Costano meno Gli immigrati
convengono al capitale perché svalutano il lavoro
LUIGI CAVALLARO
da "Il Manifesto" del 08 Agosto 2000

Non riassumerò i termini della discussione tra me e Valentino Parlato (il manifesto, 19 luglio. Sono poi intervenuti Vincenzo Faranda il 25 luglio e Giovanni Mazzetti il 28 luglio): lo ha già fatto Giovanni Mazzetti e, siccome condivido integralmente il merito delle sue considerazioni, la mia replica alla garbata polemica di Valentino si limiterà al suo argomento secondo cui, se il Nordest (e non solo) chiede più immigrati, "qualche ragione la deve pur avere". Di ragioni, caro Valentino, gli imprenditori in effetti ne hanno. Non però quella della maggior crescita della domanda rispetto alla crescita della produttività (non trova riscontri econometrici, per quanto io sia tra quanti dubitano della reale significanza di questi ultimi) e nemmeno quella di aumentare "artificialmente" la quantità di forza-lavoro dipendente, per evitare che i pochi lavoratori rimasti si uniscano e riescano a contrastare il loro potere di classe (l'unità presuppone un collante ideologico che da oltre un decennio non c'è più). Le ragioni sono di altro tipo e si compendiano piuttosto nell'esigenza di piegare quel rifiuto di essere corvéable a merci, che i nostri giovani disoccupati ancora oppongono a quanti li esortano a vendersi per qualunque prezzo e per qualunque lavoro. Non c'è dubbio, infatti, che il valore storico-sociale della forza-lavoro italiana si sia innalzato enormemente rispetto ai livelli di un secolo fa (quando, per dirne solo una, un operaio edile romano guadagnava in una giornata di lavoro di quattordici ore l'equivalente di un cucchiaio d'olio, una pagnotta e un'aringa affumicata). Ma quello stesso Marx, che diceva di non essere marxista e che la forza-lavoro non era corvéable a merci, affermava perentoriamente che, sulla base del modo di produzione capitalistico, il lavoro è una merce come le altre e deve subire tutte le oscillazioni che dipendono dalle incessanti variazioni della domanda e dell'offerta: "sarebbe sciocco considerarlo da una parte come una merce, e d'altra parte volerlo porre al di fuori delle leggi che determinano i prezzi delle merci". In effetti, se è vero che il prezzo d'offerta (il "valore") della merce forza-lavoro è fissato al livello storico sociale di sussistenza (il "tempo di lavoro socialmente necessario" a riprodurre un lavoratore di qualità medie), è altrettanto vero che, come Marx spiega nel terzo libro del Capitale, questo "valore" oscilla continuamente sul mercato tra un limite superiore, determinato dal valore dei lavoratori i cui costi di riproduzione sono superiori alla media sociale, e un limite inferiore, determinato dal valore di quei lavoratori i cui costi di riproduzione sono inferiori alla media. Il primo caso si verifica quando la domanda eccede l'offerta di forza-lavoro che può trovare occupazione al "valore" (cioè al salario) medio tra questi due estremi, il secondo quando la domanda è inferiore. Che significa tutto ciò ai nostri fini? In primo luogo che, se gli imprenditori del Nordest volessero colmare il gap di manodopera ricorrendo all'impiego di disoccupati meridionali, dovrebbero aumentare il salario loro offerto. E' evidente, infatti, che il meridionale che voglia trapiantarsi al Nord incontra costi di riproduzione superiori a quelli del suo omologo settentrionale, giacché la famiglia veneta, emiliana o lombarda, provvedendo quanto meno all'alloggio della propria prole occupata, garantisce all'impresa un vantaggio che con l'emigrante non avrebbe più (considerazioni analoghe ha svolto Geminello Alvi su Repubblica del 18 luglio). D'altra parte, se gli imprenditori acconsentissero a pagare salari più alti ai meridionali, creerebbero le premesse per un aumento generalizzato dei salari: senza bisogno di scomodare il Capitale e la lotta di classe, è la stessa teoria marginalista a dire che il salario pagato "all'ultimo lavoratore occupato", cioè al lavoratore marginale, fissa il prezzo di vendita di tutta la forza-lavoro. Stando così le cose, aprire le porte agli immigrati extracomunitari è una vera pacchia per le imprese: non solo perché permette loro di rimediare alla relativa scarsità di manodopera, ma anche perché, alla lunga, spingerà il "valore storico-sociale" della nostra forza-lavoro verso il suo limite inferiore. I costi di riproduzione degli immigrati sono notoriamente inferiori ai nostri: essi non hanno una "storia" alla quale appellarsi o, se ce l'hanno, è una storia di stenti e di miserie, a fronte della quale anche un cucchiaio d'olio, una pagnotta e un'aringa affumicata possono rappresentare un traguardo. E siccome il meccanismo descritto da Marx vale anche a rovescio, si può prevedere ragionevolmente che, ceteris paribus, il prezzo di vendita dell'intera forza-lavoro finirà col coincidere con il (minor) salario pagato agli immigrati. Come suggeriva Galapagos (il manifesto, 30 luglio), non è un caso che gli Stati Uniti, alle prese con problemi di crescita inflazionistica, abbiano allentato i controlli sulle frontiere con il Messico. Ribadisco che ciò non vuol dire che non si debba programmare una certa immigrazione, o che non ci si debba battere per estendere agli immigrati i diritti civili, politici e sociali di cui (ancora) godiamo. Quel che volevo dire è che indurre una popolazione in diminuzione ad un maggiore risparmio, come raccomandano innumerevoli "esperti" da baraccone televisivo, può causare parecchi problemi (si vedano le considerazioni di Lord Keynes, pubblicate in questa stessa pagina); e soprattutto che sollecitare l'apertura delle frontiere con l'argomento del calo demografico è frutto di un'analisi del processo economico così inconsistente che si potrebbe perfino dubitare della buona fede di quanti, a sinistra, se ne fanno portatori. Anche perché, come dicono i giuristi, la buona fede non scusa se l'ignoranza dipende da colpa grave.