Quando si ammala la psiche dei migranti

ALFREDO ANCORA*

Prima di morire, lo scrittore Stefan Zweig scrisse con il consueto e a volte un po’ amaro senso dell’ironia: "Prima pensavo che l'uomo fosse composto di corpo e di anima, adesso, vecchio, mi sono accorto che c'è il corpo, l'anima e il passaporto!".

Zweig voleva dire che esistono delle condizioni nelle quali l'esistenza stessa dell'individuo dipende ormai dalla carta d'identità, dal passaporto, dalla "green card", dagli elementi che ormai decidono e definiscono la sua identità. Quella dipendenza riguarda oggi soprattutto una delle figure più emblematiche del nostro tempo: il migrante, una persona continuamente sospesa fra di un di qui e un di lì, fra diversi tic tac di orologi, fra una cultura che lascia e una che trova, non sempre protesa ad accoglierlo, fra l'oppressione della globalizzazione e la speranza del localismo.

Da tempo assistiamo a dibattiti, proposte, simposi che spesso partono da un'idea "mitica" del migrante, ["l'invenzione dell'altro", direbbe Roy Wagner] che sembra allontanarsi sempre più da quella reale. Essa procura in Italia problemi sia a destra, dove odori xenofobi sono sapientemente miscelati con "razionalizzazioni del problema in chiave europea", sia in una sinistra divisa fra "buonisti" ed "efficentisti" [quelli dei campi di "accoglienza" che raggiungono d'estate i 40 gradi].

Per "capirlo" di più, il migrante, si stanno improntando derive scientifiche, tecnocratiche e super specialistiche, sempre più lontane dai bisogni reali e sempre restie ad attingere a solidi terreni socioculturali di ricerca. Come non ricordare, a questo proposito, gli studi mai superati di Ernesto De Martino, che vedeva nella "crisi della presenza" le origini dei tanti disagi dell'uomo moderno, o quelli dello psichiatra Michele Risso che, lavorando tra i "nostri emigrati" in Svizzera, aveva potuto capire come determinati disturbi [delirio di fattura, rappresentazioni magiche della malattia che colpivano alcuni nostri connazionali] venivano gestiti, spiegati, contestualizzati e curati all'interno della propria comunità sulla base di regole di accoglienza e non della possibilità d’espulsione.

Questo richiamo storico vorrebbe proporre due intenti. Innanzitutto cercare di ridare continuità, senso della storia e significato, a sintomi e sindromi che producono i processi migratori, destrutturanti, e per questo ad alta intensità conflittuale. Inoltre, si vorrebbe evitare la nascita di neo discipline che, con il pretesto dell'etno [termine seducente ed esoterico per noi occidentali, sempre in crisi per definizione], si stanno preparando ad ennesimi territori di caccia, come avvenne, a suo tempo, in America dove, per studiare "meglio" le problematiche "psichiche" degli indiani, inventarono la "folk psychiatry"

Ma perché la figura dell'emigrante ci suscita tanta attrazione/repulsione? Spesso la sentiamo come se irrompesse dentro di noi in maniera violenta, non solo perché ci viene trasmessa attraverso l'immagine dell’ennesimo sbarco o dell’ ennesimo rogo cui l’emigrante viene mandato, ma anche perché, a un altro e più profondo [e quindi più difficile da controllare] livello, ci fa muovere qualcosa dentro. Qualcosa che ha a che fare con l'estraneo, lo straniero, e con quel difficile processo di straniamento che è radicato in noi e ci obbliga a misurare, alla fine, quanto ci sentiamo stranieri/estranei a noi stessi e agli altri. Le sensazioni di disagio e di malessere che l'altro suscita, diventano così il disagio e il malessere di noi stessi. Non è certamente gradevole vedere che in fondo abitiamo un mondo che ci vede estranei e con poca voglia di conoscerci. Meglio favorire la tendenza alla rimozione.

A questo proposito, non dimentichiamo che l'uomo è sostanzialmente sempre una "frontiera" che guarda continuamente in due luoghi e che, posando lo sguardo su stesso, getta contemporaneamente gli occhi sull'altro. Nel processo di conoscenza, l’alterità diventa un ulteriore momento di conoscenza, una "risorsa" [non in senso "confindustriale"], una possibilità di creare nuove modalità di relazione, di entrare in un dialogo vero, processuale e non basato su concezioni mitiche e statiche. In realtà, l'incontro rappresenta sempre un confronto [che prevede anche momenti di scontro, come tutti i veri confronti] non solo fra due mondi diversi ma anche fra due organizzazioni mentali diverse, due concezioni del mondo, della malattia, della cura.

Lo shock culturale, le sindromi da sradicamento e tutte le forme di sofferenza indicate sotto il nome di "patologia della transizione", prima di diventare delle fredde rappresentazioni monografiche, devono essere ricontestualizzate all'interno di nuovi spazi [luoghi culturali dell'incontro, dell'ascolto], tempi e significati. Questo processo è caratterizzato da pause e silenzi difficili da interpretare, soprattutto per chi ha ormai "trapiantato" nel cervello un orologio sincronizzato solo su un certo tipo di tempo, di rumore, di frenesia.

Come non ricordare, nella nostra cultura, le sindromi depressive che spesso insorgono durante il fine settimana, quando il contatto con un altro tipo di tempo provoca malessere invece che disponibilità alla riflessione? E come non interrogarsi su quale contributo in questa delicata materia [la psiche che emigra sottoposta a tante pressioni] possa venire dagli operatori psichiatrici? Come rendere vive e reali quelle branche del sapere, come la psichiatria transculturale [termine preferibile al più criptico etnopsichiatria], che vorrebbero passare attraverso [trans] e non sopra mondi e modi culturali diversi dai nostri?

Innanzitutto, forse, riesaminando quei "linguaggi" naturali, cioè fatti di carne e ossa, di sudore e fisicità, di pensieri contaminati e contaminanti che, in un rapporto reciproco, possono ritrovare nuova linfa per un diverso conoscere. La psicologia, come diceva Antonio Gramsci, non deve diventare "una foglia di fico che copre le vergogne". Allora, più che l'eterno confronto e le instancabili statistiche analitico-comparative che lasciano tutto come sta, ci sarebbe bisogno di un operatore psichiatrico nuovo, pronto al passaggio attraverso le culture e le frontiere anche dei propri stereotipi e preconcetti.

Un pensiero/azione diverso vuol dire anche diventare disponibili a "decentrarsi", a prestare attenzione a quelle derive periferiche che un'ottica troppo etnocentrica ha sempre trascurato. In conclusione, il percorso che si vorrebbe suggerire è quello di un sapere permeato da pensieri nomadi e flessibili, pronti a scommettere e a mettersi in gioco, a trans-formarsi, a bagnarsi nell'altrove e nell'altrui. Lì dove si formano spazi di oppressione e riduzione di ogni identità, continui attentati a una vita vissuta sempre più in bilico, è più facile che insorga quella sofferenza psichica che poi, purtroppo, arriva compatta e ben strutturata nei nostri servizi psichiatrici territoriali e ospedalieri.

Forse la stanza dove s'incontra questo tipo di malato non basta più. C'è invece bisogno di "ruote" mentali per spostarsi, per andare a visitarlo nei luoghi dove vive e si ammala. E’ un’utopia? E’ solo nostalgia dell'impegno sociale di un tempo in cui si discuteva la neutralità della scienza e la "tecnicità" del ruolo degli operatori? Forse, ma passare attraverso "la storia" contagiandosi con chi la racconta può contribuire a capire meglio chi si rivolge a noi, per poi poter iniziare insieme "una storia" diversa di conoscenza e aiuto.

*Psichiatra transculturale dell’Unità di consulenza sistemica e transculturale Asl Roma B