da La Repubblica

del 25 agosto 2000

L'identità nazionale e l'alibi immigrati

di PAOLO RUMIZ

S OTTO l'urto degli immigrati, l'Italia saprà ancora esistere come nazione? C'è chi non ne è affatto convinto. Giovanni Sartori per esempio. A supporto di questo dubbio, sul Corriere il costituzionalista spara pessimismo ad alzo zero. Ricorda al governo della Sinistra e a noi italiani che l'integrazione dello straniero, specie se islamico, è difficile se non impossibile; che la società multietnica è di per sé ingovernabile, una Bosnia destinata a implodere. Conclusione: all'immigrato bisogna contrapporre barriere, rinforzando i controlli ai confini e disciplinando l'afflusso dentro la Fortezza Europa. A quel punto cerchi le cifre dell'apocalisse. E constati che l'Italia è, assieme alla Grecia e alla Spagna, il Paese europeo con meno stranieri. Uno e mezzo ogni cento abitanti. Niente, a confronto del 19 per cento svizzero, del 10 austriaco, del 9 della Germania o del 6.3 della Francia. Numeri arcinoti. E allora? Se persino uno studioso come Sartori evoca la necessità di nuove cortine di ferro, significa che questo Paese vive l'immigrazione con un' ansia speciale. Il clima lo conferma. Esiste un'ipersensibilità italiana all'immigrazione. Dove nasce? È sufficiente, per capire, la sindrome di Otranto? Basta la peninsularità mediterranea, la proiezione simultanea dello Stivale verso i due quadranti poveri del mondo, l' Est e il Sud? O c'è dell'altro: magari una vulnerabilità identitaria speciale rispetto ad altri Paesi d'Europa? Perché all'Italia bastano poche centinaia di migliaia di nuovi arrivati per temere di non essere più Italia? Come ha fatto la Germania a restare Germania nonostante milioni di turchi, jugoslavi e indiani? Rispondere a queste domande significa frugare onestamente dentro la nostra appartenenza nazionale e nel nostro reale radicamento al territorio. Siamo brava gente, certo. Non sempre il nostro è razzismo da Curva Sud. Più spesso è la disperazione per un'estraneità, il contatto con una diversità non digeribile in tempi brevi. L'angoscia di sentirsi, talvolta, stranieri in casa propria. È grazie alla sottovalutazione di questo spaesamento da parte delle sinistre che crescono i populismi xenofobi di destra. Se Haider fosse solo una cosa austriaca, non ci stanchiamo di ripeterlo, non metterebbe tanta paura. Ma non basta. Abbiamo altre specialità nazionali. La più importante è che ancora ieri esportavamo mano d'opera, come la Jugoslavia o la Turchia. Poi, con un colpo di reni che il mondo ancora ci ammira, siamo passati nel club dei ricchi importatori di immigrati. Culturalmente, un terremoto. L'Italia ha grandi capacità umane di accoglienza, ma non ha ancora sviluppato una cultura dell'immigrazione. Più cresce il bisogno di stranieri e più cresce l'allarme per il loro arrivo. Non è solo paura di un potenziale delinquente o di un futuro concorrente. È che mentre nei Paesi a ricchezza consolidata l'africano o l'asiatico eccitano spesso ricordi di potenza coloniale, nei Paesi a ricchezza recente l' uomo nero evoca solo il fantasma rimosso della povertà trascorsa, fa temere il risucchio nella famiglia dei poveri. L'immigrato è utile, indispensabile al Made in Italy. Costando meno, alleggerisce le contraddizioni di un capitalismo iper-individualista che ha ancora grandissime difficoltà a fare sistema. Così accade persino questo: che l'emergenza stranieri sia artificialmente alimentata dallo stesso blocco sociale che degli stranieri ha disperatamente bisogno. Il gioco è semplice. Più si alimenta la paura e minore sarà la quota possibile di permessi legali. Maggiore, quindi, sarà lo spazio per il lavoro nero. In definitiva, l'emergenza serve a tenere basso il costo della manodopera, lasciando gli stranieri nella nicchia del precariato. Corollario di questa ipocrisia di fondo è la legislazione italiana. Da noi non esiste il visto per chi "cerca lavoro". Lo straniero deve procurarsi un contratto dall'estero, e la cosa è, ovviamente, quasi impossibile. L'unica strada è spesso il visto turistico. Come dire che l'aggiramento della legge è inizialmente indispensabile all'avviamento al lavoro. Ne consegue un paradosso: senza un canale sempre aperto di illegalità, l'Italia non potrebbe mandare avanti la sua economia. Per questo, se da noi il numero degli stranieri è ancora irrisorio in cifra assoluta, la percentuale degli illegali è altissima, fuori controllo. È l'altra specialità italiana. Questione di regole, dunque. All'immigrato che entra in Germania, lo Stato le sbatte in faccia fin dal primo minuto. Tutto le rammenta, a partire dal codice della strada. Il controllo sociale per il loro rispetto è implacabile, ai limiti della delazione. Lo è fra i tedeschi stessi, figurarsi con gli stranieri. Ma quella pressione continua significa anche che se accetti quelle regole, puoi diventare un tedesco nei diritti. E in Italia? Per rompere una regola bisogna che delle regole ci siano. Non è il nostro caso, e l'immigrato lo avverte immediatamente. L' Italia è un Paese strano dove ci si arrangia, gli spazi pubblici sono "res nullius", e persino la Destra sente la legalità come un ostacolo all'arricchimento e un fastidio alla libertà personale. E poi, c'è l'identità. Qualsiasi straniero, quando entra in Francia o Germania, ha mille segnali che glielo rammentano. Non sono semplicemente le bandiere o gli inni. È l'architettura, il cibo, la musica, il dialetto Schwitz, le baguettes transalpine, la birra bavarese o i campanacci delle vacche austriache. È un'identità che non ha bisogno di retorica perché è fondata prima di tutto sul paesaggio. Su simboli che a ogni passo ti dicono: tu sei qui e non potresti essere altrove. Segnali fondamentali, rassicuranti, in quest'epoca che ti proietta nel grande nulla del globale. In Italia, appena esci dalle Cento Città, finisci in una campagna anonima che per trasformarsi in industria ha furiosamente svenduto se stessa, costruendo il proprio sviluppo non su un'affermazione, ma su una negazione. Sulla vergogna di un'antica condizione subalterna. Chissà allora. Forse a farci sentire spaesati non sono quei pochi stranieri ai margini della nostra economia. Siamo noi stessi, abitanti di un'industriosa provincia che ha accettato il peggio di una modernità distruttiva e non ha saputo salvare le radici né costruire reti identitarie efficaci. Non c'è polizia, non c'è ronda padana che tenga, quando la socialità è smantellata e la corsa alle villette blindate ha trasformato la campagna in territorio Comanche. No, non sono gli alieni a metterci in crisi. Siamo noi a essere, in partenza, alieni in casa nostra. Per questo, demonizzare l'Altro rischia di diventare l'ultima risorsa per ricostruire il branco, l'ultimo inganno di una società in crisi di valori che ha paura di guardare dentro se stessa. L'idea di un nuovo Muro serve anche a questo: ad alimentare una presunzione di innocenza. E a dire, come durante la guerra fredda, che il male viene da fuori; che non è anche un prodotto indigeno. Ma è proprio qui che il discorso sull'Italia diventa europeo. Se quel Muro è davvero necessario, può bastare a proteggere l' identità dell'Unione? Oppure esiste, anche qui, un vuoto preesistente, una debolezza intrinseca di cui gli immigrati non sono la causa ma semplicemente i rivelatori? Domanda che ne pone un'altra, fondativa, primordiale. Come fa l'Europa ad accettare le proprie diversità storiche interne se non è in grado di digerire nemmeno quelle esterne e minoritarie? E una volta che accettiamo la logica dello scudo protettivo, cosa ci rimane se non l'etnìa? Cosa ci separa dagli Haider e persino dai Karadzic? Dove va a finire l'idea fondativa di un federalismo solidale, basato sulle regole e sui diritti fondamentali? L'Europa deve rispondere, se vuole essere davvero all' altezza di se stessa.