa. Gli stessi cambiamenti demografici degli anni Ottanta hanno anche portato a un aumento della domanda di immigrati qualificati per supplire alla carenza di manodopera locale a seguito della bassa fecondità e per fornire servizi per la crescente quota di persone anziane a seguito dell'invecchiamento delle popolazioni locali. Si può dunque dire che dal 1945 agli anni Settanta si sono avute migrazioni di massa prevalentemente dal sud Europa o dalle sue aree periferiche e povere (nonché dalle ex-colonie) verso il centro ricco e in crescita economica, dove soprattutto i settori minerario ed edilizio attiravano forza lavoro. Dagli anni Ottanta e negli anni Novanta la ristrutturazione economica in Europa ha quindi modificato la geografia delle possibilità lavorative dei migranti. Si è passati dalla domanda di lavoratori manuali alla domanda di servizi, cioè a dire alla domanda di lavoratori qualificati. Alcune città europee sono diventate i principali centri di attrazione come Ginevra o Bruxelles. Aumentano i flussi di migranti qualificati nei due sensi fra paesi europei altamente sviluppati e calano invece quelli fra le periferie povere e il centro industrializzato, che prima erano prevalentemente a senso unico. Dal 1989 inoltre aumenta enormemente il fenomeno del brain drain dai paesi dell'Est Europa, da dove in particolare arrivano accademici e scienziati. Questi flussi sono stati comunque in parte arginati da varie barriere burocratiche alzate sia dai paesi dell'Est che da quelli dell'Ovest. Le migrazioni intellettuali in Europa negli anni Novanta presentano inoltre trasformazioni non riconducibili a un'unica e comune tendenza europea: sempre più rilevante ad esempio in Gran Bretagna diventa la mobilità di professionisti (manager e simili) per soggiorni di breve periodo (i cosiddetti viaggi di affari). O ancora si notano modificazioni dei flussi di emigranti in paesi a tradizionale elevata emigrazione come l'Irlanda, dove sempre di più i flussi sono composti da persone con elevata istruzione e sempre più spesso le destinazioni prescelte sono i paesi dell'Europa continentale e non solo il Nord America o la Gran Bretagna.

Una situazione particolare è costituita, come intuibile, dai paesi dell'Europa orientale: dopo il 1989, a causa dell'apertura delle frontiere si è osservato un aumento importante delle emigrazioni, in particolare da parte di persone altamente qualificate. Una stima per la Russia indica che addirittura circa il 60% dei flussi di emigrati fosse costituito da persone specializzate e qualificate nel biennio 1992-93, poco dopo l'apertura delle frontiere.

In generale, dall'analisi della letteratura esistente e degli studi specifici per paese, si evince che ci sono degli elementi che ricorrono, quasi a individuare un modello migratorio particolare. Le migrazioni intellettuali seguono al periodo di crisi economica successivo all'apertura delle frontiere, alla nuova indipendenza di alcuni stati che si separano dall'Unione Sovietica e all'introduzione di un'economia di mercato. Il picco massimo delle emigrazioni avviene intorno al 1990, e riguarda tutte le categorie professionali, ma sembra essere particolarmente accentuato per le persone qualificate. Tratto comune a molti paesi est-europei è anche il fatto che il settore scientifico e tradizionalmente statale, quale l'università, subisce un impoverimento drammatico in questo periodo. I nuovi governi, per moltissime e ovvie ragioni, riducono le risorse destinate alla ricerca pura e le destinano a più immediati e più urgenti programmi di riorganizzazione politica ed economica del paese. Se si tiene conto quindi che già nei regimi socialisti i ricercatori, gli intellettuali e il personale qualificato non avevano un trattamento economico sopra la media, anzi spesso ricevevano salari più bassi di quelli di operai e lavoratori non qualificati; e se si pensa che quello della ricerca è il settore più sacrificato in nome della "ricostruzione" e della "riconversione", si può allora capire come le condizioni economiche di queste categorie siano particolarmente difficili in tutto l'Est europeo agli inizi degli anni Novanta. Un'altra regolarità che si nota nei dati (pochi e spesso non chiarissimi) è che a migrare sono soprattutto alcune categorie di studiosi o di professionisti: in particolare i fisici, i matematici, gli informatici, i medici, i chimici e i biologi. Molto meno rappresentate sono le materie umanistiche e sociali. Questo si verifica probabilmente perché la domanda estera di tali figure professionali è alta, e perché queste specializzazioni rappresentano esattamente i casi più tipici di trasferimento di tecnologia. In particolare fisici, matematici e informatici sono fra coloro che meglio possono contribuire allo sviluppo del settore terziario avanzato, di cui molto si parla in occidente e che sembra essere indicato come il settore trainante della futura economia mondiale. Anche se gli esperti prevedono che nel futuro le migrazioni intellettuali da est verso ovest in Europa tenderanno a una stabilizzazione, con la conseguente possibilità di tenere sotto controllo sia il volume di tali migrazioni sia le loro conseguenze, il fenomeno ha tuttavia suscitato un certo clamore agli inizi degli anni Novanta. Lo dimostra il fatto che l'Unesco stesso si è interessato del fenomeno promuovendo seminari, studi e tavole rotonde fin dai primissimi anni Novanta.

Infine, è da notare come sempre più in questi paesi si usi il temine brain drain anche per indicare un altro fenomeno totalmente interno ai paesi e che non ha niente a che vedere con le migrazioni attraverso i confini nazionali, ma piuttosto con le migrazioni fra settori produttivi. Infatti con l'avvento più o meno veloce o drastico dell'economia di mercato, imprese competitive e istituzioni private hanno sottratto ai tradizionali istituti, università e industrie statali i migliori ricercatori e professionisti. L'elemento negativo associato a questo fenomeno sembra essere un impoverimento non solo economico del settore pubblico, ma anche in termini di risorse umane, che può essere considerato ancora più dannoso. Questo fenomeno viene anche definito, più appropriatamente, come internal brain flight ovvero fuga interna di cervelli.

Non solo il paese di origine perde persone di elevata formazione e competenza in caso di migrazioni intellettuali, ma è anche vero che individualmente coloro che vi sono coinvolti a volte perdono la possibilità di lavorare nel loro campo. Si parla allora di brain waste, ovvero di perdita di cervelli. Anche in questo caso i paesi dell'Europa orientale hanno sofferto e in parte soffrono ancora di questo fenomeno: molti degli scienziati e specialisti che lasciano il paese per assenza di risorse sufficienti non riescono a essere assorbiti dai sistemi produttivi o dalle università occidentali e sono costretti a fare lavori molto al di sotto delle loro competenze. Il loro potenziale, o capitale umano che dir si voglia, va così perso. È stato infatti stimato che solo il 23% circa delle persone qualificate che sono emigrate dall'Est Europa verso i paesi dell'Europa occidentale viene impiegato nel settore di competenza.

Da tutto ciò si capisce che il rischio di impoverimento di alcuni paesi dell'Europa orientale a seguito dell'emigrazione di personale qualificato non è da sottovalutare e studi di tipo econometrico hanno cercato di verificare il rischio nel caso della Germania, il paese più coinvolto dagli spostamenti di popolazione dall'Europa orientale. Le conclusioni sono che, anche tenendo conto di fattori di compensazione quali le rimesse degli immigrati, la fuga dei cervelli ha un impatto negativo sulle economie dei paesi di origine. Dall'altro lato lo stesso modello econometrico evidenzia una crescita del benessere in Germania a causa delle immigrazioni qualificate, nonostante le rimesse.

L'altro tema di interesse relativo all'Europa riguarda la mobilità studentesca. Lo spostamento di studenti fra i vari paesi europei è un aspetto di importanza cruciale se si vuole analizzare il problema delle migrazioni di intelletti in prospettiva. Dato per acquisito che l'Europa si è avviata in un processo senza precedenti, quello di fondere le economie e in parte le politiche di un gruppo di stati sovrani, questo processo porta con sé problemi di integrazione non solo delle politiche, ma anche delle popolazioni. Lo spostamento di studenti europei presso università di altri paesi membri per tutto il corso degli studi costituisce a pieno titolo un caso di migrazioni intellettuali, con tutte le implicazioni già descritte, relativamente all'effettivo ritorno in patria di tali studenti, soprattutto se provenienti dalle aree più povere della Comunità Europea. Diverso il caso degli studenti, come quelli che partecipano ai programmi Socrates/Erasmus, che per definizione trascorrono all'estero un periodo breve, generalmente inferiore all'anno. Questi non costituiscono un caso di migrazioni intellettuali di per sé e non creano un immediato problema di brain drain. Nonostante ciò hanno un ruolo rilevante all'interno dei temi che stiamo trattando: nel particolare contesto europeo i progetti Erasmus costituiscono un elemento di integrazione e sono, soprattutto, un fattore di incremento delle migrazioni intellettuali in un'ottica di corso di vita. L'esperienza all'estero può infatti favorire la futura propensione a migrare una volta terminato il percorso di studio, andando così ad aumentare il "rischio" di nuovi spostamenti in futuro. I progetti di scambi universitari costituiscono un importante presupposto delle potenziali future migrazioni intellettuali anche perché favoriscono l'integrazione fra paesi e culture, attraverso l'incontro degli studenti, che così contribuiscono alla nascita di un "sentimento di appartenenza" all'entità sovranazionale della Comunità Europea. L'Europa, a differenza degli Stati Uniti, è priva di una lingua comune a tutti gli stati e per questo la disomogeneità linguistica è uno dei primi fattori frenanti del processo di scambio di risorse umane.

Da studi condotti sulla mobilità degli studenti, sia "spontanea", sia "strutturata" (ovvero svolta all'interno di programmi nazionali ed europei) per i primi anni Novanta, risulta che la Gran Bretagna e la Francia sono i principali "importatori" di studenti: la Gran Bretagna è la prima importatrice sia di studenti europei che si muovono spontaneamente, sia di coloro che si spostano attraverso programmi organizzati, sia dei "nuovi iscritti". La ragione principale sembra essere la lingua, la cui diffusione è tale nel resto d'Europa da rendere la Gran Bretagna una meta privilegiata. Non è invece uno dei paesi che più mandano all'estero i propri studenti. La Francia è anch'essa una delle mete preferite, probabilmente ancora una volta in virtù della diffusione dell'insegnamento del francese in Europa.

Relativamente all'Italia, abbiamo condotto un approfondimento sugli ultimi dati disponibili in tema di mobilità degli studenti Erasmus. Sappiamo che questi possono passare all'estero un periodo di tempo che va dai 3 ai 12 mesi, e che il fine di questo periodo è quello di seguire dei corsi e di sostenere alcuni esami in una università estera, e più raramente (circa nel 6% dei casi) completare il lavoro di tesi o laurearsi con un professore straniero.

È noto che la quota di studenti Erasmus è cresciuta costantemente nel corso di questi quasi 15 anni di attività. Il numero di progetti che legavano le diverse facoltà dei vari paesi coinvolti è infatti aumentato nel tempo e insieme a esso anche il numero degli studenti coinvolti negli scambi. L'Italia è uno dei paesi che presenta un saldo annuale negativo di studenti Erasmus, ovvero ne spedisce all'estero più di quanti ne accolga.

Entrambi i flussi, sia in entrata che in uscita dal nostro paese, sono in crescita come conseguenza dell'aumentare dei flussi di studenti Erasmus in tutta Europa. Ma l'aumento del numero di studenti stranieri che vengono in Italia non è sufficiente a compensare numericamente l'aumento degli studenti italiani all'estero. Il potere attrattivo dell'Europa sugli italiani è forte, ma meno fascino o meno interesse suscita il nostro paese sull'insieme dei paesi europei.

L'approfondimento riguarda in particolare Venezia, Firenze e Roma, città diverse per dimensioni dei loro atenei e per collocazione geografica. Le tre città considerate si distinguono chiaramente per comportamenti "migratori" diversificati dei loro studenti. Le ragioni vanno ricercate a diversi livelli: quello organizzativo delle università o delle facoltà, al livello di maggiore o minore presenza di certe aree disciplinari, all'iniziativa dei singoli docenti o dipartimenti, e ancora alla posizione geografica e alle tradizioni accademiche e culturali della città. Riassumendo troviamo che gli studenti fiorentini che si recano all'estero con il programma Erasmus si presentano come piuttosto "anziani" (l'età media in Italia è 23,38, e per Firenze è 23,93) e piuttosto equilibrati in quanto a quote fra sessi, e distribuiti come la media nazionale per aree disciplinari (le più coinvolte sono lettere, scienze sociali e politiche, economia e management, architettura e design). Sono inoltre "tradizionali" nella scelta delle mete da raggiungere, fra cui spiccano, come a livello nazionale, la Gran Bretagna, la Francia e la Germania. Infine sono tendenzialmente "casalinghi" e tornano a casa in media assai prima degli altri studenti italiani (il 55% sta sei mesi o meno), trattenendosi all'estero per periodi brevi (il 65% sta sei mesi o meno).

Gli studenti Erasmus romani si caratterizzano per avere una struttura per sesso nella media nazionale, ovvero solo poco sbilanciata a favore delle donne (58,2%), e con una età media poco superiore a quella nazionale. Spicca come gruppo molto numeroso fra chi va all'estero quello degli studenti di diritto, e fra le mete preferite ci sono Spagna (in crescita) e Francia (in calo). Il periodo trascorso all'estero è nella media nazionale.

Venezia manda all'estero soprattutto giovani (età media 23,24 anni) donne (il 66,4% sono studentesse), prevalentemente studenti di architettura e lettere e ha legami forti e in crescita con Germania e Austria, mentre le mete "tradizionali", anche se numericamente importanti, sono in calo. I periodi passati fuori Italia sono mediamente assai più lunghi (meno del 40% degli studenti si trattiene sei mesi o meno). Se questo dipenda dalla struttura per età, dal sesso degli studenti o dalle materie che studiano o ancora dalla posizione geografica di Venezia è difficile dirlo.

Concludendo possiamo dire che i fattori che spingono le persone qualificate o in cerca di qualificazione a spostarsi in Europa hanno una molteplicità di cause; da quelle economiche classiche, quali i differenziali salariali e dei livelli di disoccupazione, a quelle più innovative, tipo il ruolo svolto dalle multinazionali e dalle istituzioni sovranazionali quali "motori" dei flussi in questione. Le cause si sono ovviamente evolute nel tempo con l’evolversi delle strutture economiche e politiche, e se ne evince che la tendenza dal secondo dopoguerra a oggi è stata verso un aumento assoluto e relativo di questo genere di migrazioni. La domanda di persone qualificate è tale (soprattutto nel settore della cosiddetta New Economy) da scavalcare ampiamente i confini europei, per andare in cerca di risorse in paesi più poveri; ma questa volta non si richiede manodopera non qualificata a costi bassi, ma si cercano persone competenti e specializzate per sostenere lo sviluppo del terziario avanzato in Europa e per sopperire alle carenze strutturali della popolazione locale. Non vi è del resto uniformità di vedute sulle tendenze future delle migrazioni di persone qualificate, e ci si può ragionevolmente attendere un rallentamento e una stabilizzazione della crescita di tali flussi, dovuti al fatto che oramai le conoscenze si trasmettono sempre di più attraverso strumenti tecnologici che permettono di operare a distanza, senza necessariamente richiedere lo spostamento fisico degli individui.