da Il Corriere della Sera

del 17 luglio 2000

Una società multietnica, non multiculturale

PER RESTARE UNA NAZIONE

di ERNESTO GALLI DELLA LOGGIA

Come potrà l’Italia continuare a essere una nazione pur diventando multietnica? È questo, mi sembra, il problema di fondo che ci pongono i dati sull’immigrazione appena rilasciati dall’Istat, i quali indicano in già un milione e 270 mila gli stranieri legalmente presenti nel nostro Paese, di cui ben 230 mila al di sotto dei 18 anni e ben 85 mila già adesso alunni nelle nostre scuole. L’animata discussione in corso che è seguita alla pubblicazione di quei dati verte, invece, pressoché esclusivamente sulla politica degli ingressi. Si tratta però, direi, di una discussione nella sostanza abbastanza futile: nessuno può illudersi, infatti, che in futuro la crescita degli immigrati cessi per qualche sua ragione interna (avverrà anzi il contrario) e tutti sappiamo benissimo, altresì, che gli immigrati ci sono e ci saranno sempre più necessari: sia per supplire alla mancanza di manodopera, sia per rifornire di un adeguato gettito contributivo il nostro sistema pensionistico. Ciò posto, quello che dovrebbe vedere tutti d’accordo (rendendo anche per questo verso la discussione superflua) è il principio che comunque l’arrivo degli immigrati nel nostro Paese deve avvenire in condizioni di legalità. La legalità è un valore generale di cui non si può invocare l’applicazione a corrente alternata. Si deve applicare agli appalti di opere pubbliche come all’amministrazione della giustizia, come all’immigrazione. Dunque una volta fissate quote realistiche di ingressi e procedure snelle e ragionevoli per i visti e i permessi, bisogna farle assolutamente rispettare: in particolare il ministero degli Interni deve convincersi una buona volta che va esercitata un’azione repressiva dura, decisa, continua, contro i racket criminali che da anni, sostanzialmente indisturbati, organizzano la tratta degli esseri umani attraverso i nostri confini, con la ripugnante appendice della riduzione in schiavitù di migliaia di donne da avviare alla prostituzione. Ma detto questo, sulla politica degli arrivi mi pare in pratica sia detto tutto. Rimane, invece, il problema vero e massimo che, come si diceva all’inizio, riguarda il nostro futuro come nazione. Il problema si riassume in una domanda: vogliamo divenire un Paese con alcuni milioni di stranieri (quanti? chissà, cinque, sei, forse sette milioni) legalmente residenti ma pur sempre in condizioni di precarietà? un Paese diviso di fatto in due categorie di abitanti, una con la pienezza dei diritti e l’altra no? un Paese il cui panorama sociale risulterebbe in breve inevitabilmente frantumato in una molteplicità di culture, ognuna in difficile comunicazione con le altre e inevitabilmente tentata di rinchiudersi nei propri spazi sempre più assomiglianti a un ghetto virtuale? Vogliamo diventare questo Paese? multiculturale, senza alcun vero tessuto connettivo e perciò diviso, insicuro, sempre sull’orlo - è facile immaginare - di potenziali tensioni incomponibili, ovvero vogliamo restare una sola nazione, offrendo la possibilità agli immigrati e specie ai loro figli (si badi: offrendogli la possibilità non già imponendogli l’obbligo) di diventare italiani? La nazione in cui credono le persone di animo liberale non è fatta del colore della pelle o del sangue degli avi. L’Italia che noi amiamo è un paesaggio, una lingua e dunque una tradizione espressiva di sentimenti e di valori umani, è un insieme di gesti, di modi e di legami personali, è una cultura e la sua storia, è un patrimonio religioso e spirituale. Forse di tutte queste cose non ci si può impadronire integralmente nel giro di una generazione, ma di sicuro esse possono essere almeno in parte condivise da chiunque, provando per loro una qualche simpatia, voglia farlo. E ciò è tanto più possibile se quelle cose si presentano nella luce della democrazia, di un’ampia libertà di scelte personali e di diritti posti a protezione della persona: allora, anche per chi non è nato tra loro, esse possono diventare una patria. Dobbiamo dunque decidere se mettere a disposizione degli immigrati la possibilità di diventare italiani. Se vogliamo, e possiamo, essere un Paese sufficientemente generoso e coraggioso, sufficientemente sicuro di sé - in questo senso un Paese «grande» - da fare una simile scommessa sulle nostre capacità di integrare ciò che è diverso. Poichè a me pare che sia proprio questo il punto: e cioè che, se vogliamo continuare a essere una sola nazione, non possiamo limitarci ad accogliere: dobbiamo mirare a integrare. Mirare ad un’Italia multietnica proprio perché desiderosi di conservare l’Italia, mentre un Paese non integrato ma che restasse multiculturale, rapidamente non sarebbe più l’Italia, e, divenuto con ogni probabilità anche meno democratico in un non lungo giro di tempo, alla fine non si sa più cosa sarebbe. Sono convinto che è quella dell’integrazione la strada da battere. Lo strumento per muoversi in tale direzione non va cercato troppo lontano, basterebbe l’adozione anche da noi di una legge sulla cittadinanza analoga a quella entrata in vigore da quest’anno in Germania. Una legge, cioè, in base alla quale innanzitutto possa divenire cittadino italiano chiunque nasca in Italia da genitori stranieri, nonché tutti i bambini di età inferiore ai dieci anni, salva la necessità per tutti di optare in favore della nuova cittadinanza al compimento del diciottesimo anno di età. La quale legge preveda poi il rilascio della cittadinanza italiana anche a chiunque, non nato nella Penisola, tuttavia vi risieda da almeno qualche anno, alle seguenti condizioni: qualora 1) sia in possesso di permesso di soggiorno di qualunque durata; 2) non abbia riportato condanne penali; 3) sia in grado di provvedere al mantenimento proprio e della propria famiglia senza dover ricorrere a sussidi pubblici; 4) rinunci alla propria cittadinanza di origine; 5) si riconosca nell’ordinamento liberal-democratico della nostra Costituzione e dichiari di non appoggiare movimenti in genere contrari all’ordinamento liberale e democratico o che con la violenza o attività preparatorie di atti violenti abbia messo in pericolo gli organi costituzionali italiani o la politica estera italiana; 6) abbia un’adeguata conoscenza della lingua italiana. E’ evidentissimo il carattere eminentemente politico-culturale specie delle ultime tre condizioni, in armonia per l’appunto con il carattere non etnico o razziale bensì culturale dell’idea di nazione che sta dietro un simile provvedimento. Queste condizioni significano, infatti, che per diventare cittadino di un Paese, cittadino italiano in questo caso, bisogna aderire ai valori che informano le nostre istituzioni e la nostra società, bisogna desiderare esplicitamente di farlo rinunziando alla propria precedente appartenenza, e infine bisogna concretizzare tale volontà associativa nonché la volontà di inserimento nella nuova patria mostrando di conoscerne la lingua. Naturalmente, quella che ho appena riassunto è solo una traccia, perciò modificabile dove va modificata. L’importante è decidere al più presto quale è l’Italia del futuro che vogliamo, prima che siano gli eventi a confezionarcene una, magari decisamente sgradevole o irriconoscibile.