da "La Repubblica"

del 14 Luglio 2000

IL PARADOSSO DEMOGRAFICO

di GIOVANNI VALENTINI

 

C'E' una bella immagine, nello scenario della giungla metropolitana in cui sopravviviamo, che può rappresentare meglio di qualsiasi ragionamento la "questione immigrati" nell'Italia dei nostri giorni: sempre più spesso capita d'incontrare per strada un uomo o una donna anziani, schiena curva e passo incerto, accompagnati e sorretti da un ragazzo o una ragazza di colore, collaboratori domestici, extracomunitari, filippini o africani. In quelle coppie che il destino ha più o meno occasionalmente assortito, c'è l'Italia egoista che non fa più figli, invecchia e viene assistita a pagamento da una gioventù estranea, arrivata da paesi lontani, affamata di pane e di lavoro. E C'E' anche l'Italia insensibile e indifferente ai vincoli della famiglia, alla cura degli anziani, alla solidarietà fra le generazioni, un'Italia che viene surrogata dagli stranieri, più poveri e bisognosi di noi. Il paradosso, o se si preferisce la nemesi storica, è che l'egoismo demografico ha ridotto le nascite e ora è proprio la riduzione delle nascite a imporre una nuova solidarietà sociale. Quanti meno figli si fanno, tanti più immigrati occorrono. L'equazione può apparire anche semplicistica e riduttiva, ma in buona sostanza è questo il nocciolo del problema: gli immigrati servono, ne abbiamo bisogno, non ne possiamo fare a meno. Nelle nostre case come nelle nostre campagne e nelle nostre fabbriche: "colf", inservienti, infermieri, benzinai, portieri, contadini, manovali e fra poco anche tassisti. Piaccia o meno, il flusso migratorio comunque arriva. Non siamo noi a decidere se l'immigrazione la vogliamo o no. Noi, semmai, possiamo decidere "quale" immigrazione vogliamo: regolare, controllata, programmata oppure clandestina, selvaggia, incontrollata. E di conseguenza, possiamo provare a gestire questo flusso inarrestabile, in rapporto alle nostre esigenze e alle nostre capacità ricettive, alla possibilità di integrare gli immigrati nella società italiana, ma anche in base agli impegni e agli obblighi assunti con i partners europei. Va proprio in tale direzione l'annuncio del governo che ora intende aumentare la quota annuale degli ingressi, per soddisfare la domanda crescente del mercato del lavoro, disciplinare meglio l'immigrazione, registrare chi arriva regolarmente in Italia con una carta d' identità e un permesso di soggiorno. Non è un caso, del resto, che proprio nei giorni scorsi il ministro dell'Interno Enzo Bianco si sia meritato un pubblico elogio dal suo collega tedesco, Otto Schily. Evidentemente, dopo le incertezze e le contraddizioni del passato, il nostro paese comincia a conquistarsi un'affidabilità internazionale anche su un terreno così impervio e accidentato. Non sarebbe meglio, allora, mettere da parte le polemiche, le strumentalizzazioni di sapore elettorale, per sedersi intorno a un tavolo - maggioranza e opposizione - in modo da confrontarsi e discuterne costruttivamente? Accecato dalla contrapposizione ideologica, questa volta il centrodestra rischia in un colpo solo di dissociarsi dal fronte imprenditoriale del Nord, e del Nord-Est in particolare, e contemporaneamente dal fronte cattolico-sociale rappresentato per tutti dal governatore Fazio. Mentre gli industriali di Udine o di Treviso chiedono più lavoratori immigrati e in mancanza minacciano di trasferire le loro aziende all' estero; mentre l'associazione nazionale costruttori propone addirittura di assegnare una casa a chi viene a lavorare da noi; mentre la Banca d'Italia segnala la necessità di riaprire le frontiere, il Polo sembra ossessionato da paure autarchiche e protezionistiche, come se i nuovi barbari fossero alle porte. Intendiamoci: non è che le preoccupazioni siano completamente infondate. Alzi la mano e scagli la prima pietra chi di noi, salendo su un autobus o un treno ovvero entrando in un bar o in una pizzeria affollati di extracomunitari chiassosi e molesti, non ha provato una reazione immediata di disagio, di fastidio, di intolleranza. Non è necessario essere razzisti per denunciare l' invasione delle nostre città da parte dei malviventi albanesi o curdi, delle prostitute nigeriane, degli stupratori marocchini. Ma che c'entra tutto questo con l'esigenza di gestire l'immigrazione, evitando magari che tanti disperati finiscano per arruolarsi nell'esercito della criminalità, della violenza e dello sfruttamento? Qui occorre, piuttosto, distinguere tra regolari e clandestini; tra chi entra nel nostro paese per cercare un lavoro, una casa, una condizione di vita più umana e civile, e chi invece arriva con lo scopo di rubare, aggredire, violentare. Anche nei confronti del nostro povero Sud, di tanti disoccupati e sottoccupati che ancora soffrono nelle regioni meridionali, bisogna fare un discorso franco e onesto. Si tratta di due questioni entrambe importanti, ma diverse, distinte, separate. Dal Sud al Nord, gli italiani non sono più disposti a spostarsi come negli anni Cinquanta, all' epoca del boom e del miracolo economico. Non vogliono trasferirsi in Piemonte, in Lombardia o in Veneto per andare a fare i manovali, i carpentieri, gli operai. Spesso i disoccupati meridionali oggi sono diplomati o laureati e rivendicano legittimamente un lavoro adeguato al loro livello di istruzione, sia sul piano professionale sia sul piano economico: tant'è vero che anche al Sud occorrono gli immigrati per i lavori più pesanti, più faticosi e nocivi. All' inizio del terzo millennio, il Mezzogiorno non ha più bisogno di assistenza, bensì di sviluppo e di crescita, di politiche moderne, di occasioni di lavoro nei settori più avanzati della tecnologia e dell'informatica. Affrontiamo la realtà, allora, senza ipocrisie, senza opportunismi e demagogie. Un popolo di emigranti come il nostro non può chiudere la porta in faccia a chi cerca di difendere e valorizzare la propria dignità di uomo o di donna.