Lampedusa, duecento clandestini in un inferno a 70 gradi Nel campo di prima accoglienza non c'è un albero, i gabinetti alla turca sono intasati, la puzza è insostenibile
Quel lager nascosto ai turisti


TANO GULLO
LAMPEDUSA - Uno addossato all'altro si contendono i pochi metri di ombra sulle pareti esterne delle baracche. Come pecore ammucchiate nelle ore di afa, inseguono l'ombra che a mezzogiorno si ritira sotto i loro piedi. Il sole è impietoso a Lampedusa. I 197 immigrati clandestini del centro di prima accoglienza ne subiscono i raggi per tutta la giornata. Dentro i cinque capannoni di lamiera è ancora peggio. La temperatura nelle ore assolate raggiunge i 70 gradi. Un forno. Meglio il caldo all'aperto che l'inferno dentro. Gli unici ragazzini presenti, un algerino e un marocchino, sono alloggiati in una stanzetta vicino all'infermeria. Quattordici anni, troppo piccoli per lasciarli cuocere sotto le lamiere.
Non c'è un albero, non c'è un filo di verde, non c'è un'aiuola. E non c'è il conforto della vista rinfrescante del mare. Il mare, che castra sul nascere ogni sogno di fuga, è nascosto. Da qui si vedono solo aerei e il tetto delle case del paese con le caratteristiche cisterne indispensabili per raccogliere l'acqua piovana. Gli aerei rombano sulla pista dell'aeroporto confinante. Vanno e vengono. Il movimento d'aria dei velivoli fa volare le bottiglie e i sacchetti dispersi per terra, che finiscono "appesi" nella rete di recinzione. Il mosaico di plastica sembra un'installazione di arte contemporanea. Tre metri di reticolato, rinforzato dal filo spinato nella parte alta e per terra, sconsigliano ogni velleità.
Dentro le baracche giacigli disordinati. Anche quella che un tempo fungeva da mensa è stata adibita a dormitorio: un po' di tappeti spugnosi distesi sugli assi e i tavoli sono stati così trasformati in scomodi letti. E altre brande sono state rimediate dentro una decina di tende piantate nello spiazzale. Il campo può ospitare solo 86 persone. Per accoglierne il doppio è stato stravolto ogni spazio. In uno dei cinque stanzoni ci sono le docce e dieci gabinetti turchi. Ma sette sono intasati e i liquami fuoriescono dal pavimento. La puzza è insopportabile. «La settimana scorsa è mancata anche l'acqua - dicono i clandestini - e per noi sono state davvero giornate difficili».
«È un lager vero e proprio - denunciano Francesco Forgione e Graziella Mascia, deputati di Rifondazione comunista, dopo la visita al centro - le condizioni del campo sono assolutamente inaccettabili per un paese civile. Manca di tutto. Ma la cosa più grave è l'assenza di un interprete che priva gli immigrati di un'adeguata assistenza e della conoscenza dei loro diritti. Molti di loro, in fuga dai paesi devastati dalla guerra, ad esempio non possono avvalersi della possibilità di richiedere asilo politico».
C'era una volta l'interprete. Da un mese invece è sparito. Fino ad allora, in virtù di una convenzione, la prefettura di Agrigento aveva affidato la gestione del campo alla Croce rossa. C'era l'interprete e c'erano 24 volontari, in gran parte isolani, che si occupavano della gestione del campo. E per ognuno c'era la mensa e tre pasti al giorno, da consumare seduti. E c'era il kit per l'igiene, due pacchetti di sigarette ogni settimana e la carta telefonica all'arrivo per chiamare i parenti lontani. Tutto sparito. Scaduta la convenzione con la Cri, la gestione è stata affidata a una società di Favara, la "Blu food". Ora c'è solo un cuoco, tre inservienti, uno di questi per fortuna è nordafricano e quindi svolge funzioni di interprete "volontario", e null'altro. A molte incombenze provvedono i 40 carabinieri, comandati da un maresciallo, che si sobbarcano turni massacranti e lavori non dovuti, pur di alleviare le sofferenze dei clandestini.
Dall'unico medico c'è la fila. Ogni giorno almeno quaranta visite: diarrea, febbre, problemi respiratori. «Già arrivano provati dalla traversata - dicono i parlamentari di Rifondazione - poi la loro resistenza viene messa a dura prova dalle condizioni disumane in cui sono costretti a vivere nel campo. In questo periodo non hanno nemmeno il sapone per lavarsi. Come ci hanno detto si puliscono "a secco". La mancanza di sigarette poi crea un nervosismo pazzesco. Chiusi in gabbia come bestie non hanno nemmeno la possibilità di sfogarsi fumando una sigaretta».
Dopo la fuoruscita della Cri la responsabilità del campo era stata momentaneamente affidata al vice parroco di Lampedusa, don Giovanni Caserta, ma il prete dopo alcun settimane si è dimesso. «Non c'era niente da gestire - si è sfogato con gli amici - non avevo alcun mezzo e allora che ci stavo a fare?».
Nel centro di prima accoglienza gli ospiti dovrebbero fermarsi solo pochi giorni, il tempo di essere sottoposti alla visita medica e di sottostare alle procedure per il riconoscimento. Poi il trasferimento nei campi allestiti ad Agrigento e in altre città siciliane. Ma nell'isola i tempi si allungano. Per l'identificazione, ad esempio devono venire da Agrigento gli agenti del nucleo di polizia scientifica, preposti al riconoscimento dei clandestini. In ogni caso prima di essere rimpatriati gli immigrati debbono essere condotti sulla terraferma. Perché da Lampedusa sarebbe impossibile imbarcarsi per le nazioni d'origine. Così i previsti tre, quattro giorni di permanenza diventano anche quindici. «E due settimane di vita in queste condizioni - dice Mascia - sono un'eternità».
Negli ultimi tempi non arrivano solo nordafricani. Con loro sbarcano sudanesi e iracheni. Questi ultimi sfuggono dai venti di guerra annunciati da Bush, scappano dalla nuova tempesta di fuoco nel deserto del Golfo. «Come fanno, senza l'ausilio di un interprete, a spiegare il dramma da cui provengono e a essere informati della possibilità di chiedere l'asilo politico?», accusa Forgione.
Gli abitanti dell'isola preferiscono ignorare l'esistenza dei clandestini. L'unica preoccupazione è nascondere ai turisti la loro presenza. Sono due mondi paralleli che raramente si incontrano: gli immigrati sono visibili solo quando sbarcano e quando, dopo la "cattura", vengono trasferiti in colonna al campo per essere inghiottiti dal filo spinato.
Una sola volta gli isolani si sono ritrovati faccia a faccia con la rabbia dei "prigionieri". Era il 1999, il centro era stato aperto l'anno prima, e un gruppo di clandestini si era ribellato. Fuoco, guerriglia, sparo di lacrimogeni, feriti. La rivolta, l'unica mai avvenuta sull'isola, venne subito sedata. Da allora la rabbia è sbollita nella rassegnazione. Il mare dalle baracche non si vede, ma i clandestini sanno che è la loro vera prigione. Una distesa invalicabile che fa svanire all'istante ogni illusione di libertà.