Commissione per le politiche di integrazione degli immigrati

SECONDO RAPPORTO SULL'INTEGRAZIONE DEGLI IMMIGRATI IN ITALIA

 

TERZA PARTE

APPROFONDIMENTI

 

CAPITOLO 3.7

 

ROM E SINTI: UN'INTEGRAZIONE POSSIBILE

 

Premessa

Affrontando il tema della condizione dei rom e dei sinti, la Commissione per l'integrazione degli immigrati invade in qualche misura un territorio che non le compete: come si vedrà diffusamente nel corso del capitolo, la maggioranza degli zingari è composta di cittadini italiani (circa il 60%). Tuttavia, l'interesse della Commissione per questo tema si basa su delle buone ragioni: non soltanto la componente straniera tra gli zingari oggi presenti in Italia è comunque consistente, ma l'intera vicenda degli zingari si è in questi anni intrecciata con quella più ampia dei flussi migratori provenienti dai paesi dell'Europa centro‑orientale e balcanica, dove si trovano circa i due terzi degli zingari. Questi nuovi flussi, dovuti ad una serie di cause che verranno successivamente analizzate, hanno reso drammatici alcuni problemi particolarmente sentiti dalla Commissione quali l'acuirsi dei pregiudizi delle comunità locali maggioritarie nei confronti degli zingari, l'aumento del disagio delle popolazioni zingare già insediate, che si sono dovute “attrezzare” autonomamente per accogliere i nuovi arrivati nei campi nomadi, la difficoltà di estendere il diritto di asilo e il permesso di soggiorno a persone cui la legislazione italiana d'altra parte difficilmente riconosce lo status di rifugiati.

Per queste ragioni la Commissione ha sentito il bisogno di dedicare un capitolo del rapporto alle minoranze zingare. (1) Convinta che un buon progetto di integrazione debba mirare a due obiettivi ‑ il rispetto dell'integrità della persona e un'interazione non conflittuale tra maggioranza e minoranze ‑ la Commissione ritiene che le mino­ranze zingare rappresentino un caso estremo di mancata integrazione o, meglio, di integrazione mai perseguita fino in fondo sia a livello centrale che locale.

 

1. Il caso italiano (2)

 

1.1. Caratteristiche delle minoranze rom e sinte in Italia

I rom e i sinti che vivono oggi in Italia sono circa 110.000 ‑ 120.000. Di questi, circa 70.000 sono cittadini italiani, il resto è costituito in gran parte da cittadini extracomunitari (soprattutto della ex‑Jugoslavia e rumeni) e in misura minore da cittadini comunitari. Solo un 30% circa di questi gruppi si può considerare ancora nomade, tutti gli altri sono sedentari, in molti casi da decenni, o in via di sedentarizzazione. Ancora, secondo una stima dell'Aizo [Osella 1999], il 50% della popolazione ha meno di 15 anni, il 49% più di 30 anni e solo l'1 % supera i 60.

Le comunità di rom e sinti presenti nel nostro paese mostrano un elevato grado di eterogeneità in relazione al gruppo di appartenenza, al periodo e contesto dell'insediamento, alle caratteristiche socio‑culturali. (3) A dispetto di questa eterogeneità, i rom e i sinti che vivono in Italia debbono confrontarsi con gli stereotipi fortemente negativi della società maggioritaria che li accomuna tutti. “Lo zingaro, il nomade, a prescindere se sia o meno cittadino italiano, resta lo "straniero" per eccellenza, soggetto ad esclusione e discriminazione” [Marta 2000].

A vivere nelle condizioni peggiori sono, indubbiamente, i rom stranieri. Tra questi, centinaia di famiglie arrivate alla fine degli anni '60 soprattutto dalla Jugo­slavia, i cui figli sono nati in Italia, in gran parte esclusi dai benefici della legge sull'immigrazione perché non possiedono i requisiti necessari per la legale permanenza sul territorio italiano (documenti validi e visti d'ingresso per la loro regolarizzazione). Negli ultimi tempi, poi, è aumentato il numero dei rifugiati (soprattutto dai Balcani e dalla Romania), sfuggiti a guerre e persecuzioni, nei confronti dei quali si è registrata una scarsa sensibilità da parte dell'Amministrazione centrale e di quelle locali.

 

1.2. Marginalità, discriminazione e pregiudizio

La condizione di marginalità ed isolamento accomuna, in generale, tutti i rom e sinti che vivono in Italia. Le cause sono sicuramente complesse e molteplici, e certamente non tutte individuabili nella società maggioritaria. Tuttavia occorre sfatare il mito di una minoranza non integrabile. A questo scopo ‑ se da un lato è necessario adottare una concezione non assimilazionista dell'integrazione ‑ dall'altro è necessario mettere in discussione alcuni luoghi comuni interpretativi: quelli che individuano nella presenza di comportamenti “devianti”, o ritenuti moralmente deprecabili dalla maggioranza, la causa della mancata accettazione da parte della maggioranza stessa; e quelli che riconducono la questione ad un problema di “compatibilità culturale”.

Quando si ragiona sulle cause della mancata integrazione dei rom e dei sinti, è frequente che il discorso scivoli sulla cultura, sul particolare stile di vita di queste comunità. Il ricorso al paradigma della etnicizzazione, che assolutizza le differenze culturali e la specificità etnica, può portare ad individuare nella cultura rom o sinta la spiegazione di tutti i problemi di queste comunità. Un ragionamento che spesso si fa, per esempio, per la scarsa scolarizzazione: “nella cultura rom non c'è posto per la scuola, tanto meno per quella dei gadjé, da qui la scarsa motivazione e addirittura l'ostilità”. Ma se la scolarizzazione non funziona i motivi sono, soprattutto, altri.

L'accento sulla distanza/incompatibilità culturale porta a rimuovere i problemi relativi alle condizioni della integrazione socio‑culturale degli zingari [De Angelis 1993]. «In realtà il problema degli zingari si presenta in primo luogo come una questione di politica sociale» [Brazzoduro 1995, p. 58].

Per una corretta interpretazione del problema, occorre legare in un unico sistema l'interpretazione della marginalità zingara, gli stereotipi e i pregiudizi nei confronti delle popolazioni zingare, la consapevolezza degli ostacoli all'integrazione, e la costruzione delle politiche.

Le ragioni di molti rifiuti, di molte inadempienze a livello locale e centrale, sono legate ad opinioni negative diffuse tra gli italiani rispetto agli zingari. Lacune e persino comportamenti illegali da parte dei decisori pubblici si spiegano con il timore di dover affrontare proteste e ostilità da parte della cittadinanza, reazione che alcuni amministratori non sanno come aggirare. Secondo un sondaggio effettuato dall'Ispo per conto della Commissione, gli zingari risultano di gran lunga la minoranza meno popolare in Italia: soltanto l'11,6% degli italiani li giudica simpatici, e in questa opinione negativa sono seguiti a ruota dagli albanesi (23,1%). Questa classifica farebbe supporre che la comune ragione di rifiuto stia nel timore di comportamenti nocivi per la gente comune (taccheggio, furto in casa, atti vandalici), si debba al sospetto di più gravi atti di criminalità (traffico di armi, avviamento alla prostituzione, acquisto e sfruttamento di minori) o al giudizio su comportamenti ritenuti riprovevoli («acquisto di mogli», accattonaggio, lavoro minorile, sporcizia). E' assai probabile però che un analogo sondaggio, svolto tra gli zingari per sapere cosa ne pensano dei gadjé darebbe risultati altrettanto poco lusinghieri per i non zingari.

Per immaginare percorsi di integrazione è necessario cominciare ad incrinare le generalizzazioni negative, e rilevare la distanza tra le immagini pubbliche e la realtà. Sfugge alla conoscenza e alla comprensione degli italiani l'esistenza di un vasto mondo di zingari che vive di attività legali. D'altra parte molti gadjé vogliono ignorare che il piccolo furto costituisce in alcuni casi l'unica strada di sopravvivenza. Così come molti rom fingono di non saper che si tratta in alcuni casi non di attività sporadiche dettate dal bisogno, ma di imprese criminali ben organizzate in cui i ladruncoli sono manovalanza sfruttata. Sfugge ai gadjé la grande difficoltà che una popolazione con qualifiche poco appetibili sul mercato del lavoro può trovare nella ricerca di un'occupazione.

Qualche anno fa Carlo Cuomo [ 1996, pp. 46‑48] ‑ con riferimento alla situazio­ne milanese ‑ dava una efficace rappresentazione dell'intreccio tra marginalità, pregiudizio, rifiuto e devianza, che merita di essere riportata integralmente.

 

Una delle domande che più frequentemente si pongono e ci pongono i «normali» cittadini è questa: «Ma insomma, come fanno a vivere questi zingari? Lavorano, svolgono qualche attività economi­ca?». A queste domande occorre dare risposte attente, articolate, che tengono conto della complessità dei problemi che i rom devono affrontare quotidianamente per sopravvivere.

I tassi di natalità, morbilità, mortalità, analfabetismo e disoccupazione, la segregazione in mediocri campi isolati, i brutali e ripetuti sgomberi notturni, l'«apartheid», il nostro sguardo di diffidenza/disprezzo/paura che accompagna, per tutta la vita, il bambino, l'adolescente, l'adulto rom partoriscono (anche) microcriminalità. ( ... ) I mestieri tradizionali sono entrati in crisi, in un processo che si è accelerato con gli anni Settanta man mano che la moderna economia di mercato faceva scomparire i residui spazi economici «arcaici» (...) Questo vuoto, questa morte dei loro lavori viene riempito da un arrangiarsi quotidiano fatto anche di espedienti. D'altronde spesso i posti di lavoro offerti scompaiono immediatamente, se il richiedente è rom. Le radici socio‑economiche dell'«ano­mia zingara» sono evidenti.

Ma ci sono anche altri aspetti da esaminare. Secoli di discriminazione e di persecuzioni, la «pesante» costanza della nostra ostilità nei loro confronti generano tra i rom una doppia morale: si possono avere verso i membri di una società «nernica» comportamenti inconcepibili all'interno della propria comunità. C'è infine ‑ come a Napoli, a Palermo, nei ghetti afro‑americani e latini delle città americane, nelle periferie delle nostre città ‑ l'elemento di demoralizzazione, di distorsione che introduce nella psicologia di una collettività l'essere a lungo esclusa dal lavoro e rinchiusa nell'economia degli espedienti. Su questa demoralizzazione, su questa distorsione interviene da alcuni anni, creando grande allarme tra i rom più anziani, la malavita organizzata.

( ... ) Ma c'è anche inquietudine, malessere, disagio. Se si riesce a superare la sospettosa diffidenza del rom adulto, si sente spesso ripetere la stessa frase: «Io me la cavo a modo mio e così continuerò ormai. Ma fate qualcosa per questi (e il gesto indica i bambini, i preadolescenti); loro, non è giusto che vadano avanti così». I progressi della scolarizzazione sono legati anche a questo; se appena possono fermarsi, mandano i bambini a scuola, fanno conseguire loro la licenza elementare. il numero dei ragazzi e delle ragazze che frequentano regolarmente le medie fino al conseguimento della licenza aumenta ( ... ). Sottolineo: se appena possono fermarsi. Ogni sgombero è un'interruzione violenta della scolarizzazione, un'aggressione ai diritti dell'infanzia rom.

Ma c'è di più. Le famiglie che scelgono di sedentarizzarsi individualmente nei nostri quartieri cercano e trovano lavoro nascondendo la loro identità, mimetizzandosi. Fra gli abitanti dei campi, c'è chi è riuscito a trovare lavori regolari o attività saltuarie di lavoro dipendente, semplice manovalanza sottopagata. C'è chi ricicla vecchie abilità tradizionali in lavoro autonomo, regolare o irregolare. Una parte delle entrate attuali dei rom provengono da quel poco che sopravvive delle loro antiche attività (giostre, lavorazione del rame, ecc.) e da qualche capacità di riciclare i vecchi mestieri (rottamaio, sfasciacarrozze, raccolta differenziata dei rifiuti, ecc.). In alcuni luoghi ‑ a Milano, per esempio ‑ si sono formate cooperative di rom, che riescono ad ottenere qualche commessa da soddisfare con il lavoro a domicilio.

 

In realtà neppure questo quadro è generalizzabile. Le strategie di sopravvivenza degli zingari variano a seconda delle comunità e dei luoghi, così come varia il loro grado di marginalità ed il loro coinvolgimento nei diversi tipi di attività lavorativa [Revelli 1999, pp. 27‑29]. La lunga citazione richiama tuttavia l'attenzione su un insieme di dati importanti per costruire strategie di integrazione: la molteplicità dei condizionamenti culturali e materiali nel costituire percorsi di integrazione, la possibilità di percorsi positivi persino in situazioni di estrema difficoltà come quella descritta; e la necessità di evitare qualunque ricetta semplice.

Nello svolgere le attività rinnovate o sopravvissute gli zingari si trovano in difficoltà: i costi di affitto aumentano e la stessa disponibilità di zone attrezzate per le giostre diminuiscono; il recupero di materiali si scontra con normative fiscali di cui gli zingari non sono necessariamente a conoscenza. Un fitto tessuto di norme e divieti, di lacci e lacciuoli, soffoca le già scarse chance di questa comunità di cavarsela.

D'altra parte, se di fronte a questa situazione si imbocca la via della chiusura nelle leggi e nelle misure amministrative, bisogna essere consapevoli dei rischi morali e politici che essa comporta. La discriminazione ed il razzismo diventano tanto più pericolosi quando più o meno palesemente si fanno leggi dello stato, perché questa istituzionalizzazione della discriminazione viene percepita come una pubblica autorizzazione alla brutalità. Essa può innescare una spirale di violenza difficile da fermare. Al contrario, se mettiamo un numero crescente di zingari in condizione di vivere in modo decoroso, come molti già fanno, questo migliorerà anche il giudizio dei gadjé, perché non solo la devianza, ma anche il degrado e la miseria generano un ingeneroso disprezzo da parte dei benpensanti. Questo cerchio, il cerchio del malessere e del disprezzo, della paura reciproca, va spezzato subito.

 

2. Le politiche per i rom e sinti in Italia

 

2.1. Leggi, politiche, diritti (4)

Di politiche specifiche in materia di rom e sinti c'è poco nel nostro paese, e quel poco è spesso disatteso. L'unica vera politica nazionale si è avuta in campo scolastico. In questo settore iniziative del governo centrale sono presenti fin dagli anni '60, quando il ministero della Pubblica Istruzione stipula una convenzione con l'Opera Nomadi e con l'Università di Padova che dà l'avvio all'esperienza delle classi speciali per bambini zingari. Negli anni '80, con la definitiva abolizione delle classi speciali e la fine delle convenzioni, le istituzioni scolastiche assumono tutte le competenze in materia. La circolare 207/1986 del M.P.I. stabilisce il principio fondamentale che la scuola costituisce si un obbligo per tutti i bambini rom ma che lo Stato, dal canto suo, ha il compito di favorire in tutti i modi l'espletamento di quest'obbligo. Con la fine degli anni '80 e le Circolari n. 301/89 e n. 205/90 del M.P.I. si afferma la prospettiva interculturale, consolidata poi dalle pronunce del Consiglio Nazionale della Pubblica Istruzione e dalla successiva Circolare n.73 del M.P.I. del 2/3/1994.

Tuttavia, come si vedrà più avanti trattando in modo specifico il settore educativo (par. 2.3), nella pratica l'educazione interculturale, soprattutto per quanto riguarda la scolarizzazione dei bambini rom e sinti, non ha provocato quei radicali cambiamenti che era lecito aspettarsi da tanti proclami: nonostante alcuni indubbi successi, restano molti problemi. E la ragione principale di questa situazione è l'assenza di una politica concertata e globale, della quale la scolarizzazione, ancorché di importanza fondamentale, dovrebbe costituire soltanto una parte. Le politiche scolastiche rispecchiano in modo esemplare le contraddizioni delle politiche per i rom e i sinti nel nostro paese ed offrono un suggerimento generale: la necessità che le politiche abbiano carattere integrato. Il fatto che le politiche scolastiche hanno costituito l'unica politica nazionale attuata in Italia nei confronti dei rom e sinti può essere una delle ragioni dei loro insuccesso.

Altre iniziative hanno visto come protagonista il ministero dell'Interno, che ha sempre svolto in Italia un ruolo importante nell'orientare le politiche in materia di rom e sinti. La prospettiva alla base di questa competenza è evidente: gli zingari vengono considerati principalmente una questione di ordine pubblico. A questo ministero si deve l'istituzione, alla fine degli anni '70, della prima Commissione interministeriale per il problema degli zingari che fallì dopo poche settimane di lavoro. Stessa sorte è toccata ad analoghe commissioni, l'ultima delle quali è stata istituita nel 1994 con decreto della Presidenza del Consiglio dei ministri.

Segnaliamo alcune circolari significative emanate da questo ministero. Nel 1973 viene inviata a tutti i sindaci d'Italia una circolare in cui si chiede di abolire i divieti di sosta ai nomadi e di favorirli in materia di iscrizione anagrafica, licenze di lavoro, aree di sosta e scolarizzazione dei bambini. Nel 1985, una seconda circolare, che si richiama alla precedente, insiste perché sia garantita «una reale uguaglianza degli appartenenti ai gruppi ‑ tra l'altro in grande maggioranza di cittadinanza italiana ‑ e gli altri cittadini» e si fornisca «una adeguata risposta ai bisogni primari delle popolazioni nomade, che al contempo sia rispettosa della cultura e delle tradizioni di vita, estremamente diversificate tra l'altro, delle varie etnie che si ricomprendono nel nomadismo». Colpisce positivamente di questa circolare il riferimento esplicito alla specificità etnica, alla diversità culturale che rom e sinti esprimono, elemento questo assolutamente non trascurabile se si vuole affrontare in modo corretto il problema del l'integrazione di questi gruppi nella società maggioritaria, purché alla specificità non s'attribuiscano impossibilità (ad esempio al lavoro, all'istruzione) tali da funzionare come alibi.

Una circolare più recente (18/1/1991), dal titolo «Insediamenti di nomadi, zingari ed extracomunitari. Attività di vigilanza e controllo», ha tutt'altro tono. Pur deprecando gli episodi di intolleranza e di rifiuto nei confronti degli zingari, che si esprimono ‑ viene detto ‑ con «atti di aperta e talora cruenta ostilità», la circolare sottolinea forse eccessivamente ‑ come è stato fatto notare da Mirella Karpati [1999] ‑ comportamenti e pratiche attribuibili agli stessi zingari quali: «l'accat­tonaggio molesto, la chiromanzia e, nelle ipotesi peggiori, la commissione di reati contro il patrimonio ed in materia di stupefacenti». Tutto ciò esige, si sottolinea nella circolare, una ferma azione di controllo e di vigilanza. Il ministero dell'Interno torna così al ruolo che gli è più consono.

Un altro capitolo interessante nella storia delle politiche italiane in materia di rom e sinti è costituito dalle Leggi regionali. Il riconoscimento dello status di minoranza ai rom e sinti e la tutela della loro cultura, sembra il principio guida che ispira le specifiche leggi regionali, emanate a partire dalla metà degli anni '80. A quella della Regione Veneto (1984) fanno seguito quella del Lazio (1985), della Provincia autonoma di Trento (1985), della Sardegna (1988), del Friuli Venezia Giulia (1988) della Emilia Romagna (1988), della Toscana (1989) e via via di altre regioni.

Elemento comune a tutte queste leggi è il riconoscimento del nomadismo come tratto culturale caratteristico; ne consegue la tutela del diritto al nomadismo e alla sosta nel territorio regionale. Anche se non mancano riferimenti ad altri aspetti delle condizioni di vita (sanità, istruzione, lavoro) è centrale nella proposta di intervento (anche per i limiti oggettivi dell'intervento in altri campi) l'allestimento di aree attrezzate per la sosta dei nomadi.

Nonostante alcuni effetti positivi che queste leggi producono anche a livello nazionale, se non altro perché attivano la discussione sulla condizione generale di rom e sinti nel nostro paese, rimangono alcuni limiti. Il primo è l'identificazione del rom con il nomade. Questo poteva, forse, essere ancora in gran parte vero all'inizio degli anni '80 ma certamente non lo è più oggi. Toscana ed Emilia Romagna hanno apportato nel tempo modifiche alle loro leggi per adattarle alle nuove situazioni di progressiva stanzialità.

Il secondo limite sta nella frequente ritrosia dei comuni ad applicare le leggi regionali (molti non accedono nemmeno ai fondi stanziati) o ad allestire campi in base a quanto la regione, in ottemperanza alle disposizioni europee, ha previsto. Il risultato è l'esistenza di pochi campi strutturati e a norma di legge e, per contro, di molti campi selvaggi e malserviti, che incoraggiano la ghettizzazione dei rom, e che sono stati oggetto della denuncia contenuta nel recente rapporto dell'Errc Il paese dei campi. La segregazione razziale dei rom in Italia (ottobre 2000), sul quale torne­remo più avanti (par. 3.3). Questi stessi campi, di recente, sono spesso diventati il rifugio per quei rom provenienti dai Balcani che si trovano così a vivere in condizione di reclusione forzata.

Alle resistenze a livello locale si aggiungono comportamenti decisamente negativi sul piano nazionale che, a seconda dei casi, acquistano le forme dei vuoti legislativi, della disapplicazione o applicazione lenta e parziale delle norme, delle arbitrarie discrezionalità e delle violazioni vere e proprie. Ad esempio la costante inap­plicazione, da oltre 32 anni, della cosiddetta legge Corona (legge n. 337 del marzo 1968) che obbliga tutti i comuni ad attrezzare piazze per gli spettacoli viaggianti dei giostrai sinti ‑ cosa avvenuta solo in pochi Comuni e spesso in maniera insufficiente. Oppure la persistenza dei cartelli «divieto alla sosta per i nomadi» senza che alcun potere giudiziario, statale, amministrativo intervenga per rilevare l'illegittimità e l'inosservanza di espliciti divieti (Salomoni 2000).

Più recentemente, l'esclusione di rom e sinti dalla legge sulla tutela delle minoranze linguistiche. Il Parlamento italiano, infatti, disattendendo norme, principi ed impegni internazionali, in particolare la Carta Europea delle lingue regionali minoritarie entrata in vigore il 1 marzo 1998 che prevede esplicitamente norme «anche per le lingue sprovviste di territorio come l'yiddish e lo zingaro», ha votato la Legge sulle Minoranze Linguistiche escludendo la minoranza zingara.

I vuoti legislativi e l'arbitraria discrezionalità colpiscono in modo particolare i rom stranieri. L'intensificarsi delle espulsioni contro i rom stranieri, presenti in Italia da decenni o arrivati negli anni '90 a causa dei conflitti bellici nei paesi della ex­ Jugoslavia rappresenta un esito drammatico di questa situazione.

Come si è accennato in precedenza, molti tra gli zingari arrivati negli ultimi decenni sono esclusi dai benefici della legge sull'immigrazione o hanno gravi problemi riguardo al permesso di soggiorno. (5) Inoltre, in presenza dell'intensificarsi del numero di rifugiati, sfuggiti a guerre e persecuzioni, il nostro Paese di fatto non riconosce loro l'asilo politico e restringe sempre più l'accesso al regime della protezione umanitaria. In attesa della nuova legge sull'asilo che giace ancora in Parlamento, questi rom pro­venienti dalla Romania, dal Kosovo e da altri paesi balcanici nei quali sono oggetto di pulizia etnica, finiscono sempre più spesso per essere destinatari di provvedimenti di espulsione.

I problemi derivanti dalla legislazione e dalle sue applicazioni tuttavia non riguardano soltanto i rom stranieri. Le organizzazioni che operano con o per gli zingari hanno più volte denunciato come la storia del rapporto tra gli zingari e la legge in Italia sia una storia di «diritti negati» Il Gruppo di esperti del Consiglio d'Europa ha evidenziato una serie di problemi ricorrenti nelle violazioni dei diritti umani che gli zingari subiscono:

(a) discriminazioni nell'abitazione e nell'accesso al lavoro;

(b) violenze e intimidazioni di gruppi o individui ‑ anche le scritte sui muri contri­buiscono a mantenere un clima di generale terrore;

(c) comportamento non pro­priamente «professionale» da parte della polizia;

(d) l'apparato della giustizia appare spesso poco pronto ad intervenire di fronte a violazioni dei diritti umani dei rom;

(e) il ruolo dei mass‑media nel veicolare stereotipi negativi;

(f) il problema della cit­tadinanza, particolarmente serio per quei rom che hanno passaporti di Stati che non esistono più (ad esempio Jugoslavia, Cecoslovacchia).

Molti di questi problemi si presentano anche in Italia. Negli ultimi tempi critiche sono state mosse da alcuni organismi internazionali all'Italia per la condizione dei rom che vivono nel nostro paese. E' il caso, per esempio, delle osservazioni con­clusive del Committee on the elimination of racial discrimination dell'Onu che nella sua 54 sessione (marzo 1999) ‑ in merito alla Convenzione Internazionale sull'eliminazione di tutte le forme di discriminazione razziale ratificata dall'Italia ‑ denuncia la «segregazione nei campi sosta e l'isolamento politico, economico e culturale che i rom subiscono in Italia». Anche il citato recente documento dell'Errc denuncia, oltre alla chiusura nei campi, varie e molteplici forme di discriminazione (v. par. 3.3).

Come è stato più volte segnalato, le violazioni di cui gli zingari sono vittime riguardano spesso diritti elementari, in grave ed aperto contrasto con la nostra Costituzione. Per riportare soltanto alcuni esempi, il divieto e i limiti imposti alla circolazione e alla sosta sul territorio nazionale violano il diritto di libertà e di movimento; le perquisizioni di baracche e roulotte senza alcun mandato ignorano il principio della inviolabilità del domicilio; le misure repressive generalizzate a tutto il gruppo violano il principio della responsabilità penale personale ecc. gli allon­tanamenti continui da un luogo all'altro vanno contro il diritto/dovere della frequenza scolastica dei bambini. E tanti altri dinieghi di diritti che colpiscono soprattutto i rom stranieri: il divieto di permanere in Italia anche a persone che da 15/20 anni vivono nel nostro paese o che sono fuggite da luoghi in cui è impossibile restare a causa del costante pericolo di vita; la mancanza di norme per i giovani rom nati in Italia e diventati maggiorenni nel nostro paese ai quali viene negata la cittadinanza [Osella 1999; Salomoni 2000].

In particolare l'Opera Nornadi ha sottolineato come il comportamento delle istituzioni sia in aperto contrasto con l'articolo 3 della Costituzione in virtù del quale la Repubblica italiana non soltanto dichiara di riconoscere i diritti, ma si impegna a garantirli e a promuoverli positivamente rimuovendo tutto ciò che, sul piano

economico e sociale, ostacola, limita e nega i valori e i principi costituzionalmente affermati. E, sulla base di questo principio, l'Opera Nomadi ha tenuto a precisare che la «tutela» e la «rimozione degli ostacoli» di cui parla la Costituzione deve tradursi, in materia di rom e sinti, in una politica nazionale globale e sistematica che, a livello generale, persegua come primo obiettivo il riconoscimento ufficiale della minoranza rom, e, a livello settoriale, elabori una serie di politiche specifiche, tra loro co­ordinate, prioritariamente nei settori dell'abitazione, della scuola, della sanità e del lavoro.

Nelle pagine che seguono si cercherà di delineare i tratti principali delle politiche sviluppate in questi settori e di indicare i necessari e possibili sviluppi futuri.

 

2.2. L'abitazione (6)

Le drammatiche condizioni in cui versano molti «campi nomadi» sono l'indicatore più eloquente della gravità del problema zingari. Negli ultimi 12 anni in Italia una quarantina di bambini Rom sono morti bruciati vivi nelle roulottes, o per il freddo o a causa di incidenti domestici dovuti alle condizioni di estremo degrado in cui i sono costretti a vivere nei vari campi delle città. Queste morti sono il segnale di una condizione generale che presenta non soltanto un'assenza di livelli minimi di vivibilità e la negazione radicale del diritto alla casa, ma costituisce anche un formidabile impedimento a realizzare obiettivi minimi nel campo della scuola, della salute, del lavoro (v. 2.3, 2.4, 2.5).

«La parola "campo" richiama due ambiti di significati: condizioni precarie e provvisorietà; collocazione ai margini, allontanamento, segregazione, pratiche di controllo» [Brunello 1996, 14]. In parte il degrado è stato provocato da avvenimenti recenti, come gli arrivi dalla ex‑Jugoslavia: il sovraffollamento provocato da questi arrivi ha fatto saltare gli equilibri interni ai campi e moltiplicato gli insediamenti abusivi [AAVV 1996].

In realtà alla situazione concorre il comportamento delle amministrazioni, fortemente orientato al controllo territoriale, orientamento che ‑ insieme con l'inten­to di assimilare gli zingari ‑ è stato storicamente all'origine dell'idea stessa di «campo nomadi». Questa doppia, concatenata evoluzione ‑ degrado e politiche di controllo ‑ si è accentuata nell'ultimo decennio ed ha significato per gli zingari non soltanto il progressivo degrado delle condizioni di vivibilità dei campi, ma anche la crescita della «insicurezza territoriale», una crescente difficoltà cioè di disporre di luoghi in cui insediarsi senza essere esposti alla minaccia continua di allontanamento. Presso l'opinione pubblica e gli amministratori si è inoltre confennata l'identificazione tra problemi insediativi/abitativi degli zingari e la forma «campo».

Anche i campi autorizzati sono coinvolti in problemi di degrado.

 

Si tratta di ghetti, quasi sempre sovraffollati, in cui non esiste privacy e in cui gruppi tra di loro estranei vengono stipati forzatamente assieme. I bagni e i servizi diventano quasi subito inu­tilizzabili, le situazioni igieniche si fanno intollerabili, le spese di manutenzione onerose. Scoppiano risse che nei piccoli insediamenti costituiti da famiglie allargate non avvenivano o venivano risolte con accordi e allontanamenti temporanei, senza creare titoloni nei giornali. La necessità di creare «capi» e rappresentanti del campo aggiunge nuovi motivi di tensione e di conflitti. Quanto più i campi sono grandi, tanto più crescono l'allarme sociale e l'ostilità in chi abita nei paraggi. C'è chi va a rubare negli appartamenti: tutto il campo è sotto accusa. Chi cerca di trovare un lavoro fuori del campo, non ci riesce. Si rafforza in città l'idea che gente violenta vada ancor più strettamente controllata. Viene avvertita sempre più la necessità di mediatori culturali La stampa cittadina oscilla tra il pietismo, ossia uno scambio tra buoni sentimenti da parte "nostra" e riconoscenza da parte "loro", e un misto di rifiuto e di disprezzo nei confronti di gente percepita come massa indistinta. Torna ricorrente la proposta di munire i rom di tessere magnetiche per facilitame il controllo. Quando si crea un ghetto, bisogna poi presidiarlo. Molti campi sono sorvegliati notte e giorno: l'incarico può essere dato a una cooperativa, a vigili urbani, a vigilantes. Tutto ciò richiede costi molto alti [Brunello 1996, 17‑18].

 

In realtà è opportuno fare delle distinzioni. La qualità abitativa dei campi varia notevolmente e la formula manifesta gradi differenti di appropriatezza o inap­propriatezza a seconda dei casi, e i limiti del campo non escludono il realizzarsi di esperienze positive, quando ad esempio si tratti di insediamenti di gruppi familiari [La Penna 2000, Marcetti e Solimano 1998, Caritas Ambrosiana 1999]. Tuttavia si deve ammettere che il bilancio complessivo delle esperienze con questa formula è un bilancio negativo, sia per quanto riguarda le conseguenze per i loro abitanti sia per quanto riguarda le relazioni con la società circostante e i problemi che essi pongono alle amministrazioni locali. Situati in aree degradate e isolate dalla città, sovraffollati, abitati da gruppi di diversa provenienza, concepiti secondo criteri che sono estranei alle culture zingare, questi campi ‑ lungi dal funzionare come luoghi dell'inserimento ‑ si sono caratterizzati piuttosto come «luoghi di esclusione organizzata» [Humeau 1995]. L'adattamento negativo accelera la destrutturazione delle culture zingare, e può favorire l'accesso a subculture devianti [Calabrò 1992].

L'intenzione di controllo della presenza degli zingari sul territorio, circoscrivendola nello spazio [Piasere 1991, Karpati 1998] segna irreparabilmente l'esperienza dei campi nomadi e ne determina l'urbanistica, una «urbanistica del disprezzo», per citare la fortunata definizione di Corrado Marcetti e Nicola Solimano [1993]. Questa intenzione abbassa quasi di necessità le condizioni di vivibilità nei campi, fino a limiti estremi; sostiene circoli viziosi che alimentano la marginaliz­zazione di queste popolazioni e allontanano ulteriormente le opportunità di inserimento.

Dalla critica e dal dibattito in corso appare che vi sono alternative a questa formula. La ricerca di alternative, da tempo in corso in Europa, interessa anche l'Italia, e ha trovato alcune prime espressioni in alcune leggi regionali (Toscana, Emilia‑Romagna ... ) e nei più recenti programmi di qualche città [v. Caritas 1999].

Prendere le distanze dal modello «campo» significa anzitutto perseguire una pluralizzazione delle formule. La pluralità delle formule serve a realizzare, in modi diversi, criteri di appropriatezza, a misura della diversità delle situazioni, delle esigenze e dei progetti di vita degli interessati. Le soluzioni devono rispondere sia alla domanda di sedentarizzazione sia alla domanda di nomadismo. Inoltre devono rispondere alle diverse esigenze che vengono da popolazioni/gruppi etnici diversi. Infine devono rispondere alle differenti opzioni abitative che possono derivare da modelli e progetti diversi [Opera Nomadi 1999].

In questo senso non c'è tipologia che possa essere esclusa, in linea di principio, dalla gamma delle soluzioni: abitazioni ordinarie, di produzione pubblica o privata; «alloggi sociali» (del tipo previsto ad esempio dalla L. 40/98); aree attrezzate in funzione residenziale; «villaggi»; aree di sosta, campi di transito. Così non esiste

processo di produzione o misura di sostegno di cui non valga la pena di indagare l'appropriatezza e l'efficacia: facilitazione dell'accesso a case convenzionali, in particolare all'edilizia pubblica; recupero di edifici pubblici e privati; auto­costruzione; facilitazioni per la messa a norma e per la manutenzione; sostegno a soluzioni private, per l'acquisizione di terreni o per l'acquisto di roulotte; miglioramento dei campi attuali; recupero di insediamenti abusivi.

Per un altro verso è necessario considerare il problema e le soluzioni come ‑ comunque ‑ «abitative», in funzione di criteri specifici di appropriatezza. Si tratta di ammettere la legittimità di sistemazioni differenti da quelle convenzionali o pre­valenti nelle nostre società (la fissità della residenza in case), e di riconoscere la loro natura abitativa pur con tutti i problemi che ad essa si accompagnano. D'altra parte la pluralizzazione delle formule ha anche questo significato: significa rifiutare l'idea (che non trova applicazione per altre popolazioni) che una popolazione possa essere «assegnata» ad una particolare formula abitativa. Occorre invece rendere possibile una libertà di scelta nell'abitare.

La principale indicazione emersa in questi anni è il modello del piccolo campo a base familiare, un modello che ormai circola come un comune riferimento per ripensare gli insediamenti zingari, e che è anche osservabile nelle pratiche spontanee, nell'autoinsediamento su terreni privati, di alcune popolazioni zingare (gruppi di sinti, di kalderash ... ). Su questo modello bisognerebbe essere cauti, soprattutto per quanto riguarda l'aspetto dimensionale. Il consenso sulle «piccole» dimensioni oggi è molto diffuso, ma per una serie di ragioni differenti che rendono tale consenso abbastanza ambiguo. Insistere sull'aspetto dimensionale può significare l'adesione alla diffusa ideologia che identifica la soluzione del problema con l'occultamento della presenza degli zingari, con una oggettiva convergenza con il pregiudizio negativo nei confronti degli zingari (una struttura di pregiudizio che ben conosciamo nel caso degli immigrati stranieri).

In realtà non è tanto il numero di persone o di nuclei familiari o la dimensione della rete familiare che si insedia a qualificare la novità o l'aspetto positivo del modello. Si tratta piuttosto della capacità di queste strutture di consentire, invece di ostacolare, le relazioni di famiglia allargata e le attività economiche dei residenti. Semmai conviene insistere sulle specifiche connotazioni abitative cui le ridotte dimensioni sarebbero funzionali: il carattere familiare dell'insediamento, la costi­tuzione di uno spazio esplicitamente domestico, la possibilità di appropriazione e di autonomia, la flessibilità d'uso che questi luoghi consentono.

La critica al concetto di campo non significa che l'idea di strutture offerte dall'amministrazione pubblica debba essere rifiutata in qualunque forma. Significa da un lato che l'offerta di strutture specifiche e destinate ai soli zingari non può essere la preoccupazione prioritaria delle politiche pubbliche; semmai, se c'è una linea prioritaria per le politiche pubbliche, essa dovrebbe consistere nel facilitare ‑ per chi lo volesse ‑ l'uscita dai campi: è questo uno degli obiettivi della pluralizzazione delle misure. Da un altro lato la critica dovrebbe tradursi in un ripensamento delle strut­ture ad hoc, in modo da rendere tali strutture appropriate alle esigenze dei loro abitanti.

I criteri per l'innovazione dovrebbero essere soprattutto due: introdurre principi di autonomia e di responsabilità degli abitanti nella produzione e nella gestione delle strutture; e realizzarvi elementi di residenzialità (come peraltro già previsto da diverse leggi regionali). A medio/lungo termine probabilmente la realizzazione di strutture propriamente residenziali ‑ destinate a situazioni di insediamento stabile ‑ sarà la linea dominante nel rinnovare l'intervento pubblico. Ma l'introduzione di elementi abitativi dovrebbe riguardare l'intera gamma dell'offerta, comprese le aree di transito; e dovrebbe essere un criterio fondamentale nel riqualificare gli insediamenti esistenti.

Sulla base dei principi enunciati, si possono costruire politiche più appropriate, ma anche meno costose e meno traumatiche. E' necessario a questo fine pensare a politiche insediative che non si limitino a creare strutture in cui alloggiare gli zingari: la costruzione di risposte accettabili deve lavorare ‑ più che sulla definizione delle tipologie dell'offerta ‑ sulla realizzazione delle condizioni da cui dipende l'appropriatezza delle soluzioni.

L'orizzonte è quello di politiche pubbliche orientate a logiche di sostegno nei confronti delle iniziative degli interessati, di facilitazione nei confronti delle capacità di soluzione che le popolazioni e la società locale sono in grado di realizzare. L'amministrazione pubblica potrebbe ‑ piuttosto che realizzare campi ‑ creare le condizioni per l'insediamento, offrendo facilitazioni di base che possano essere sviluppate a seconda delle esigenze, facendo affidamento sulle risorse degli interessati, eliminando gli ostacoli, e così via. Questa strategia costituirebbe un deciso allontanamento da logiche assistenzialistiche ed avrebbe conseguenze pratiche importanti: non soltanto modificherebbe il modo di concepire i campi e la loro produzione, ma obbligherebbe a diversificare le politiche.

In quest'ottica, la produzione diretta diventa soltanto una delle soluzioni possibili. Questa riconversione delle politiche comporterebbe l'introduzione, in aggiunta o in alternativa alla realizzazione di campi, di misure a sostegno di soluzioni private, a sostegno dell'acquisizione di terreni (in proprietà o in affitto), a sostegno dell'acquisto di roulotte ed altro.

Nella nuova prospettiva è essenziale adottare modi di costruire e di gestire i campi che coinvolgano i loro abitanti ‑ le loro risorse, anche finanziarie, e le loro capacità ‑ in tutti i diversi momenti del processo, a partire dalla progettazione. Inoltre, occorre lavorare sulle condizioni contestuali da cui dipende la praticabilità delle buone soluzioni. Anzitutto i vincoli costituiti dalla struttura consolidata delle politiche generali (abitative e urbanistiche in particolare) e dalle barriere normative e istituzionali che si frappongono alle politiche di inserimento/insediamento degli zingari. Si tratta di ostacoli che per certi aspetti richiedono di innovare la normativa regionale o nazionale, ma a livello locale molto può essere fatto cercando di «far evolvere» le regole amministrative, in modo da adattarle a queste specifiche esigenze.

Infine, la sicurezza insediativa e territoriale ‑ la possibilità di fermarsi senza più l'incubo degli sgomberi; la sicurezza del titolo di occupazione; la libertà dalle perquisizioni a tappeto e dalle intrusioni territoriali ‑ deve essere considerata come un prerequisito delle soluzioni, deve precedere qualunque discussione sulle formule e le tipologie insediative da adottare. Senza sicurezza territoriale non c'è possibilità di costruire progetti e percorsi.

 

2.3. La scuola (7)

All'interno di una riflessione sulle strategie di integrazione di rom e sinti nella società maggioritaria, il discorso sulla scuola, sul suo ruolo e la sua funzione, acquista una rilevanza indiscutibile. La scolarizzazione, da intendersi come innalzamento dei livelli di istruzione e formazione professionale, svolge un ruolo essenziale nel rimuovere alcuni degli ostacoli all'avvio del processo di integrazione. Però, se non si vuole confondere integrazione con assimilazione, i contenuti e le finalità della scolariz­zazione vanno adeguatamente meditati.

Due sono le esigenze, potenzialmente confliggenti, da contemperare. Una è quella di fornire ai bambini zingari le strumentalità di base sulle quali fondare il perseguimento dell'acquisizione di una dotazione minima di conoscenze e abilità che consentano loro di non farsi sommergere o emarginare dalla complessità del mondo contemporaneo. L'altra esigenza è quella di rispettare la loro cultura, il loro stile di vita. Ma non come mero esercizio retorico né con astratti proclami, quanto attraverso comportamenti concreti, con atti dai quali risulti inequivocabilmente che la cultura di rom e sinti è sì diversa, ma è meritevole di rispetto e considerazione.

Molte scuole hanno già avviato progetti caratterizzati da una forte apertura alla diversità culturale ma bisogna fare di più. Innanzitutto estendere capillarmente sul territorio nazionale questo nuovo spirito vincendo le sacche di resistenza e pregiudizio tuttora esistenti. Ma soprattutto occorre assumere piena consapevolezza del ruolo strategico che la scuola, in quanto fondamentale agenzia di socializzazione, può e deve svolgere.

Non basta più limitarsi a una pur lodevole apertura e attenzione alle altre culture. La scuola deve ambire a farsi veicolo di un rafforzamento del legame tra scolari e studenti stranieri appartenenti a minoranze e la loro propria cultura perché così il minoritario, nel nostro caso lo zingaro, avverte nei fatti che l'incontro possibile non è mera assimilazione ma è integrazione come convergenza a partire da una base di mutuo rispetto. Nell'accoglienza, ma anche nell'impostazione generale e nei contenuti didattici vanno calati i principi della pedagogia interculturale. In tal modo ci si pone sulla buona strada per conseguire due risultati: primo, la riduzione sensibile del rischio che i bambini zingari si sentano espressione di una cultura inferiore, emarginata e disprezzata e quindi assumano un atteggiamento o di reazione aggressiva o di intimidita insicurezza perché si autopercepiscono come inadeguati o non all'altezza. Secondo, la diffusione tra le nuove generazioni di italiani della consapevolezza del valore del rispetto delle diversità, siano esse etniche, linguistiche, di stile di vita.

La scuola già si sta avviando nella giusta direzione. La pedagogia interculturale è entrata a pieno titolo nell'impostazione generale. Anche rispetto alla questione specifica dell'integrazione di rom e sinti si registrano posizioni di grande apertura e corretto approccio da parte del ministero preposto. Certo siamo ancora ben lontani da una situazione in cui quei principi e quegli orizzonti culturali e valoriali costituiscano la prassi quotidiana in quanto patrimonio assimilato e digerito dal corpo docente ad ogni livello. E sicuramente ci vorrà del tempo perché la scuola non è un corpo separato dalla società e pertanto non può non essere intrisa degli umori e anche dei pregiudizi e delle chiusure che percorrono parte della società.

Come abbiamo accennato in precedenza, abbracciato il modello della pedagogia interculturale, gli anni '90 registrano uno sforzo costante in direzione di una precisazione e articolazione di questo modello. Il Consiglio Nazionale della Pubblica Istruzione, in un documento elaborato nel 1992, mette a fuoco le implicazioni di una corretta educazione interculturale e nel 1993 ritorna sull'argomento nella “Pronuncia in merito alla tutela delle minoranze linguistiche”, nella quale si elenca, tra le varie minoranze a cui prestare attenzione, anche quella dei rom e sinti. Nel frattempo presso la Direzione Generale per l'Istruzione Elementare del M.P.I. viene creato un gruppo interdirezionale di lavoro per l'educazione interculturale e l'integrazione degli alunni stranieri. A questo organismo dobbiamo un documento intitolato: “II dialogo interculturale e la convivenza democratica” emanato come allegato alla Circolare ministeriale n. 73 del 1994. Due sono le caratteristiche salienti del documento: da una parte esso ribadisce l'impostazione interculturale, dall'altra, sottolinea che gli zingari, come gruppo etnico distinto, sono sia una minoranza interna, sia una componente straniera.

Negli anni successivi, l'iniziativa più interessante e feconda nel campo della scolarizzazione dei minori rom e sinti è stata quella della formazione di mediatori culturali di etnia rom da adibire a compiti di mediazione nelle scuole. L'esperimento pilota ha avuto luogo a Milano ed è consistito nella formazione di 11 mediatori che poi hanno preso servizio in regime di convenzione in alcune scuole. Successivamente, nel 1996, l'esperimento è stato esteso su impulso del M.P.I. a quattro città (Torino, Milano, Mantova e Roma) e attraverso di esso sono stati formati 75 mediatori culturali rom e sinti. Purtroppo però questa linea di condotta, pur collocandosi nel giusto alveo, non ha avuto seguito, ma certamente sarà necessario riprendere quelle iniziative perché senza mediazione, senza figure di cerniera tra le due culture, l'esito positivo della scolarizzazione sarà più aleatorio. L'attiva presenza di mediatori rom adeguatamente preparati può, infatti, costituire la carta vincente per l'attenuazione se non l'abbattimento della radicata resistenza alla scolarizzazione, guardata talvolta con diffidenza se non con ostilità, perché considerata strumento di allontanamento dei figli dal solco della tradizione familiare.

La vasta dispersione registrata tra i bambini zingari solleva un problema, fa accendere una spia di pericolo e quindi segnala la necessità di un intervento adeguato. L'obiettivo primario è pertanto quello di puntare nel più breve tempo possibile all'adempimento totale dell'obbligo scolastico (tenendo ben presente che l'obbligo implica un impegno bilaterale: da parte delle famiglie e da parte dell'istituzione tenuta a predisporre le condizioni che lo favoriscono o ad abbattere gli ostacoli che lo impediscono). Tuttavia non è sufficiente seguire l'andamento dei progetti di scolarizzazione limitandosi a controllare le cifre relative alle iscrizioni e alle frequen­ze. C'è un'altra faccia della medaglia: quella che riguarda i contenuti dell'apprendimento, le strategie di insegnamento e i metodi pedagogici che debbono adattarsi alle particolari esigenze dei bambini rom e sinti, pena l'insuccesso dell'intero processo.

Alcune indagini qualitative [Brazzoduro 2000] volte a valutare il processo di scolarizzazione nei termini dell'apprendimento della strumentalità di base evidenziano che gli ostacoli più robusti sulla strada di un apprendimento sufficiente sono i seguenti.

L'irregolarità della frequenza. L'incostanza della frequenza risulta legata ad una pluralità di fattori, i più importanti dei quali sono la gracilità della motivazione, la scarsa abitudine alla puntualità, la salute cagionevole e la povertà. Su ciascuno di questi svantaggi sarebbe possibile e necessario un intervento. Le condizioni di partenza dei bambini zingari non sono uguali a quelle dei coetanei. A casa parlano il romanès; pertanto, specialmente all'inizio, l'andare a scuola assume per loro il significato di avventurarsi in un altro mondo in cui si parla una lingua diversa e quindi si deve scontare quella situazione di inferiorità identificabile nella pura e semplice difficoltà di comunicare. Inoltre, questa condizione di innegabile svantaggio iniziale è rafforzata dalla deprivazione culturale (nel senso ristretto che investe solo l'aspetto relativo all'istruzione) dell'ambiente familiare: i genitori stessi spesso sono analfabeti e in ogni modo si esprimono in un italiano molto più approssimativo di quello dei figli. In questa situazione già fortemente compromessa, la presenza sporadica a scuola moltiplica la difficoltà di apprendimento delle abilità strumentali di base (leggere, scrivere, calcolare), che necessita invece di un esercizio metodico e sistematico.

La marginalità. La vita ai margini della società tra gli esclusi dai circuiti dei rapporti societari «normali» non può non investire i figli dei rom e la scuola che è concepita non come strumento di integrazione o forse come strumento di una integrazione impossibile per chi vede la propria vita svolgersi altrove in territori diversi e con regole differenti. In questi casi la scolarizzazione è un'utopia. Prima di proporla è necessaria un'operazione preliminare di bonifica sociale imperniata sull'indicazione di un percorso di fuoriuscita dalla povertà e dalla devianza.

L'insuccesso. Gli svantaggi di partenza, ai quali si è accennato, costringono il bambino zingaro in una condizione di difesa: spesso non capisce anche concetti semplici solo per il fatto che sfuggono alla sua comprensione termini elementari. L'inevitabile rosario di piccoli insuccessi, anche se non rimarcati né tanto meno stigmatizzati dall'insegnante, la consapevolezza di non «essere all'altezza» degli altri tende a deprimere il senso di autostima dei bambini e in ultima analisi a situare l'esperienza scolastica tra le fonti di possibili disagi. Nel confronto sulla padronanza delle abilità scolastiche i bambini zingari risultano perdenti. La supremazia e la stima degli altri si conseguono tra di loro ricorrendo ad altri parametri di giudizio, quelli dettati dalle «virtù di strada», legate soprattutto alla fisicità (velocità, forza, resistenza, coraggio ecc.), che contrastano in maniera più o meno spiccata con le virtù scolastiche. Da qui la necessità di affrontare e risolvere un problema tutt'altro che facile e che se non padroneggiato con equilibrio, pazienza e molta professionalità, rischia di provocare l'abbandono per insofferenza da parte del bambino zingaro che spesso non aspetta altro che un pretesto per giustificare, di fronte a se stesso e agli altri, la fine di un'esperienza faticosa e poco gratificante. Ma si tratterebbe comunque di una sconfitta della scuola, un venir meno ai suoi compiti istituzionali.

Difficoltà specifiche. L'indagine comparativa tra i bambini zingari e i bambini di comunità straniere mette in evidenza come per i bambini rom le difficoltà di inserimento legate alla lingua, comuni a tutti i bambini stranieri, zingari e non, si intrecciano con altre difficoltà specifiche legate alle peculiarità della loro cultura e

della loro collocazione sociale. In breve, i bambini stranieri sono fortemente motivati all'integrazione socio‑economica, spesso fino all'assimilazione che in alcuni casi perseguono strategicamente, e quindi assumono la scuola come fattore di accelera­zione dell'inclusione e strumento privilegiato di mobilità sociale. Di contro, gli zingari, in maggioranza, rifiutano non solo l'assimilazione, come è giusto, ma spesso anche l'integrazione, intesa come interazione con gli altri, che temono possa condurli a una perdita di identità foriera di una diaspora e quindi alla scomparsa come gruppo etnico distinto.

L'ostilitá ambientale. Nel contesto scolastico assistiamo a due tipi di diffidenza e di ostilità nei confronti dei bambini zingari, uno proprio dell'istituzione e uno proprio dei genitori e bambini non zingari.

Il primo si manifesta in varie forme di «resistenza passiva» delle istituzioni, come per esempio nel frapporre ostacoli alle iscrizioni che spesso, per una serie di ragioni, non possono essere effettuate entro i termini burocratici. Oppure si esprime in varie forme di «neutralizzazione» della presenza degli zingari a scuola attraverso il loro «parcheggio» fuori della classe affinché la loro vivacità o indisciplina non ostacoli il regolare svolgimento dell'attività didattica. Ancora, l'inadeguatezza istituzionale si manifesta nel limitarsi a considerare i bambini zingari «come gli altri»; questo aspetto costituisce inequivocabilmente un segnale eloquente di accettazione e apertura cui va attribuita la giusta rilevanza, tuttavia non basta perché i bambini zingari, in considerazione della molteplicità di svantaggi socio‑economici e formativi da cui sono caratterizzati, richiedono un'attenzione e un impegno specifici nei termini delle «azioni positive» mirate a compensare i dislivelli di partenza.

L'ostilità di alcuni genitori dei bambini non zingari si esprime invece in una pressione esercitata sui direttori didattici e insegnanti che varia dalla richiesta che il loro figlio non sieda vicino allo zingaro in classe o a mensa, al ritiro del bambino da scuola, all'accusa di furto o di sporcizia, o di infettività. In questi casi sta alla fermezza coniugata con la capacità di persuasione di direttori e insegnanti fronteggiare l'ostilità e riuscire a trasformarla in accettazione convinta. I bambini non zingari creano di solito meno problemi. Ma non mancano episodi, imputabili più alla dinamica dei rapporti infantili, alle volte crudeli e spietati nella coalizione dei più forti contro il più debole o il diverso, che non a vera e propria ostilità etnica o razziale. In questo caso è ampiamente sufficiente la vigile presenza dell'insegnante ad evitare l'isolamento o l'espulsione dal gruppo della classe la cui costruzione e affiatamento rientra ormai nell'impegno pedagogico di routine in ogni scuola.

L'impreparazione degli insegnanti. La complessità della problematica relativa alla scolarizzazione dei bambini zingari è stata ampiamente sottovalutata fidando nella professionalità degli insegnanti già alle prese con l'inserimento di sempre più numerosi bambini stranieri. Ma la scolarizzazione degli zingari richiede strumenti didattici e competenze specifiche che non si possono improvvisare. Numerosi insegnanti interpellati hanno confessato la propria incertezza dovuta alla scarsa conoscenza del mondo degli zingari e la conseguente necessità di procedere a tentoni in condizioni generali spesso complesse (presenza contemporanea di zingari, stranieri, handicappati e soggetti a rischio). Molti insegnanti, pur avendo partecipato a corsi d'aggiornamento sul multiculturalismo, lamentano l'impostazione eccessivamente teorica dei corsi e la difficoltà di tradurre la didattica interculturale in atti concreti nel lavoro svolto quotidianamente in classe.

Per quanto riguarda la scolarizzazione dei bambini zingari, l'aggiornamento di tipo convenzionale, svolto in situazioni di lezione frontale, è destinato a produrre esiti scarsi se non a fallire del tutto. Sembra più utile reimpostare l'aggiornamento iniziando da forme di auto‑formazione a partire dal coinvolgimento degli insegnanti più motivati ai quali si dovrebbero offrire forme specifiche e continuative di tutoraggio a carico di esperti. Un ulteriore elemento che nuoce all'efficacia del progetto è dato dal sentimento di «solitudine» avvertito da molti insegnanti che non vedono adeguatamente apprezzati ‑ laddove ci sono e non si tratta solo di eccezioni ‑ gli sforzi compiuti. Tale solitudine va superata fornendo agli insegnanti un sostegno costante e, contemporaneamente, rafforzandone le motivazioni.

L'inadeguatezza istituzionale. Il supporto fornito dalle istituzioni centrali risulta scarso, al limite dell'inesistenza. Pertanto è quanto mai necessaria la collaborazione e il coordinamento dei diversi soggetti coinvolti: il Comune, il Provveditorato agli Studi, le cooperative sociali che gestiscono trasporti e rapporti col campo, gli assistenti sociali circoscrizionali, i vigili urbani.

Giungendo alle conclusioni di quest'analisi, possiamo dire che il processo di scolarizzazione, nel suo complesso, registra degli indubbi miglioramenti. Di anno in anno i bambini iscritti a scuola aumentano e questo semplice fatto non può non essere fonte di compiacimento. Tuttavia non ci si può sottrarre alla considerazione che, se si entra nel dettaglio delle statistiche, la frequenza regolare riguarda una percentuale ridotta dei minori in obbligo scolastico. La ricerca delle cause di questa situazione, che rovescia in negativo il giudizio dianzi espresso, esige una approfondita riflessione lungo tre assi principali:

1. le condizioni di povertà estrema in cui si dibatte la maggior parte delle famiglie zingare. La stragrande maggioranza degli zingari vive in baraccopoli degradate, assediate dal fango, dai rifiuti, dai ratti, dagli scarafaggi, dalle rane. La preoccupazione che sta in cima ai loro pensieri è quella della sopravvivenza giornaliera. Le famiglie sono numerose, i lavori saltuari. Senz'acqua difficile è lavarsi, specie per bambini che trascorrono gran parte del loro tempo all'aperto. Naturalmente queste condizioni di vita ‑ spesso al di sotto della soglia minima di decenza ‑ i bambini le portano addosso come un marchio. La loro diversità è evidente. E' comprensibile quindi che a molti di loro o dei loro genitori risulti arduo subire l'emarginazione o la stigmatizzazione dei gadjé e quindi preferisca non avventurarsi fuori del proprio territorio per non incorrere nel rischio del rigetto.

2. La pedagogia. La valutazione dei livelli d'istruzione conseguiti dai bambini zingari nel loro percorso scolastico alle diverse età e durate di permanenza consente di registrare innanzitutto una grande difficoltà. Lo svantaggio iniziale ‑ nel primo anno di scuola per molti di loro l'italiano è una lingua straniera di cui conoscono poche parole ‑ viene faticosamente ridotto ma mai completamente colmato anche dai più brillanti. D'altra parte gli abbandoni sono frequenti, le iscrizioni alle scuole superiori sono rarissime, alle medie inferiori i frequentanti sono pochi.

Per una corretta impostazione di una pedagogia adeguata agli zingari in primo luogo occorre evitare il «razzismo istituzionale» di una scuola rigida nei programmi e sclerotizzata nei metodi, condizioni queste idonee a innescare la sensazione di «non essere all'altezza», presupposto a sua volta di abbandoni indotti dalla caduta dell'autostima di cui è indice eloquente la convinzione che «la scuola non è fatta per noi».

Gli obiettivi da perseguire sono quelli di un apprendimento delle strumentalità di base per agevolare l'acquisizione di capacità idonee a un adattamento all'ambiente. Ne consegue che i contenuti dell'insegnamento non debbono essere rigidamente prefissati ma variabili e flessibili in modo da adatttarsi alle diverse circostanze ed esigenze concrete via via che si manifestano.

3. La cultura zingara. Una delle questioni centrali che investono dram­maticamente il mondo degli zingari è rappresentata dallo scontro tra la loro cultura tradizionale e la cultura dominante. In questo confronto e scontro la cultura più debole, non solo perché minoritaria ma soprattutto perché meno aderente alla realtà materiale, risulta perdente. In questo contesto la cultura zingara e la stessa identità collettiva del popolo zingaro, per arginare il rischio della dissoluzione, deve intraprendere un tragitto di adattamento attraverso il mutamento, deve fare i conti con la modernità delle società occidentali e impadronirsi degli aspetti strumentali del sapere scientifico e del fare tecnico, pena il suo decadimento. Tale processo può avere un esito positivo se le comunità rom e sinte riescono nell'impresa di coniugare la conservazione di un nucleo di valori costituenti il nocciolo della loro identità con l'acquisizione di nuove pratiche sociali correlate all'inclusione e relative "regole".

La scuola costituisce fuor di dubbio lo strumento e l'ambiente privilegiato anzi obbligato di questa acquisizione. Ma essa reca in sé un'ambivalenza nei confronti delle culture diverse da quella maggioritaria: infatti, può essere o diventare uno strumento di assimilazione ovvero di deculturazione. Per ovviare a questo pericolo la scuola deve essere impostata, quanto ad obiettivi e metodologie didattiche, in modo da non porsi in rotta di collisione con la famiglia dei bambini zingari. Il timore che a scuola il bambino possa acquisire conoscenze e assimilare valori suscettibili di creare conflitti è assai diffuso. Talvolta i genitori zingari oppongono resistenza alla scolarizzazione dei loro figli perché temono che la scuola, istituzione dei gadjé, glieli rapisca, se non letteralmente, certo metaforicamente nel senso appunto di impartire una socializzazione contrastante con quella di casa. I genitori intuiscono sia il rischio che i figli possano intraprendere un percorso che li allontana dalla famiglia e dalla comunità o che comunque li sconcerta, li confonde con la proposizione di valori e visioni del mondo a loro estranee. Per avviare un processo di scolarizzazione con sufficienti probabilità di successo è ineludibile quindi coinvolgere la famiglia, sia per dimostrare che la scuola non è territorio ostile, ambiente dei gadjé ma realtà che appartiene a tutti e quindi anche a loro, sia per manifestare apertamente la disponibilità a una collaborazione reale e non fittizia imperniata sulla complementarietà dialogante delle due agenzie di socializzazione.

 

2.4. La salute (8)

Dall'analisi della letteratura scientifica sull'argomento si evidenzia chiaramente che le famiglie zingare vengono considerate, in tutto il mondo, come svantaggiate nel campo della salute e come le cause di ciò siano complesse e molteplici. I principali fattori di questo svantaggio vengono identificati nei seguenti:

‑ situazioni abitative altamente degradate sia per le comunità nomadi che per quelle sedentarie;

‑ povertà oggettiva;

‑ pregiudizi e discriminazioni, anche per il loro atteggiamento di separazione dalla società ospite;

‑ incapacità dei sistemi sanitari ufficiali di rispondere alle esigenze di salute poste da queste comunità e dal loro stile di vita, fino ad arrivare ad una non accoglienza, se non aperta ostilità.

‑ inaccessibilità ai sistemi sanitari ufficiali legata ad una burocratizzazione eccessiva e complessa e ad una politica non sempre attenta.

Questi fattori, più che l'etnicità, la tradizione, i tabù o la consanguineità devono essere oggetto dell'attenzione dei pianificatori sanitari. Se anche si afferma, infatti, che in molti casi l'ambiente generale e lo stile di vita specifico di una comunità possono essere fattori determinanti per la salute più importanti dell'organizzazione sanitaria ‑ e questa è una osservazione pertinente proprio per i gruppi realmente «nomadi» ‑ ciò non assolve le agenzie nazionali preposte alla tutela della salute dal dovere sia di conoscere per capire, sia di costruire ponti per incontrare a metà strada coloro che intendono la salute in modo diverso dai procedimenti ufficiali.

Per quanto riguarda i bambini, in particolare quelli che vivono nei campi sosta più o meno attrezzati dove la condizione di salute é gravemente compromessa, le principali «aree critiche» risultano la mortalità infantile e le nascite sottopeso. La mortalità perinatale fra gli zingari non è molto cambiata negli ultimi quindici anni mentre quella dei non zingari è diminuita del 50%. C'è una differenza significativa nella distribuzione delle cause di morte: fra i non zingari le anomalie congenite sono la causa maggiore di morte nella prima settimana, mentre le infezioni lo sono nel primo mese o primo anno di vita. Per gli zingari, invece, già nella prima settimana un numero significativo di morti è per infezioni e questo aumenta ancora di più con il tempo; anche per i bambini zingari nati prematuri, che poi muoiono nel primo mese, la causa principale sono le infezioni. (9) Per quanto riguarda il peso alla nascita uno studio a livello nazionale (anni 1996‑1999) dimostra che sotto i 1.500 gr. i bimbi zingari sono il 2,2% e tra i 1.500 e 2.500 gr. sono il 13% contro rispettivamente l'1,2% e il 5,6% dei bimbi non zingari. Nel Lazio (tra il 1992 e 1996) i bimbi sottopeso tra i nomadi sono il 2% (sotto i 1.500 gr) contro lo 0,9% dei romani e il 13,6% sotto i 2.500 gr. contro il 4,3%.

A questi si potrebbero aggiungere molte altre segnalazioni provenienti dai reparti di ostetricia degli ospedali più utilizzati dalle donne zingare, che evidenziano la frequenza sia dei parti pre‑termine che del basso peso alla nascita dei bambini zingari; è interessante comunque segnalare che nessuno studio da noi revisionato invoca come causa di ciò fattori genetico‑antropometrici, bensì le condizioni di vita, il cattivo stato di nutrizione delle madri ed il tabagismo.

Anche tra gli adulti esistono pesanti fattori di rischio e condizioni di salute compromesse; vari studi sulla salute fra gli zingari sono concordi rispetto alla elevata prevalenza di patologie croniche con rilevanti fattori di rischio per eventi cardio e cerebro‑vascolari. Alcuni dati interessanti ci vengono forniti da vari lavori di campo. In uno studio condotto nel 1996 a Milano, l'Ambulatorio Mobile del Naga rileva che fra i maschi giovani‑adulti (15‑44 anni) le patologie cardio-circolatorie rappresentano il 22,2% dei problemi, seguite dalle patologie cutanee e da quelle a carico dell'apparato digerente. Le patologie traumatiche costituiscono l'8,9% dei proble­mi. (10) Interessanti anche i dati raccolti a Roma nel periodo settembre '97‑giugno '98, durante il quale sono stati visitati presso il Centro Medico Mobile (CMM) della Caritas 287 pazienti. Nella fascia d'età compresa tra i 15 e i 45 anni, gli uomini sono stati 88 e le donne 135; mentre sopra i 45 anni gli uomini sono stati 20 e le donne 44. Quest'analisi ha confermato che le principali patologie riguardano problemi respiratori, cardio‑circolatori e osteo‑articolari; nelle donne si riscontrano, inoltre, frequenti disturbi dell'apparato digerente.

Delineato lo stato di salute dei rom presenti in Italia, passiamo ora ad analizzare le politiche messe in atto per la promozione della loro salute. In mancanza di un quadro legislativo nazionale che regoli in modo specifico il diritto alla salute per rom e sinti, si fa riferimento alla normativa sull'immigrazione, includendo, seppur impropriamente, gli zingari nella categoria più generale degli stranieri. Questa scarsa considerazione delle necessità specifiche di questi particolari utenti, rende spesso difficile per loro l'accesso e la fruibilità dei servizi sanitari.

L'ultima legge sul l'immigrazione e il Piano Sanitario Nazionale 1998‑2000, alcune proposte di leggi regionali specifiche, alcune delibere di Aziende Sanitarie Locali, l'analisi delle singole esperienze del volontariato e del pubblico, e la stessa individuazione di aree critiche devono portare a condividere e definire dei percorsi di tutela che certamente sono normativi ma anche organizzativi e culturali e possono fornire modelli, anche sul piano formativo, che siano realmente riproducibili, verificabili e percorribili.

Si registra una carenza legislativa in diverse regioni, e anche nelle regioni in cui una legge specifica è stata emanata, in ambito sanitario ‑ salvo poche eccezioni ‑ è prevista solamente la vigilanza igienico‑sanitaria dei campi sosta. Lo stesso termine vigilanza porta a domandarsi se più che tutelare la salute degli zingari non si miri esclusivamente ad una mera azione di controllo. Ben più ampia dovrebbe essere l'azione della legge riguardante la salute e al suo interno si dovrebbero evidenziare interventi specifici per questa popolazione. Per quanto riguarda l'accesso alle strutture sanitarie pubbliche vigono in genere le stesse disposizioni applicate alla popolazione immigrata presente sul territorio regionale.

Su questo tema, spesso trattato scarnamente, emblematica è la legge della Toscana che, distinguendosi dalle altre, ha previsto nell'articolo sulla salute una quota capitaria da ripartire ai Comuni per prestazioni di assistenza sanitaria prestate dal volontariato ai nomadi non iscritti al Servizio Sanitario Nazionale. Un'assistenza sanitaria integrata tra il sistema pubblico e le strutture del privato sociale con anni di maturata esperienza nel settore è un notevole passo in avanti per garantire la reale fruibilità dei servizi sanitari anche per gli zingari.

Molto interessante si è rivelato anche il progetto di legge (1997) della Regione Lazio, decisamente innovativo anche in ambito sanitario: l'articolo riguardante la sanità ci sembra suggerisca strumenti efficaci per tutelare la salute degli zingari.

 

Art. 7 ‑ Interventi Sanitari

Agli Zingari sono assicurate nei presidi pubblici ed accreditate nel territorio in cui hanno abituale dimora le prestazioni sanitarie preventive, curative e riabilitative in rapporto a quanto stabilito dalla normativa nazionale e regionale sul cittadino italiano o sullo straniero.

Le Aziende Usl competenti per territorio sono responsabili della sorveglianza igienico‑sanitaria di tutti i tipi di insediamenti zingari presenti o comunque realizzati ed attivano tutte le procedure necessarie perché l'accesso e la fruizione dei servizi e delle strutture sanitarie sia realmente garantita.

Programmi specifici di promozione della salute, con particolare riferimento alla salute dell'età riproduttiva, della prima infanzia, all'area delle malattie croniche e di quelle infettive, previo il coinvolgimento e la partecipazione delle popolazioni interessate, possono essere attivamente proposte alla Regione dalle Aziende Usl, da altre strutture accreditate, da organismi di volontariato. In ogni caso l'Aziende Usl territorialmente competente sarà coinvolta nella valutazione dei programmi, nel loro coordinamento e nella verifica degli stessi.

La Regione sulla base di uno studio circa la situazione socio‑sanitaria del Popolo Zingaro presente sul proprio territorio, aggiornato annualmente tenendo in considerazione le situazioni ed i problemi segnalati degli organismi che operano con continuità negli insediamenti zingari, periodicamente potrà emanare un bando pubblico per la collaborazione degli organismi di volontariato e del privato sociale con le Aziende Usl dove verranno elencate le priorità progettuali di volta in volta individuate.

 

Le aree di approfondimento su cui concentrare l'attenzione in vista della elabo­razione di adeguate politiche di promozione della salute dei rom in Italia risultano sostanzialmente tre:

‑ L'Area antropologica culturale deve analizzare il sistema biomedico di riferimento, conoscere il modo di definire le priorità di salute (cioè capire quale bisogno viene percepito e come viene espresso), ed individuare le strategie di mobilitazione di risorse interne ed esterne per affrontare il bisogno stesso. Inoltre, deve capire come il sistema di controllo interno al gruppo sociale si stia modificando, legittimando alcuni comportamenti a rischio per la salute (tossicodipendenza, prostituzione ... ).

‑ L'Area medica deve dedicare particolare attenzione alle patologie più frequenti tra le comunità zingare che, come si è visto, riguardano il settore materno‑infantile (parti prematuri, basso peso alla nascita, patologie neonatali, calendario vaccinale inadeguato ... ) e le malattie cronico‑degenerative e traumatiche.

‑ L'Area sociale deve prendere in considerazione innanzitutto l'analisi dell'habitat in senso lato, e delle politiche d'integrazione sociale che, dove sono adeguatamente approntate, sono la migliore prevenzione sanitaria. Proprio parlando di zingari è infatti evidente l'indissolubilità tra la salute ed il contesto sociale e culturale che si vive. Non a caso qualche anno fa l'Organizzazione Mondiale della Sanità definì la salute non come semplice assenza di malattie ma anche come pieno benessere sociale e psicologico; definizione ambiziosa ed irrealizzabile e così qualche anno dopo si parlò di migliore equilibrio possibile in un particolare contesto economico e sociale (è evidente la preoccupazione di includere nei processi di salute anche popolazioni di paesi poveri). Ma quale equilibrio possibile in un paese ricco, come l'Italia, se fasce di popolazione, come gli zingari, sono di fatto escluse dalla possibilità di accedere e di fruire della sanità pubblica ? Perché c'è questa esclusione ? E la responsabilità dobbiamo per forza ricercarla in chi questa esclusione subisce o nella nostra organizzazione sanitaria forse rigida e troppo burocratizzata che di fatto crea esclusione ? Ed ancora dobbiamo rassegnarci a considerare gli zingari come irrecuperabili dal punto di vista di tutela della salute perché non collaborativi o difficili ?

Per trovare delle risposte a questi interrogativi, all'intemo dell'area sociale risulta imprenscindibile dedicare attenzione ai temi della accessibilità e fruibilità dei servizi.

In relazione all'accesso alle strutture sanitarie è indispensabile ritenere che agli zingari non deve essere concesso un intervento assistenziali stico, ma che essi devono usufruire del pieno diritto alla salute. Le Aziende Sanitarie devono così non semplicemente «tollerare» la presenza dei campi più o meno abusivi, più o meno a norma o fare una semplice azione di sorveglianza igienico‑sanitaria ma ci deve essere una reale presa in carico degli zingari che dimorano nel loro territorio. Per fare questo le A.S.L. devono uscire dalle proprie strutture e raggiungere questa popolazione non con un'ottica di «separazione», ma con l'obiettivo di una progressiva integrazione nel sistema sanitario, con tutti i diritti ed i doveri che ne conseguono. Gli interventi sul campo, con l'utilizzo localmente di medici e con la collaborazione di organizzazioni non profit o del mondo del volontariato, possono fungere da ponte tra due sistemi ed organizzazioni di cura e favorirne l'incontro. A monte, la stessa gestione delle strutture, le pratiche amministrative e la burocrazia devono tenere conto di questa tipologia di utenti perché equità non significa trattare tutti allo stesso modo ma dare di più e con più attenzione a chi ha più bisogno. Sarebbe opportuno pensare a dei flussi di dati che tengano conto della specificità degli zingari rispetto agli altri stranieri ed agli stessi italiani, e che ciò possa essere letto routinariamente nelle statistiche sanitarie. Ciò fornirebbe un grande patrimonio di conoscenza e permetterebbe l'individuazione di aree critiche per poter definire delle priorità assistenziali. Ma se tutto ciò è vero, potrebbe essere sforzo inutile se non ci si impegni sul versante dell'incontro, della relazione, della trasparenza dei servizi; sull'accompagnamento, sul rendere gli zingari reali attori di un processo di salute che li veda co‑protagonisti insieme ad altre forze. Per questo motivo il tema della accessibilità risulta strettamente collegato a quello dellafruibilità dei servizi. La capacità e le tecniche di relazione non possono essere lasciate alla disponibilità ed alla capacità di singoli operatori, ma è necessario passare attraverso una seria e attenta formazione specifica ed informazione precisa.

Garantire l'accesso e la fruibilità delle prestazioni agli zingari significa attivarsi a comprendere o almeno a conoscere ambiti culturali diversi, una organizzazione sociale che non è la nostra, sistemi di cura che non riusciamo a leggere. Da ciò consegue la necessità che in modo pluridisciplinare e con diverse istituzioni ed organizzazioni si collabori e si costruisca un progetto salute che vada oltre l'erogazione di prestazioni che spesso non vengono capite con la conseguenza che le relative prescrizioni non vengono seguite. Questi processi non possono prescindere della partecipazione degli zingari nella gestione della loro salute e nella definizione delle priorità. In questo senso ha valore il lavoro di campo che, all'intemo di una metodologia di medicina comunitaria, mira a superare gli ostacoli di comunicazione attraverso l'approccio famiglia per famiglia, la valorizzazione della donna, l'attento lavoro in équipe.

Indicazioni queste già sperimentate in varie parti d'Italia e che spesso sono risultate convincenti, ma che richiedono un'elaborazione continua, un aggiustamento costante tra mille difficoltà, un agire con tempi e spesso modi che non sono i nostri.

Un ultimo accenno al ruolo delle strutture pubbliche e delle organizzazioni non governative. Sulle prime, si potrebbe affennare che c'è poco da dire dal momento che il tutto è stabilito da norme, ma anche da volontà e, in alcuni casi, forse anche da coraggio a percorrere strade diverse per la tutela della salute della popolazione. Nessuno può e deve sostituirsi ad esse, ma è fondamentale una collaborazione strategica e non strumentale con le Ong, una coabitazione progettuale in cui con ruoli e funzioni diverse, ma con pari dignità, si condividano esperienze, risorse e competenze.

E per concludere un ultimo accenno al ruolo degli zingari. E stato sottolineato più volte la necessità che il loro ruolo non sia di semplici spettatori o fruitori di prestazioni. Il passaggio a ruoli diversi è difficile e si scontra spesso con i nostri pregiudizi che li stigmatizzano come vittime a tutti i costi o come approfittatori da cui prendere sane distanze. In ogni caso l'atteggiamento prevalente anche tra gli operatori di organizzazioni impegnate con gli zingari è quello di considerare lo zingaro come soggetto debole, non libero nelle sue decisioni e quindi di proteggerlo o guidarlo. E' difficile liberarsi da questo atteggiamento diremmo in parte legittimo e legittimato dai fatti, ma solo quando la rom o il rom, la sinta o il sinto potranno essere protagonisti di scelte che escano fuori dai confini dei loro campi, avremo avviato, anche nel settore sanitario, un reale processo di salute.

Ci sembra infine opportuno ricordare che i dati in nostro possesso esprimono da una parte condizioni di salute evidentemente compromesse, dall'altra chiare possibilità di intervento per una adeguata tutela della salute. Ciò è possibile purché si intervenga strutturalmente sulle condizioni sociali di vita e progettualmente con processi «attivi» di promozione della salute che tengano conto delle priorità e dei tempi che gli stessi zingari possono contribuire a definire.

 

2. 5. Il lavoro (11)

Il lavoro costituisce un caposaldo di ogni percorso di fuoriuscita dalla marginalità: ma il lavoro presuppone accesso al mercato e acquisizione di capacità professionali spendibili sul mercato. Queste due condizioni costituiscono dei nodi estremamente problematici per la comunità zingara. Da un lato la modernizzazione ha reso in gran parte superflui i mestieri tradizionali dei rom, i fabbri, i calderai, i ramai, gli argentieri e i doratori. Inoltre, il modo peculiare in cui si imparano ancora questi mestieri tra gli zingari, e cioè il fatto di essere appresi all'interno della famiglia e tramandati di generazione in generazione senza richiedere un particolare addestramento tecnico, ha costituito e costituisce un ostacolo all'assunzione di nuove capacità professionali. Ciò comporta una certa difficoltà a riciclare quei mestieri in professioni tipiche di una società dinamica e moderna [Brazzoduro 1995].

D'altra parte la possibilità di percorsi di inserimento lavorativo è testimoniata da numerose esperienze [Cuomo 1997, Opera Nomadi 1999, Aizo 1995]. Senza nascondere le difficoltà specifiche dei rom, una recente ricerca sui percorsi di integrazione lavorativa dei profughi rom jugoslavi in accoglienza nella provincia di Bologna mostra che gli zingari presentano caratteri analoghi a quelli di altri gruppi di popolazione locale, e che i pregiudizi nei confronti dei rom sono privi di fondamento: infatti, lavorano in fabbrica come metalmeccanici, in agricoltura come operai, nelle cooperative come facchini e così via, coprendo così una ampia gamma di tipologie occupazionali. I rom privi di occupazione si trovano a gestire, rispetto al contesto ospitante, non tanto le peculiarità della loro differenza etnico‑culturale, ma piuttosto le difficoltà legate alla povertà, che costituiscono la doppia differenza: rom e poveri.

La risposta dei profughi all'esigenza del lavoro risulta strettamente legata al tipo di offerta: la fabbrica o il cantiere soddisfano da un punto di vista economico, ma richiedono spesso un grande impegno di tempo per i trasporti, un'energia che delle persone provate dalle varie vicende familiari e sociali non sono in grado di spendere. Ciò nonostante, molti di loro hanno affrontato il lavoro in modo continuativo, anche quando si trattava di attività particolarmente pesanti (facchinaggio, fonderia e simili).

La stessa ricerca evidenzia inoltre, per molti profughi, anche la difficoltà di un mercato del lavoro, come quello bolognese, molto esigente nella qualificazione professionale. E' stato necessario lavorare sull'interesse manifesto che, di fatto, si fondava sulle costrizioni che i profughi subivano e sulla voglia di soddisfare bisogni a volte indotti dal contatto con il consumismo. Ritrovarsi senza lavoro e senza possibilità di gestire denaro, fa nascere dapprima l'interesse a riempire il tempo libero e a gestire denaro accettando l'esperienza delle Borse lavoro. In un secondo momento subentra anche l'interesse economico e quindi il desiderio di reperire lavori più remunerativi rispetto alle borse lavoro. In molti casi, i profughi si sono attivati autonomamente per reperire lavori in regola presso privati.

Analogo percorso si verifica per l'interesse verso la formazione professionale: dapprima il rifiuto della «scuola» vissuta come emarginante e appartante, poi lo scontrarsi con il lavoro in fabbrica e le sue difficoltà oggettive e quindi la presa di coscienza della utilità di affrontare percorsi di qualificazione e miglioramento delle proprie abilità. Per queste ragioni, sono stati attivati corsi di formazione professionale e percorsi di formazione in situazione, che comprendevano attività non solo attinenti al ristretto ambito lavorativo, ma anche di formazione scolastica e generale.

 

Nella provincia di Bologna, nel febbraio '98, risultano accolte nei Centri di Prima Accoglienza 384 persone di cui 215 adulti e 169 minori, suddivisi in 107 nuclei familiari: di questi, 38 risultano privi di reddito, 66 in possesso di almeno un reddito da lavoro regolare, solo 2 con reddito da Borsa lavoro. Rispetto alla prima rilevazione effettuata nel maggio 1996 è calato del 14% il numero complessivo delle presenze e del 10,8% quello dei nuclei familiari, sono diminuite drasticamente le Borse lavoro in concomitanza con la cessione dei finanziamenti ai sensi della L. 390/92, ed è invece aumentata del 21% circa, la percentuale di famiglie che vivono di redditi da lavoro regolare. Dei 111 uomini adulti ancora presenti, 63 (pari al 56,8%) del totale risultano essere regolarmente occupati, con un incremento dell'8,8%. Rispetto alle donne, su 104 ancora presenti, 15 risultano essere regolannente occupate, 6 in più rispetto ai dati del maggio '96 [Argiropoulos 2000].

 

Il progetto Itinerario‑Integra, completato nell'aprile del 2000 sempre nell'ambito della provincia di Bologna, riporta altri risultati soddisfacenti: 17 persone (10 maschi e 7 femmine) sono state assunte, 11 persone (3 maschi e 8 femmine) si sono inserite in graduatorie aziendali, altre 17 persone, a seguito del percorso di formazione professionale, hanno acquisito un attestato di competenze utilizzabile sul mercato del lavoro. I risultati, oltre a confermare l'ampia gamma di tipologie occupazionali coperte dai profughi zingari, mostrano altri elementi di positività: (12)

‑ i ritmi della formazione, che ha coinvolto anche le donne, hanno condizionato la vita familiare, orientandola su attività esterne e togliendovi così quella dimensione preponderante di una quotidianità fatta di separazione e di esclusione;

‑ il progetto ha opportunamente considerato diversi fattori incisivi per la vita dei profughi/immigrati (trasporti, salute, igiene, regolarizzazione giuridica e am­ministrativa, ecc.) contribuendo ad aumentare globalmente la loro consapevolezza rispetto alle esigenze e alle necessità che occorre affrontare per ottenere lavoro e per proseguire nel percorso integrativo;

‑ il percorso formativo ha offerto una molteplicità di servizi e uno dei più significativi è stato l'orientamento al lavoro per circa un centinaio di persone disoccupate sono state coinvolte, sollecitate e sensibilizzate associazioni di categoria ed aziende.

Questi risultati, coniugati con gli esiti degli interventi attivati dal '94 al '97, dimostrano che il lavoro è possibile, ma è lavoro debole, è lavoro salariato, operaio, ed è condizionato non tanto dalle caratteristiche «culturali» e «strutturali» degli zingari, quanto dalle relazioni e dalle condizioni di vita del campo. Infatti, i contatti e le relazioni limitate, soprattutto a situazioni di aiuto, la lontananza dai centri urbani abitati (centri cittadini), mantengono basso l'interesse di chi abita nei CPA verso tutto quello che può essere e rappresentare la scuola e la professionalità.

La debolezza di questo lavoro, se incontra in modi opportuni ed adeguati la formazione professionale e politiche sociali integrate e non improntate all'as­sistenzialismo o alla repressione, porta ad una mobilità sociale che è risultata ben amalgamata alle aspettative ed ai progetti personali dei profughi e immigrati zingari della ex‑Jugoslavia.

Dato il carattere di minoranza etnica dei rom e la opportunità di spezzare il confinamento nell'emarginazione, risulta quindi necessario progettare percorsi dalla formazione al lavoro protetti. «Si è già sperimentato che la concentrazione degli sforzi sulla prima parte del tragitto dà esiti fallimentari. E indispensabile quindi un impegno originale ed efficiente che investa convintamente tutta l'operazione. Ciò potrebbe anche implicare la creazione di strutture operative ad hoc, vale a dire di aziende industriali o artigianali o di servizio, in cui completare l'addestramento in una vera realtà produttiva e attraverso le quali inviare un segnale fortemente simbolico dell'utilità di imparare un nuovo mestiere sottoponendosi alla disciplina relativa perché l'iniziativa "paga" in quanto prefigura tangibilmente la possibilità di una concreta fuoriuscita dal circolo vizioso dell'emarginazione‑illegalità‑pregiudizio-­discriminazione» [Brazzoduro1995].

Come mostrano le esperienze in corso, la fuoruscita dalla marginalità comporta un massiccio intervento volto all'addestramento professionale idoneo ad agevolare l'assunzione di concrete occupazioni, e politiche attive di inserimento. Quindi richiede di agire su diverse difficoltà contestuali, che impongono una politica complessiva, da quella residenziale all'adeguamento della normativa.

Quanto all'inserimento lavorativo, «non si tratta di far accedere o "piegare" i sinti e i rom ad un lavoro", quanto di programmare percorsi multipli che consentano loro di scegliere tra lavori possibili, in modo che tornino ad essere ‑ come è stato nel passato ‑ portatori di professionalità e di attività lavorative, complementari a i bisogni della società. Occorrono quindi: una ricognizione precisa delle residue professionalità tradizionali per consolidarle e/o trasformarle in modo che si possano adattare all'attuale mercato del lavoro; una formazione professionale valutata secondo specifici progetti; percorsi facilitati di accesso al lavoro; una incentivazione alla formazione di cooperative, comunità per comunità; la formazione di operatori rom e sinti a servizio dei propri gruppi» [Salomoni 2000].

 

2.6. Alcuni suggerimenti (13)

L'analisi fin qui condotta ci porta a formulare ‑ al di là delle indicazioni relative ai singoli settori di intervento ‑ alcune proposte operative generali.

Nel breve periodo, anzi nell'immediato, è necessario che, per quanto è di competenza del Governo centrale o del Parlamento, si provveda a sanare alcune delle situazioni più drammatiche mettendo in atto, con estrema urgenza, i seguenti interventi:

‑ una convinta e decisiva battaglia contro le discriminazioni subite dai rom;

‑ il rinnovo del permesso di soggiorno per motivi umanitari a quei rom che non possono far rientro in zone in cui ancora è in atto un «pulizia etnica», in attesa della nuova legge sull'asilo che giace ancora in Parlamento;

‑ la revisione delle leggi in materia di cittadinanza;

‑ lo studio di forme di intervento affinché anche i rom beneficino, a pieno titolo, della nuova legge sull'immigrazione;

‑ la ratifica con legge della Carta Europea per le lingue regionali e minoritarie che potrebbe consentire quel riconoscimento dei rom e sinti come minoranza linguistica che recentemente una legge della Repubblica ha negato.

Un secondo ordine di interventi urgenti riguarda le condizioni insediative. In attesa di più impegnative politiche sociali, è necessario da un lato garantire nei campi quelle condizioni di vivibilità, da cui dipende anche la possibilità di realizzare obiettivi minimi nel campo della salute, della scuola, del lavoro; dall'altro garantire la sicurezza insediativa e territoriale: la possibilità di disporre di luoghi in cui insediarsi senza essere esposti alla minaccia continua di allontanamento.

Nel medio e lungo periodo emerge la necessità di una politica globale, coordinata dall'Amministrazione centrale e concertata con le amministrazioni locali, che coniu­ghi in maniera organica e sistematica iniziative a livello nazionale e specificità locali. Una politica in cui le amministrazioni pubbliche svolgano con impegno e coerenza un ruolo di sostegno e di facilitazione, e piuttosto che dare soluzioni, mettano gli interessati in grado di produrne. Una politica in cui le comunità rom e sinte assumano un ruolo di co‑protagoniste, insieme ad altre forze, in tutte le fasi del processo, dalla progettazione, al momento decisionale, alla realizzazione concreta, alla valutazione dei risultati.

 

Il recente rapporto del Comitato europeo sulle migrazioni del Consiglio d'Europa (5 maggio 1995) ribadisce, infatti, come siano destinati a fallimento tutti i progetti che non coinvolgono gli zingari in prima persona. Forse è ormai tempo che noi gadjé non pretendiamo più di sapere che cosa è bene per gli zingari, ma che, limitandoci ad affiancarli con un'azione di sostegno, lasciamo a loro la parola, perché, soggetti primi ed accreditati presso i poteri locali, ottengano il pieno rispetto dei loro diritti fondamentali [Karpati 1998, 14].

 

3. La dimensione europea della questione rom/zingara (14)

La questione degli zingari non riguarda soltanto l'Italia, ma è una questione transnazionale che accomuna molti paesi europei e pertanto, nell'affrontarla e nel cercare delle soluzioni nazionali, si deve fare riferimento a esperienze di altri paesi e a linee guida individuate da raccomandazioni e leggi di livello internazionale.

 

3. 1. Una minoranza europea: caratteristiche generali

La storica dispersione territoriale, le diverse esperienze nei singoli paesi europei, le diversità linguistiche, religiose ed etniche tra le numerose comunità, rendono vani i tentativi di definire in via generale la storia e la cultura dei rom. La stessa definizione «rom», adottata da una buona parte dei rom europei non abbraccia l'ampio panorama etnico di queste popolazioni. Oltre alle comunità rom di antica origine indiana ‑ circa il 70% degli zingari in Europa ‑ bisogna considerare le comunità zingare di origine europea, come i tinkers in Irlanda, i quinquis in Spagna, i jenisch in Germania. Inoltre, vi sono gruppi di etnia rom che si sono stabiliti e hanno perso buona parte della lingua e cultura originaria, come i sinti in Germania e in Italia, e i manouche in Francia. Tutte queste comunità fanno parte del gruppo descritto come rom/zingari/girovaghi in Europa.

Le stime sul numero degli zingari in Europa non sono verificabili con esattezza, ma la loro presenza in tutti i paesi europei, dal Portogallo fino alla Russia, è sufficiente per fare degli zingari una «minoranza europea». I dati forniti dalle istituzioni internazionali e dalle organizzazioni che si occupano di questioni rom convergono sulle stime prodotte nel 1994 dal Centre de Recherches Tsiganes dell'Università René Descartes, che stima che gli zingari in Europa siano tra i sette e i nove milioni [Liégeois 1994]. Gran parte di questi, circa i due terzi, si trovano nell'Europa centrale, orientale e balcanica, dove in alcuni paesi costituiscono le minoranze più numerose.

Contrariamente ad opinioni diffuse, la maggioranza degli zingari non solo in Italia, ma anche in Europa è stanziale (circa il 60%), mentre solo il 20% ha continuato con la tradizione nomadica. Il rimanente 20% è semi‑nomadico o semi­itinerante: mantiene ad esempio una fissa dimora ma viaggia per motivi di lavoro, oppure si sposta stagionalmente tra due regioni. Le tendenze alla sedentarietà e mobilità sembrerebbero essere cambiate a partire dalla fine degli anni '80, con l'aumento della sedentarietà in Europa occidentale e un aumento degli spostamenti in Europa orientale.

Nonostante l'eterogeneità, è possibile identificare alcuni elementi di continuità nella storia degli zingari in Europa. Da un punto di vista storico, queste popolazioni hanno subito, nei diversi paesi in cui si sono insediati o in cui sono transitati, esperienze di persecuzione ed emarginazione simili che costituiscono parti fondamentali della loro storia e identità. Inoltre, dal punto di vista della elaborazione delle politiche verso le comunità zingare, stanziali e non, la presenza dei rom. in tutti i paesi europei pone attualmente ai governi nazionali e locali problemi simili, che si possono schematicamente articolare lungo tre assi strettamente interconnessi tra loro:

‑ la dimensione socio‑economica di emarginazione e povertà;

‑ la dimensione della discriminazione razziale e dell'intolleranza verso le comunità zingare;

‑ la dimensione politica relativa alla definizione degli zingari come minoranza e al ruolo di questa nel quadro del riconoscimento e della rappresentanza delle minoranze in Europa.

A questi blocchi di problemi corrispondono i principali filoni di intervento delle organizzazioni internazionali che, nel corso dell'ultimo decennio, hanno rafforzato la propria attenzione verso gli zingari.

 

3.2. La questione Rom/Zingara come «issue» europea

La causa principale della crescita dell'interesse politico‑istituzionale nei confronti della questione zingara è rinvenibile nell'improvviso aumento delle migrazioni rom dall'Europa dell'Est verso l'Ovest. Tale incremento di mobilità è senz'altro legato all'esodo dei rifugiati zingari dai paesi della ex‑Jugoslavia in guerra, ma trova delle radici più profonde nei processi di transizione post‑comunista avvenuti nei paesi dell'Europa centrale, orientale e balcanica.

Da un lato, le problematiche connesse alla transizione, quali le conseguenze sociali della trasformazione verso un'economia di mercato, il risorgere di movimenti e partiti nazional‑populisti, la crescita del razzismo e della xenofobia, lo smantel­lamento dello stato sociale e, nei casi più gravi, la monopolizzazione dello spazio pubblico da parte di gruppi etno-nazionalistici nati sulle ceneri dei sistemi socialisti, hanno contribuito a rendere precarie le loro condizioni di vita e a deteriorare le relazioni con le comunità di maggioranza, favorendo loro spostamenti da Est verso Ovest. Dall'altro lato i processi di democratizzazione e il lento passaggio dalle politiche di assimilazione, adottate dopo la Seconda Guerra Mondiale dai regimi comunisti in Europa centrale e orientale, a politiche di riconoscimento dell'identità e della cultura degli zingari, avviato in seno alle organizzazioni europee e internazionali a partire dagli anni '70, hanno favorito un rinnovato ruolo delle organizzazioni non­governative dedite al miglioramento della situazione dei rom, e hanno permesso ai rom di organizzarsi politicamente e culturalmente per formare gruppi di pressione ai diversi livelli (locale, nazionale e transnazionale).

In ultima analisi, l'azione congiunta di questi fattori, negativi e positivi, ha concorso ad innescare una nuova ondata di mobilità delle comunità rom dai paesi dell'Europa centro‑orientale e balcanica verso l'Occidente europeo. Il volume delle emigrazioni non è definibile con alcuna precisione, sia perché molte migrazioni sono illegali, sia perché i migranti non vengono registrati secondo l'appartenenza etnica ma sulla base del paese di provenienza. E' opportuno comunque ricordare che non si tratta tanto di un nomadismo di ritorno ma di spostamenti migratori che coinvolgono rom stanziali in cerca di situazioni meno precarie. Secondo una stima, che però appare eccessivamente prudente, dal 1960 al 1995 il numero totale di rom emigrati da Est a Ovest è di 250.000 persone. I paesi di provenienza principali dal 1990 ad oggi sarebbero, in ordine di grandezza, la Romania, la ex‑Jugoslavia, la Bulgaria, la Polonia, la Repubblica Ceca e la Slovacchia, e i paesi meta dell'Unione europea sarebbero la Germania, l'Italia, la Francia e l'Austria. Le comunità più numerose di rom in Europa occidentale provengono dalla ex Jugoslavia, principalmente perché i movimenti migratori dal paese iniziarono negli anni '60. Si stimano 53.000 rom della ex‑Jugoslavia in Austria, 10.000 in Germania, circa 25.000 in Italia, e 10.000 in Francia.

Anche se un flusso di rom proporzionalmente superiore al flusso di non‑rom dall'Europa dell'Est non è numericamente riscontrabile, le migrazioni dei rom tendono ad apparire più visibili perché si tratta di nuclei familiari anche estesi piuttosto che di migrazioni individuali. Aggiunti ai rifugiati delle guerre nella ex Jugoslavia, il fenomeno migratorio rom è stato percepito in Europa occidentale come fenomeno di massa ed ha contribuito ad acuire problemi già esistenti sia nei rapporti tra comunità zingare e comunità di maggioranza, sia tra le comunità zingare già insediate in Europa occidentale e i nuovi arrivati.

In sostanza, in base al quadro delineato, si può affermare che l'improvviso aumento delle migrazioni rom dall'Europa centrale e orientale e dalla regione balcanica è stato il fattore più decisivo nel destare l'attenzione delle organizzazioni internazionali, determinando il riconoscimento, in prima istanza, del potenziale destabilizzante dei flussi migratori e, progressivamente, dei fattori umanitari, di sicurezza e socio‑economici che innescavano le migrazioni dei rom in particolare. La questione rom si è quindi «europeizzata» sia in seno alla questione migratoria, sia a seguito dell'interesse internazionale nell'analizzare i fattori locali e nazionali che provocavano gli spostamenti.

Le organizzazioni europee come l'Organizzazione per la Sicurezza e la Coope­razione in Europa (Osce) e il Consiglio d'Europa hanno avuto un ruolo propulsivo nel l'identificazione di problemi connessi alla condizione degli zingari in Europa e delle soluzioni da avviare ai livelli internazionali, nazionali e locali. Come si è accennato in precedenza, ai tre blocchi principali di problemi schematicamente identificati, corrispondono tre filoni di intervento da parte delle organizzazioni europee/internazionali.

La dimensione socio‑economica di emarginazione e povertà viene affrontata in maniera crescente dall'Unione europea soprattutto nel quadro dei programmi per la lotta alla povertà, attraverso il Fondo Sociale Europeo, e nel quadro dell'istruzione, dove si è anche riconosciuta la cultura e lingua zingare come patrimonio della Comunità.

Il secondo blocco di problemi, la lotta al razzismo e alla discriminazione, è diventato un settore di crescente attenzione e intervento da parte delle organizzazioni europee e internazionali. L'Onu, il Consiglio d'Europa, l'Osce e l'UE hanno tutti predisposto comitati e meccanismi di monitoraggio del razzismo e della discriminazione nei paesi membri delle varie organizzazioni, deliberando consigli e raccomandazioni per i governi per questioni anche specificatamente relative alle comunità zingare. Oltre al valore intrinseco di queste iniziative, il loro significato risiede anche nell'interdipendenza che si è venuta a creare tra le organizzazioni europee ed internazionali e gli standard da questi stabiliti, e le politiche attuate al livelli nazionale e locale. L'Articolo 13 del Trattato di Amsterdam, che stabilisce che «il Consiglio ( ... ) può prendere i provvedimenti opportuni per combattere le discriminazioni fondate sul sesso, la razza o l'origine etnica, la religione o le convinzioni personali, gli handicap, l'età o le tendenze sessuali», è esemplificativo dei vincoli posti dalle organizzazioni europee alle politiche dei governi nazionali e locali in questo campo.

Lo status politico degli zingari in Europa costituisce il terzo blocco di problemi e, probabilmente, il più difficile da affrontare. La definizione di minoranza (nazionale, etnica, transnazionale) è infatti oggetto di discussione tra le orga­nizzazioni zingare attive nelle arene politiche nazionali ed internazionali, mentre al livello degli Stati, soprattutto in Europa occidentale, gli approcci verso il riconoscimento delle minoranze sono costituzionalmente diversi e nella maggior parte dei casi gli zingari ne sono esclusi.

Nel contesto della politica di allargamento verso i paesi dell'Europa centro-­orientale, l'Unione Europea ha svolto un ruolo importante nel condizionare i paesi candidati all'adesione a dotarsi delle istituzioni e adottare i provvedimenti necessari per il miglioramento della situazione dei rom in quei paesi. Il Consiglio europeo di Copenhagen del giugno 1993, definendo i principi imprescindibili per l'adesione alla comunità, tra i criteri politici ha infatti stabilito che un paese può diventare membro dell'UE se ha raggiunto una «stabilità delle istituzioni che garantiscono la democrazia, il rule of law, i diritti umani e il rispetto e la protezione delle mino­ranze». Inoltre ha predisposto finanziamenti per programmi diretti specificatamente alle comunità rom e al miglioramento dei loro rapporti con le comunità di maggioranza attraverso il programma PHARE, PHARE for Democracy e LIEN. In sostanza , per i paesi candidati l'UE ha individuato sia la specificità dei problemi delle comunità rom, sia l'interrelazione tra le problematiche socio‑economiche, di discriminazione, e di sicurezza, e ne ha fatto un criterio politico ideologico sulla base del quale raccomandare ai governi linee di policy e finanziare programmi di intervento.

Nei confronti dei paesi già membri, invece, le istituzioni europee non sono state in grado di esercitare le stesse forme di pressione. Le Risoluzioni del Parlamento europeo in cui si chiede ai governi di mettere a punto le misure giuridiche, amministrative e sociali per migliorare la situazione degli zingari e in cui si raccomanda di tutelare le minoranze e di riconoscere i rom come minoranza linguistica e culturale, indicano delle linee di azione non vincolanti per i governi. La stessa Convenzione Quadro per la Protezione delle Minoranze Nazionali, approvata dal Consiglio d'Europa nel 1995 e in vigore dal 1998, che costituisce il principale documento di riferimento e uno strumento legalmente vincolante per la tutela delle minoranze nazionali negli stati membri, evita deliberatamente di attribuire ai rom la definizione di minoranza «nazionale». Il risultato di tale atteggiamento politico è che mentre in molti paesi candidati i rom sono riconosciuti come minoranza nazionale nelle costituzioni o attraverso dichiarazioni o documenti successivi, nei paesi membri dell'UE, compresa l'Italia, le questioni zingare non godono di politiche specifiche, ma vengono gestite principalmente attraverso politiche di lotta alla povertà e alla discriminazione di cui beneficiano anche gli zingari, e l'effettiva applicazione dei principi e delle guidelines europee è ancora scarsamente perseguita.

 

3.3. Le implicazioni per l'Italia

La dimensione europea della questione zingara condiziona la definizione delle politiche italiane su due piani distinti: il primo riguarda l'evoluzione futura della presenza zingara in Europa e il suo impatto sulla loro presenza e condizione in Italia; il secondo si riferisce agli standards politici definiti a livello europeo ed internazionale e alla loro influenza sulle politiche italiane nazionali e locali nel confronti degli zingari.

Per quanto riguarda l'evoluzione della presenza zingara in Europa, una previsione dei patterns di mobilità delle minoranze zingare verso l'Italia fornirebbe degli strumenti importanti per l'elaborazione delle politiche e l'individuazione delle sedi in cui promuovere politiche di integrazione. Tale previsione dovrebbe prendere in considerazione tre livelli:

1. la mobilità interna allo spazio dell'UE nell'eventualità che uno stato membro adotti una politica fortemente discriminatoria, innescando spostamenti di comunità zingare da un paese membro ad un altro;

2. l'eventuale accrescimento della mobilità con l'allargamento dell'UE verso i paesi dell'Europa dell'Est caratterizzati da numerose comunità zingare;

3. la politica di stabilizzazione dei Balcani, dove gli zingari costituiscono la minoranza più vulnerabile e meno tutelata dell'area. Questo settore interessa l'Italia in maniera particolare, dato che le comunità rom non italiane provengono principalmente dai Balcani a seguito dei flussi migratori degli anni '60, '80 e l'esodo dei recenti conflitti.

Il secondo piano è rappresentato dall'accresciuto grado di interdipendenza tra gli orientamenti, le risoluzioni e raccomandazioni adottate in sede europea ed internazionale nei confronti degli Zingari e le loro attuazioni in ambito nazionale.

Tale interdipendenza si manifesta nei giudizi delle organizzazioni internazionali e nella fissazione di standard politici sempre più precisi e vincolanti.

L'Ecri, il Cerd e l'Osce hanno sottolineato in più di una occasione le inadempienze dell'Italia nell'approccio verso gli zingari per quanto riguarda le insufficienze negli strumenti per la lotta alla discriminazione, il mancato riconoscimento dei rom come minoranza, e l'utilizzo di politiche di accoglienza basate sul "falso" assunto di nomadismo. Il recente rapporto dell'Errc [2000] documenta gli abusi della polizia e delle autorità giudiziarie italiane nei confronti dei rom, denuncia la segregazione e la discriminazione razziale ai danni della minoranza zingara, sottolinea l'esiguità degli sforzi del Parlamento e del Governo italiano per combattere la discriminazione, e mette in luce come il comportamento delle autorità e l'intensificarsi del ricorso all'espulsione contribuiscano ad alimentare il sentimento di ostilità fortemente presente nell'opinione pubblica e gli atti di violenza dei privati cittadini.

Inoltre sulla base della Convenzione Europea sui Diritti Umani e della Convenzione Quadro per la Protezione della Minoranze Nazionali, che costituiscono due dei documenti di riferimento rilevanti per le questioni zingare, l'Ecri ha sollecitato il governo italiano e considerare la possibilità di estendere e migliorare gli statuti delle minoranze per comprenderne altre, tra cui gli zingari. Tuttavia, fino ad ora l'Italia non ha ancora fatto il passo del riconoscimento della lingua romanés, e quindi della comunità rom di cittadinanza italiana come minoranza linguistica.

La raccomandazione delle organizzazioni europee e le concrete esperienze maturate in alcune aree, risultano perfettamente in linea con le proposte operative formulate in conclusione all'analisi della situazione italiana ( v. par. 2.7.).

Per quanto riguarda le politiche di medio e lungo periodo, gli orientamenti europei ed internazionali ribadiscono infatti la necessità dei seguenti interventi:

- il coinvolgimento attivo di rappresentanti delle comunità zingare nella ideazione e gestione delle politiche che li riguardano e la costituzione di comitate appositi per le questioni zingare cui partecipino rappresentanti, comunità ed esperti, rom e gadjé, sulle problematiche in questione;

- il miglioramento del raccordo tra le politiche nazionali e quelle locali, dalla regione alla circoscrizione (in quest'ottica le conferenze di concertazione tra stato ed enti territoriali minori, come la Conferenza Stato‑Città, la Conferenza Stato‑Regioni e la Conferenza Unificata, potrebbero rappresentare sedi in cui inserire tematiche relative agli zingari);

‑ l'armonizzazione delle politiche specifiche in favore dei rom (istruzione, abitazione, lavoro, sanità) all'interno di un sistema organico ed integrato;

‑ la promozione e il rafforzamento del dialogo istituzionale con le organiz­zazioni non governative.

Nel breve periodo, oltre a confermare l'importanza dei provvedimenti legati al rinnovo del permesso di soggiorno, all'accesso alla cittadinanza, al riconoscimento dello status di «rifugiati» e del diritto di asilo ai rom kosovari e di altri paesi balcanici in cui è ancora in atto la «pulizia etnica», le raccomandazioni europee sottolineano l'estrema urgenza di combattere in modo decisivo e convinto le discriminazioni subite dai rom attraverso l'azione combinata dei seguenti interventi considerati prioritari:

‑ la formazione alla tolleranza nelle forze dell'ordine e nel sistema giudiziario;

‑ l'applicazione di sanzioni severe contro discorsi che incitano all'odio razziale nel confronti dei rom;

‑ l'elaborazione di programmi di educazione pubblica per ridurre il livello di ostilità contro i rom diffuso nella società italiana.

 

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Note:

 

1)  Su questo tema la Commissione ha organizzato il convegno “Rom e Sinti: un'integrazione possi­bile. Italia ed Europa a confronto” (Napoli, 23‑24 giugno 2000). Questo capitolo del rapporto si basa in gran parte sulle relazioni e i documenti presentati a questo convegno.

 

2) Fonti: interventi di Claudio Marta e Giovanna Zincone al Convegno di Napoli.

 

3) I principali gruppi sono:

‑ i SINTI, il gruppo di più antica immigrazione, che assumono denominazioni territoriali: piemontesi, lombardi, veneti, emiliani, e così via. Sono dediti in gran parte allo spettacolo viaggiante.

‑ i ROM dell'Italia centro‑meridionale, arrivati nella seconda metà del XV secolo: abruzzesi, calabresi, napoletani.

‑ i ROM Flarvati, arrivati dalla Jugoslavia settentrionale a seguito delle due guerre mondiali.

‑ i ROM (da alcuni definiti vlakh) kalderasha, lovara e churara originari delle regioni moldave e valacche e arrivati in Italia dopo lunghe peregrinazioni, in più ondate, a partire dalla fine del secolo scorso.

‑ i ROM di più recente immigrazione (a partire dalla seconda metà degli anni '60) soprattutto dalla ex‑Jugoslavia. Rom khorakhané (cergarija, shiftaria...) e rom dasikhané (Kanjarija, rudari...).

 

4) Fonti: interventi di Claudio Marta e Mario Salomoni al Convegno di Napoli.

 

5) «Quasi tutti i rom stranieri hanno cercato in questi anni di regolarizzare la loro posizione inoltrando la domanda di permesso di soggiorno, ma molti di loro non riescono ad ottenerlo. Anche con la L. 40/98 e la sanatoria che è scaduta il 15/12, la situazione rimane quasi invariata. La maggioranza dei rom bosniaci presenti in Italia sono renitenti alla leva, a loro non viene consentito di rinnovare il passaporto, nonostante in precedenza lo possedessero. Il Consolato al momento del rinnovo chiede di esibire il permesso di soggiorno che non possiedono perché hanno il passaporto scaduto» [Osella 1999, 13‑141.

Quanto alla sanatoria 1998, il requisito relativo alla «idonea documentazione circa la sistemazione alloggiativa» ha costituito per la maggior parte dei rom stranieri un ostacolo insormontabile, impedendo così l'avvio di percorsi integrativi per importanti gruppi di popolazione zingara da tempo insediati nel paese. L'interpretazione nel senso di riconoscere tale condizione soltanto ai rom insediati in campi istituiti dai comuni ai sensi delle L.R. e amministrativamente autorizzati appare irragionevole, quantomeno nelle (molte) provincie e regioni in cui i campi comunali sono quasi inesistenti. I sindaci si sono semmai distinti per comportamenti diiscriminatori nei riguardi degli zingari, e le pubbliche amministrazioni dei diversi livelli hanno ignorato le normative statali (legge n. 390/1992) e regionali in favore dei profughi jugoslavi.

 

6) Fonte: intervento di Antonio Tosi al Convegno di Napoli.

 

7) Fonte: intervento di Marco Brazzoduro al Convegno di Napoli.

 

8) Fonte: intervento di Salvatore Geraci al Convegno di Napoli.

 

9) A Roma, i dati ricavati dai Certificati di Assistenza al Parto relativi ai nati (vivi e morti) da donna straniera nel periodo 1982‑1996 (7.124 neonati) sono stati confrontati con la distribuzione delle stesse variabili tra i nati da donne residenti nel Lazio, utilizzando per i tre periodi (82‑86, 87‑91 e 92‑96) i dati dell'anno intermedio (Sistema di Sorveglianza della Natalità e Mortalità Infantile nel Lazio, a cura dell'Osservatorio Epidemiologico Regionale, dati non pubblicati) offrendoci un quadro comparativo anche fra diversi gruppi provenienti da aree geografiche differenti. In particolare la mortalità neonatale per gli zingari è del 15,3 per mille tra il 1992 e 1995 contro il 4,4 per mille dei neonati laziali.

 

10) L'analisi dei cluster (raggruppamenti omogenei per criteri stabiliti) pone l'ipertensione arteriosa come il problema più frequentemente segnalato (17,8%), seguito dai disturbi gastro‑duodenali. Fra le donne in età fertile (14‑44 anni) i problemi più frequentemente segnalati sono a carico dell'apparato digerente. I problemi ostetrici sono al secondo posto a pari merito con i problemi cardio‑circolatori. Questo dato stupisce considerando l'alto numero di gravidanze fra le donne rom e conferma il loro atteggiamento che considera la gravidanza un evento fisiologico da non medicalizzare. Va comunque considerato che potrebbe giocare un ruolo rilevante il vissuto di pudore‑vergogna per tutto ciò che riguarda la sessualità e la maternità soprattutto se il medico è giovane e di sesso maschile. La precarietà delle condizioni di salute delle donne è però messa in evidenza dall'analisi per cluster che pone al secondo posto per frequenza l'anemia ed al quinto l'ipertensione arteriosa. Fra gli adulti di età superiore ai 44 anni, come previsto, aumenta ancora di più la rilevanza dei problemi cardiovascolari che l'analisi per cluster mostra essere quasi esclusivamente costituiti dall'ipertensione arteriosa (solo cinque visite sono motivate da altre patologie cardiovascolari). Cospicuo il numero di malattie dell'apparato digerente, quasi tutte causate da dispepsia‑ulcera peptica e le malattie osteo­artro‑muscolari, per lo più di tipo degenerativo. La cefalea è presente con una certa rilevanza in questo come negli altri gruppi di adulti. L'équipe del Naga conclude osservando che questi dati dimostrano quanto da tempo gli stessi operatori affermano e quanto riportato anche in letteratura: i Rom sono affetti da comuni patologie che, soprattutto nel caso dei bambini, dipendono in gran parte dalle precarie condizioni abitative.

 

11) Fonte: intervento di Dimitris Argiropoulos al Convegno di Napoli.

 

12) Dal punto di vista metodologico, l'esito positivo delle azioni di sostegno all'inserimento lavorativo attivate con il Progetto Itinerario risulta strettamente legato alla possibilità di realizzare "mediazione" e "supporto" nel contesto campo come nel contesto lavoro. Si sono privilegiati percorsi brevi di formazione in situazione, superando il prima possibile la fase di formazione in aula, in modo da usare i luoghi di lavoro come "classe", come contesti formativi privilegiati, sia rispetto allo sviluppo delle capacità professionali che di quelle sociali e relazionali. Inoltre rispetto ai problemi legati alla instabilità della posizione giuridica dei profughi, si è scelto di presentare loro in modo trasparente le esigenze legali e istituzionali in modo da favorire un esame di realtà; ciò si è rivelato utile ad incrementare anche la loro motivazione rispetto al lavoro e agli altri percorsi di integrazione come l'abitazione o la scuola, mentre l'uso di queste informazioni ed esigenze in modo ricattatorio avrebbe determinato effetti controproducenti, cristallizzandoli nell'apatia e in atteggiamenti di chiusura/difesa.

 

13) Fonti: interventi di Claudio Marta e Mario Salomoni al Convegno di Napoli.

 

14) Fonte: rapporto di Rosa Balfour per la Commissione Integrazione.