L’economia delle migrazioni

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La letteratura economica riconduce i movimenti migratori a tre fattori principali: a) il differenziale nel tenore di vita fra il paese di origine e quello di destinazione, in termini di redditi pro-capite ma anche in termini di elementi qualitativi, come la sicurezza, la libertà di scelta, l’accesso all’istruzione e agli altri servizi pubblici essenziali, le condizioni di alimentazione e di salute, la speranza di vita; b) la crescita demografica nel paese di origine, la quale, se particolarmente elevata, può rendere difficile l’eliminazione dei differenziali economici in termini di dati medi pro-capite; c) le diverse condizioni osservabili nei rispettivi mercati del lavoro, in particolare le prospettive di lavoro attese nel paese di destinazione confrontate con la cronica situazione di disoccupazione/sottoccupazione nel paese di origine.

Il fattore di spinta legato alla crescita demografica si ripercuote sull’offerta potenziale di lavoro nel paese di origine: in mancanza di sbocchi occupazionali, l’espansione demografica peggiora le condizioni dei mercati del lavoro locali determinando un aumento della disoccupazione e/o della sottoccupazione e fornisce un ulteriore incentivo all’abbandono del paese di origine verso la ricerca di migliori opportunità. In particolare, la spinta a emigrare risente di croniche situazioni di sottoccupazione, coerenti con la struttura produttiva marcatamente agricola dei paesi di origine dei flussi migratori.

La teoria economica tradizionale suggerisce che l’eliminazione dei gap economici fra paesi di origine e paesi di destinazione può realizzarsi attraverso due canali: i) il movimento dei fattori produttivi (lavoro e capitale) verso le aree dove risultano relativamente più scarsi; ciò determinerebbe la modificazione del rapporto capitale/lavoro e il livellamento del saggio di salario e del saggio di profitto nelle diverse economie; ii) lo sviluppo del commercio internazionale attraverso l’eliminazione delle barriere doganali, che spingerebbe ogni economia a specializzarsi nelle produzioni caratterizzate da più alta intensità del fattore di cui quell’economia presenta maggiore disponibilità relativa; il conseguente livellamento del saggio di salario e del saggio di profitto limiterebbe lo spostamento di manodopera e di capitale da un paese all’altro. Il problema è che i canali descritti operano in modo molto differenziato.

Per quanto riguarda la mobilità del capitale fra paesi, la convenienza a realizzare investimenti produttivi è spesso legata a fattori non solo economici, ma anche politico-istituzionali, come certezza dei diritti di proprietà, esistenza di libero mercato, stabilità macroeconomica. Si tratta spesso di caratteristiche mancanti nei paesi di origine dei flussi migratori; ciò produce una elevata incertezza sulla profittabilità degli investimenti, accorciando l’orizzonte temporale degli investitori o addirittura pregiudicando la realizzazione dell’investimento stesso. Inoltre, la recente letteratura sulla cosiddetta "crescita endogena" ha evidenziato gli effetti di polarizzazione dello sviluppo derivanti dal fatto che il capitale non si muove necessariamente verso i paesi con maggiore disponibilità di lavoro, in quanto vi mancano rilevanti esternalità che sono invece presenti nei paesi avanzati.

Anche il canale legato allo sviluppo o alla creazione di aree di libero commercio può presentare impedimenti, sia perché i paesi avanzati possono opporre resistenze nel rinunciare a posizioni di privilegio in termini di commercio internazionale, sia perché i paesi in via di sviluppo spesso presentano una situazione interna politico-istituzionale che rende difficile la realizzazione dei necessari processi di riforma.

Pertanto, i movimenti migratori suppliscono in qualche modo all’insufficiente operare dei canali legati ai movimenti di capitale e allo sviluppo del commercio internazionale. Ma sono sufficienti a eliminare i differenziali economici esistenti tra paesi di origine e di destinazione?

La risposta sarebbe positiva all’interno di un modello neoclassico standard di mercato del lavoro: nel breve periodo l’aumento dell’offerta di lavoro nel paese di destinazione provoca un aumento della disoccupazione e una pressione al ribasso sui salari; una domanda di lavoro sufficientemente elastica al salario determinerà un aumento dell’occupazione che, nel lungo periodo, porterà al riassorbimento completo della disoccupazione; pertanto nel lungo periodo, in assenza di vincoli nazionali sui flussi migratori e in presenza di salari perfettamente flessibili, i movimenti migratori portano a un livellamento dei salari nel paese di origine e in quello di destinazione e a un’occupazione totale nei due paesi pari all’offerta complessiva di lavoro.

Il fatto è che il modello parte da assunzioni decisamente poco realistiche: la teoria economica più recente ha largamente argomentato le ragioni per cui non vi è perfetta flessibilità dei salari nonché la presenza di esternalità positive nei paesi avanzati che tendono a divaricare i loro ritmi di crescita rispetto ai paesi arretrati; d’altra parte, il modello assume pieno impiego nel lavoro, trascurando i problemi che possono derivare per la crescita dell'occupazione nei paesi di destinazione da un quadro macroeconomico non sufficientemente espansivo.

In sintesi, i movimenti migratori possono attenuare i differenziali economici tra i paesi ma non sembrano davvero in grado di eliminarli.

In che modo i lavoratori immigrati si inseriscono nel contesto occupazionale dei paesi di destinazione? Le caratteristiche del mercato del lavoro nei paesi europei sembrano far emergere l’esistenza di una dualità della domanda di lavoro, con un mercato del lavoro primario caratterizzato da migliori retribuzioni e garanzie contrattuali, e un mercato del lavoro secondario che presenta invece retribuzioni più basse e condizioni di lavoro richiedenti maggiore flessibilità e minori garanzie di continuità e verso il quale sarebbero orientati i lavoratori immigrati (si pensi in primo luogo ai lavori stagionali e ai servizi di assistenza agli anziani e alle famiglie). Emerge così un ruolo dei lavoratori immigrati complementare, più che sostitutivo, rispetto ai lavoratori autoctoni: gli immigrati ricoprono spesso mansioni che i lavoratori autoctoni non sono disposti a ricoprire (perché a più bassa qualificazione o perché richiedenti maggiore flessibilità, mobilità e precarietà). Pertanto, in generale i lavoratori immigrati vengono a rappresentare una risorsa per l’economia di destinazione, consentendo alla domanda di lavoro di reperire manodopera anche per le mansioni che non incontrano una corrispondente offerta di lavoro interna.

Da questo punto di vista, il lavoro immigrato si configura come una potenziale risorsa per le economie di destinazione in quanto consente di allentare eventuali tensioni o difficoltà di reperimento di manodopera in alcuni settori o comparti del tessuto produttivo nazionale.

Unitamente all’impatto sul mercato del lavoro derivante dallo sviluppo e consolidamento dei flussi migratori, assume rilevanza per l’economia delle migrazioni l’analisi degli effetti prodotti sulla spesa sociale del paese di destinazione.

In generale, nella fase iniziale del processo migratorio assume rilevanza il processo di autoselezione nel paese di origine: l’immigrato è in genere giovane e in buono stato di salute e si sposta da solo lasciando in patria gli eventuali familiari a carico. In questa prima fase il lavoratore immigrato contribuisce dunque alle entrate pubbliche attraverso il pagamento di imposte e contributi, ma non richiede una elevata utilizzazione di servizi di welfare.

Successivamente il fenomeno migratorio si consolida e cominciano ad assumere importanza i ricongiungimenti familiari, costituiti principalmente da persone non attive sul mercato del lavoro (minori e persone anziane). In questa fase aumenta dunque la domanda di servizi sociali e sanitari finanziata con programmi pubblici di social security.

Si può dunque presumere che all’inizio del processo migratorio il contributo dell’immigrato al sistema di welfare del paese di destinazione sia sostanzialmente positivo, mentre nella fase di consolidamento esso tenda a livellarsi con quello della popolazione nazionale.

Gli studi condotti dalla letteratura economica a riguardo affrontano questa tematica sotto due aspetti: da un lato, tentano di valutare quanto ricevono gli immigrati in termini di prestazioni di welfare rispetto a quanto ricevono i nativi; dall’altro lato, cercano di ricavare un bilancio di quanto gli immigrati pagano in termini di imposte e contributi e quanto ricevono in termini di prestazioni e trasferimenti, allo scopo di capire se l’immigrazione produca un effetto positivo o negativo sui bilanci pubblici di sicurezza sociale.

I risultati raggiunti dagli studi su alcuni paesi - Stati Uniti, Canada, Germania e Italia - mostrano, pur in presenza di opinioni articolate fra i diversi autori, che l’impatto dell’immigrazione sui sistemi di welfare dei paesi di destinazione è sostanzialmente positivo: anche se gli immigrati presentano maggiore probabilità di accedere ai benefici dello Stato sociale rispetto alla popolazione nazionale, tuttavia quello che pagano in termini di imposte e contributi più che compensa quello che ottengono in termini di prestazioni.

Si tratta di un risultato importante, specialmente per i paesi europei per i quali i vincoli di finanza pubblica appaiono particolarmente stringenti e hanno determinato negli ultimi anni una revisione più o meno ampia dei sistemi di welfare: per questi paesi i nuovi flussi migratori possono infatti rappresentare un modo per allentare in qualche misura il carico fiscale e contributivo gravante sulla popolazione nazionale per mantenere il medesimo livello di prestazioni garantite.

Una stima del bilancio economico del cittadino immigrato effettuata dal Cer per i cinque principali paesi europei (Francia, Germania, Italia, Spagna e Regno Unito) sembra porsi in linea con la letteratura economica sull’argomento. I risultati ottenuti evidenziano infatti un saldo negativo per l’immigrato medio - quindi positivo per le economie di destinazione - in tutti i paesi considerati, tranne la Francia. Per quest’ultima risulta che il cittadino immigrato ottiene un ammontare di prestazioni di welfare superiore a quanto paga in termini di imposte e contributi. Di converso, fra i paesi con saldo negativo per l’immigrato (positivo per l’economia di destinazione), spicca la posizione dell’Italia con valori nettamente superiori a quelli degli altri paesi.

Il quadro che emerge offre spunti per una serie di considerazioni.

Il saldo del cittadino immigrato è determinato dalla differenza fra le sue "entrate" (le prestazioni di welfare che ottiene) e le sue "uscite" (le imposte e i contributi che paga). In questo senso, un saldo positivo o negativo emerge non solo dalla sua maggiore o minore propensione a usufruire di servizi di welfare, ma anche dall’incidenza di imposte e contributi, che a loro volta dipenderanno dalla struttura fiscale del paese di destinazione e dal reddito percepito dal lavoratore immigrato.

Il risultato francese deriva da un reddito lordo dell’immigrato in media piuttosto contenuto, sostanzialmente derivante dall’inserimento dei lavoratori immigrati in settori di attività economica con bassi livelli retributivi. A ciò si accompagna un prelievo fiscale e contributivo anch’esso contenuto. Dal lato delle "entrate" dell’immigrato, invece, si osserva un rilevante intervento pubblico che garantisce prestazioni di welfare di importo sensibilmente elevato. Il saldo finale determina dunque un bilancio sfavorevole al sistema pubblico di sicurezza sociale.

Se si confronta il risultato della Francia con quello della Germania, il cui saldo è positivo per le finanze pubbliche, si osserva come l’economia tedesca garantisca anch’essa elevati livelli di prestazioni di welfare; tuttavia a ciò si accompagna un reddito lordo e una incidenza del prelievo fiscale e contributivo del cittadino immigrato più elevati rispetto al caso francese.

All’estremo opposto troviamo la situazione dell’Italia, la quale presenta un livello di reddito lordo piuttosto alto e una altrettanto elevata incidenza di imposte e contributi, ma un ammontare di prestazioni contenuto, il quale è essenzialmente riconducibile agli scarsi interventi implementati nel campo dell’assistenza.

Quale ruolo possono assumere i flussi migratori nella stabilizzazione della spesa previdenziale? Gli studi disponibili cercano di quantificare il flusso aggiuntivo di immigrati che sarebbe necessario per mantenere stabile la struttura per età della popolazione, in quei paesi che presentano elevati livelli di invecchiamento e un tasso di fecondità inferiore a quello di sostituibilità intergenerazionale. In questo modo, nei paesi che presentano un sistema pensionistico a ripartizione, si avrebbe un sostanziale riequilibrio della struttura finanziaria del sistema pensionistico.

Dai risultati raggiunti con riferimento ai principali paesi europei emergono due ordini di considerazioni. Innanzitutto, i risultati ottenuti dipendono in maniera rilevante dagli scenari ipotizzati sui flussi migratori, che nella realtà presentano un elevato grado di aleatorietà, non riscontrabile per altre variabili demografiche come fecondità e natalità. In particolare, si richiederebbe ai paesi di destinazione una politica migratoria capace di regolare i flussi in ingresso verso le caratteristiche desiderate, cioè essenzialmente verso immigrati giovani e capaci di inserirsi rapidamente nel mercato del lavoro del paese che li accoglie. In secondo luogo, ai fini della stabilizzazione della spesa previdenziale occorrerebbero flussi migratori massicci e fortemente crescenti nel tempo, che risulterebbero realisticamente incompatibili con la struttura politico-istituzionale dei paesi di destinazione.

Pertanto, mentre si può sostenere che i flussi migratori contribuiscono ad alleggerire gli squilibri finanziari dei sistemi di sicurezza sociale, essi non possono essere risolutivi al riguardo. La stabilizzazione dei sistemi di welfare va ricercata quindi attraverso interventi di riforma strutturale.