da "Avvenire"

del 12 Luglio 2000

FAMIGLIE D'IMMIGRATI LA PROVA DEL DIALOGO

Ulderico Bernardi

Trovare un buon lavoro, metter su casa, avere dei figli. Sotto ogni cielo è questo il percorso di vita del migrante. E il segno che l'andare è finito, senza ritorno. Ha scelto la sua nuova patria. Qui cresceranno i suoi bambini. Ma sfuggire alla precarietà, non essere più braccati dalla solitudine e dal bisogno ha un prezzo: come saranno i piccoli nati e vissuti nel nuovo Paese? Estranei alla terra dei padri, non finiranno per diventarlo anche alla famiglia? Legittimo è il desiderio di condividere, nella discendenza, l'origine. Una lingua, delle consuetudini alimentari, i costumi della tradizione, nell'ordinario dei giorni e nello straordinario degli eventi festivi. In questi termini si riassume il problema dell'integrazione sociale e della continuità culturale per milioni di emigrati. La stabilità non può comportare la negazione delle proprie radici. Si può essere costretti a farlo, forzati all'assimilazione di ogni aspetto del vivere altrui. Ma il problema è solo rinviato. Prima o poi la questione dell'identità perduta si ripresenta. C'è perfino un teorema sociologico a dimostrarlo. Si chiama «Legge di Hansen», dal nome dello studioso americano che ne ha verificato l'esattezza. In sostanza, ciò che i nonni hanno rimosso e i padri dimenticato, i nipoti rivendicano. Alla terza generazione l'orgoglio delle origini riaffiora. In America lo sanno bene. Tanto vale affrontarlo subito anche in Italia. Paese che si è affacciato solo negli ultimi decenni sulla scena delle nazioni meta di immigrati. In una realtà europea che vede la nostra penisola ancora agli ultimi posti per numero di stranieri residenti. L'Istituto centrale di statistica dice che al primo gennaio 2000 erano poco più del 2 per cento, con un'accelerazione di crescita rispetto a un anno prima. Ma soprattutto si conferma la vocazione a restare per quel milione e 270.500 stranieri residenti. Rispetto al 1999, si registra un aumento del 13,8 per cento. All'interno del flusso d'entrata ci sono soprattutto minorenni, donne e famiglie di chi è arrivato prima. Ora si ricompongono. I minori sono oltre il 18 per cento della popolazione straniera, 230mila, quasi un quarto di percentuale in più del '99. I bambini nati da genitori stranieri in Italia sono 21mila, e un poco di più (22mila) sono quelli arrivati con la mamma da tanti Paesi diversi. Totale: 43mila ragazzine e ragazzini che andranno a scuola, che giocheranno dove possono, che faranno amicizia con i coetanei italiani. Sui modi e sui contenuti della cultura da trasmettergli si interrogano la scuola, il mondo ecclesiale, i media, gli amministratori e i governi. Un grosso problema, soprattutto inedito. Certamente non privo di difficoltà, posto che le provenienze sono disparate per lingua, fede religiosa, valori di riferimento, e non solo per continente. Ci sono cattolici filippini, polacchi e sudamericani. Musulmani dell'Africa e del vicino Oriente. Gira e rigira è sempre la religione il punto critico. Qui è il cuore di ogni comportamento. Nessuno oggi pretende più l'assimilazione cieca, pronta e assoluta che il Melting Pot imponeva ai nostri vecchi emigranti nell'America Wasp (Withe, Anglosaxon Protestant). Pena l'emarginazione sociale. Certamente il sistema scolastico dovrà mettere a punto criteri adeguati per una «socializzazione al plurale», formando i bambini alla diversità delle culture come opportunità di maggiore conoscenza. Lo si sta già facendo. L'apparato amministrativo e giuridico si dovrà adeguare alla nuova situazione. Ricercando comunque il dialogo, l'intesa fra le culture. Senza dimenticare tuttavia che ogni Paese ha la sua storia. Le fondamenta dell'identità collettiva non vanno sconvolte. Messe a confronto sì. E ciascuno ha l'obbligo di proporre il meglio della sua umanità, accettando il principio che chi scambia, cambia. Nel senso che gli adattamenti sono reciproci e l'intesa sarà tanto più solida quanto più ciascuno conserva la dignità e l'onore del proprio essere, mentre accentua la curiosità e l'amore per l'altro. Vale per qualsiasi comunità: sia quella familiare, formata dall'unione di un uomo e di una donna, diversi per carattere, esigenze, aspirazioni, sia la comunità plurietnica, decisa a partecipare al bene comune di una società che non vuole conflitti fra le culture. Ulderico Bernardi