Da L'Unità del 05.07.2003
Indignati per Cirami, indifferenti a Bossi-Fini
di Luigi Manconi

Questa è la cronaca di una sconfitta. Due settimane fa, mi è capitato di scrivere, su queste colonne, che alcune norme della legge sull’immigrazione (la cosiddetta «Bossi-Fini») possono richiedere atti di disubbidienza: ovvero che - di fronte a disposizioni inique quali quelle contenute nella legge - può essere giusto violare la norma se si è disposti ad affrontarne le conseguenze. E mi dicevo disposto a farlo - senza iattanza e senza enfasi - come un modestissimo atto politico. Autodenunciavo, in altri termini, la mia intenzione di adoperarmi fattivamente e contribuire materialmente, con i mezzi a mia disposizione, affinché lo straniero in attesa di regolarizzazione - che non sia responsabile di reati - possa sottrarsi all’espulsione; e trovi alloggio presso una comunità, assistenza legale, forme di tutela.
E chiedevo a chi fosse d’accordo con me di contattarmi. Mi hanno risposto due persone: Rosaria De Tommasi e Lamberto Lamberti, del direttivo della sezione Ds di Fuorigrotta, a Napoli.
Ringrazio di cuore entrambi, ma devo trarne alcune conseguenze. Tanto più che, proprio in questi giorni, è in atto una mobilitazione, su iniziativa dei padri comboniani, contro la medesima «Bossi-Fini». L’Unità ne segue con attenzione lo sviluppo, dandogli largo spazio: e trovo qualche striminzito articolo su qualche altro giornale (assai pochi, in verità). Nient’altro. E dunque? Dunque, per quanto riguarda le mancate risposte al mio invito, l’interpretazione può essere agevole e coinvolgere solo me. Queste le possibili spiegazioni: a) i miei articoli non vengono letti; b) le mie parole non sono convincenti; c) non sono sufficientemente autorevole per mobilitare alcunché; d) sono antipatico. Una o più tra queste risposte potrebbero spiegare il mancato successo del mio appello. Ma i padri comboniani? Loro, loro sì, hanno tutte le qualità per rendere credibile l’invito a impegnarsi contro la «Bossi-Fini». E allora? Qual è la ragione della mancata mobilitazione: o, comunque, del suo esito assai modesto. (Fatta salva la preziosissima iniziativa di base, articolata e periferica, capillare e decentrata, che so assai diffusa sul tema dell’immigrazione: ma si tratta di un altro discorso). Un’idea, ce l’ho. Se io e, tanto più, i padri comboniani avessimo invitato a protestare contro il conflitto d’interessi o il «lodo Schifani», contro i comportamenti processuali di Silvio Berlusconi o quelli di Cesare Previti, le cose sarebbero andate diversamente. Il punto è delicato e voglio essere chiarissimo: non contesto una (nemmeno una) delle argomentazioni e delle manifestazioni contro Berlusconi; una (nemmeno una) delle parole d’ordine contro l’uso proprietario della giustizia da parte del premier. Nemmeno una. Ma mi chiedo: è mai possibile che quelle manifestazioni e quelle parole d’ordine esauriscano tutta intera la nostra capacità di mobilitazione sulla questione della giustizia e del diritto? È mai possibile che le ragioni della «legge uguale per tutti» siano solo quelle che brandiamo, assai opportunamente, contro l’imputato Silvio Berlusconi? E che quelle stesse ragioni non possano essere indirizzate - con analoga forza e con lo stesso consenso sociale - contro una normativa che introduce nel nostro ordinamento qualcosa di assai simile a un diritto razziale»? Possibile che il nostro sdegno si accenda solo per l’arroganza autoritaria del premier e non si accenda (o si accenda solo tiepidamente) di fronte alle sofferenze di centinaia di migliaia di esseri umani, in fuga dalla morte o dalla schiavitù, dalla fame o dalla dittatura? Possibile che la classe politica di sinistra sia così intransigente «contro» l’appropriazione e la manipolazione del diritto da parte di Forza Italia e così poco intransigente «a favore» di una «giustizia giusta», razionale e clemente, intelligente e mite nei confronti, per esempio, di chi sta in galera? Possibile che un decimo delle energie che movimenti e partiti di centrosinistra hanno investito contro la «Cirami» e il «lodo Schifani» non sia stato indirizzato a favore di una amnistia o di un indulto per i detenuti? E ciò - ricordiamolo - non è stato fatto in questi due anni, così come non fu fatto nel corso della precedente legislatura, quando governava il centrosinistra.
Ecco, credo che queste domande non siano eludibili. E credo che quando si parla di «giustizialismo» - una volta respinte strumentalizzazioni e speculazioni - su questo ci si debba interrogare. Sul fatto, cioè, che l'ansia di giustizia - quotidianamente frustrata e mortificata da un uso partigiano di essa - ha subito una grave distorsione: e quelli che erano connotati propri di una cultura di destra (sostanzialismo giuridico, sospetto verso le garanzie, domanda di pene esemplari …) sembrano essersi impadroniti del senso comune di sinistra. Se il proverbiale «meglio dieci colpevoli fuori che un innocente in carcere» viene considerato, oggi più che mai, «un lusso che non possiamo permetterci», anche il destino di quegli immigrati o di quel 27.7% di detenuti tossicomani, ci sembrerà meno drammatico. E ci coinvolgerà e ci interpellerà con forza assai minore.