il manifesto - 01 Marzo 2003
L'abito cangiante dell'appartenenza
Meticciato e politiche dell'identità dei movimenti sociali nelle società contemporanee. Due numeri delle riviste «aut aut» e «Contemporanea» dedicati alla crisi del multiculturalismo
ENRICA RIGO
MMentre «nativi» e «immigrati», incuranti della rivolta in corso nella New York del 1863, si fronteggiano nello scontro finale nel nome e per i valori dei padri fondatori, le armate federali reprimono a cannonate i fermenti di guerra civile, travolgendo entrambe le fazioni. È in questo modo un po' cinico che nell'ultima scena del suo film Gangs of New York Martin Scorsese tratteggia la metafora della nazione multiculturale per eccellenza, gli Stati Uniti. Uno scenario che si presta a descrivere anche molte delle ambiguità e degli equivoci insiti in una certa retorica del multiculturalismo che - non solo oltre oceano - è divenuta ormai protagonista del discorso pubblico sul destino delle società contemporanee, e il cui rischio maggiore sembra essere quello di perdere di vista la posta in gioco risolvendo o relegando i conflitti sociali a conflitti identitari. E proprio agli equivoci del multiculturalismo, che in nome del diritto alla differenza pretende di cristallizzare singolarità o pluralità attraverso narrative identitarie, sono dedicati l'ultimo numero della rivista aut aut, dal titolo Gli equivoci del multiculturalismo curato da Giovanni Leghissa e Davide Zoletto (aut aut, € 10,50 che presenta saggi di Ulf Hannerz, Gayatri C. Spivak, James Clifford, Aihawa Ong, Roberta Altin, Fabio Quassoli e Anna Maria Rivera, oltre a un'intervista a Edward W. Said), e la sezione monografica della rivista Contemporanea intitolata alle «Genealogie multiculturali. Storia e critica», curata da Sandro Mezzadra (Contemporanea, VI, n. 1, che raccoglie i contributi di Raffalla Baritono, Laura Lanzillo, Federico Rahola e Ruba Salih). Quasi una moda quella dell'identità che, in particolare in Italia, ha visto spesso importare acriticamente categorie elaborate in contesti completamente diversi e utilizzate, a seconda dei casi, per prospettare scenari apocalittici in cui il diritto alla differenza culturale si sarebbe risolto nella tolleranza diffusa di pratiche barbare come l'infibulazione, o per inventare improbabili figure professionali che dovrebbero favorire il «dialogo» tra le culture. Basti pensare, che per lungo tempo è stato difficile leggere qualcosa sull'argomento che, per esemplificare i problemi delle «società multiculturali», non facesse riferimento al «caso chador». Ma se occorrerebbe forse verificare l'eventualità che in qualche scuola italiana si sia mai veramente presentato un «caso chador», è indubbio che, nel nome della difesa dei valori della «civiltà occidentale», esponenti politici abbiano auspicato di tornare ad appendere un crocifisso in ogni aula scolastica. Lungi dal rimanere relegati nell'ambito dell'accademia, gli equivoci del multiculturalismo si riflettono quindi nelle politiche pubbliche o - ancor peggio - possono servire a nobilitare discorsi informati a ideologie razziste.

Eppure, sembra difficile che le rappresentazioni e i discorsi sulla differenza possano evitare di cadere nell'equivoco multiculturalista, sia che di «cultura» si assuma una nozione precostituita secondo canoni di fissità, sia che si ritenga valido l'opposto paradigma del meticciato - che, comunque, presuppone che sia qualcosa di già dato e identificabile a «meticciarsi». Se da un lato, vi è la necessità di elaborare categorie in grado di descrivere la complessità del presente, compreso tutto quello che viene comunemente inteso con il termine alterità, dall'altro ogni teoria dell'alterità non può che essere una rappresentazione, inficiata dalla violenza costitutiva che caratterizza quel «circolo del noi» presupposto a ogni narrazione e che, inevitabilmente, pone su piani diversi e sovraordinati chi rappresenta e chi viene rappresentato. Più che cadere nell'illusione di delineare una teoria dell'alterità e della differenza scevra da equivoci, è quindi meglio liberarsi dall'idea di poter affrontare «in presa diretta» la realtà, e farne, come suggerisce Zoletto, una questione di «qualità» delle rappresentazioni e delle retoriche che vengono utilizzate.

Un criterio, quest'ultimo, che impone di evitare semplificazioni e riduzionismi per farsi carico dei paradossi presenti nelle «politiche dell'identità» - messe al centro del discorso nei lavori di James Clifford -, vale a dire, in quell'insieme di rivendicazioni portate avanti dai movimenti sociali contemporanei anche in nome di una cultura o di un'identità storica. Se è vero che l'identità vista come qualcosa che precede l'azione politica, soprattutto quando viene declinata come identità etnica, rischia di riproporre quella che, nella sua introduzione, Mezzadra definisce come una «suddivisione dell'umanità forgiata dall'esperienza coloniale», essa ha spesso un ruolo costitutivo nel processo che vede i singoli o i gruppi divenire agenti politici attraverso connessioni o disconnessioni sociali e storiche. In questo secondo significato l'identità diventa una questione di «occupare posizioni», di «farsi spazio in un mondo affollato» (Clifford) attraverso una incessante rinegoziazione, con tutti i paradossi che i processi di identificazione pongono sul piano politico coniugando insieme emancipazione ed esclusione. È per poter cogliere quest'ambivalenza dei movimenti sociali contemporanei che l'approccio «sistemico», secondo cui le differenze materiali e politiche sono una derivazione del potere strutturale, deve essere mantenuto in tensione con la specificità storico-etnografica evitando di cadere in un opposto riduzionismo «anti-essenzialista».

E in questo senso vanno letti i contributi e gli stimoli al dibattito che derivano dal filone di studi post-coloniali, a cui sono dedicati anche alcuni dei saggi raccolti nella rivista Contemporanea. Il punto non è tanto quello di restituire una voce «autentica» all'alterità, bensì quello di reinterpretare l'ordine discorsivo del postcolonialismo, restituendo alla modernità la «trama decentrata» che gli è propria (Rahola) e che affonda le sue radici storiche proprio nella dominazione coloniale. Un approccio critico che, rendendo esplicito il carattere di arbitraria imposizione dei confini politici e reinserendo la differenza nella trama di relazioni che la determinano, allo stesso tempo, sconfessa ogni possibile autenticità culturale e restituisce l'alterità a una dimensione che, dopo la transizione postcoloniale, non può essere che globale. Ciò che in termini diversi Spivak, nel saggio ripubblicato in aut aut, definisce come «un imperativo a re-immaginare il soggetto come planetario». Un imperativo fino a oggi estraneo alla tradizione occidentale, il cui «universalismo» è viziato da quello che l'autrice individua come lo scarto tra il liberalismo filosofico e quello politico ben sintetizzato dal dilemma di «come poter fare della responsabilità un diritto piuttosto che un dovere».

Gli studi postcoloniali sono stati sottoposti a critiche anche feroci per la tendenza «estetizzante» che spesso li caratterizza, e che tende a occultare la materialità della posta in gioco e la ferocia dei conflitti in atto. Il problema determinato dall'impossibilità di uscire dal circolo delle rappresentazioni sembra riflettersi anche nel linguaggio, quasi evocativo, utilizzato da molti autori, senza dubbio debitori di un'influenza post-strutturalista. «L'alterità» viene «ospitata dal pensiero», «abita l'esperienza della differenza», ad essa ci «si accosta» quando si «volge lo sguardo», e così via, in un crescendo di suggestioni che sembrano preludere a una qualche esperienza mistica, che - per fortuna - non arriva mai dal momento che «l'alterità» è costituita da individui in carne e ossa. Gli stessi che spesso perdono la vita nel tentativo di attraversare i confini di quell'Occidente che prova a escluderli ma della cui modernità sono, in qualche modo, già parte costitutiva. Lo sforzo è quindi di recuperare questa dimensione di materialità, senza perdere di vista la complessità dei processi che portano alla costituzione di soggettività che agiscono su un piano ormai divenuto globale.