da "Il Soel 24 Ore"

Martedì, 17 Aprile 2001

Immigrati «a tempo»

Tito Boeri

L’assassinio di un pensionato a Milano da parte di un immigrato clandestino ha riacceso antiche polemiche sulle politiche dell’immigrazione in Italia. Se ne discute, come al solito, con molta demagogia e poco pragmatismo. Se ne discute, soprattutto, ignorando le scelte importanti che proprio in questi giorni si stanno prendendo a livello europeo sulle politiche dell’immigrazione. Scelte su cui il nostro Paese potrebbe e dovrebbe giocare un ruolo da protagonista. Il capitolo sui flussi migratori dei negoziati sull’allargamento a Est dell’Unione europea si chiuderà presumibilmente con il vertice di Goteborg di metà giugno. Con il documento reso pubblico appena prima di Pasqua, la Commissione Ue ha preso una posizione che condizionerà fortemente gli esiti di questo difficile negoziato. Nel documento si propone di accompagnare l’allargamento al mantenimento di restrizioni ai flussi migratori per un "periodo transitorio" che potrebbe durare da un minimo di cinque anni fino a un massimo di sette anni. Nell’ipotesi che la prima fase dell’allargamento abbia luogo nel 2005, ciò significa rimandare la liberalizzazione dei flussi migratori in provenienza dai nuovi membri sicuramente fino al 2010 e, probabilmente, fino al 2012. È una proposta che va incontro alle richieste della Germania, il Paese che, assieme all’Austria, ha sin qui ricevuto la maggior parte (circa l’80%) dei flussi migratori in provenienza dall’Est europeo, e che era, per la verità, largamente attesa. Un periodo transitorio era stato, del resto, introdotto anche in occasione dell’allargamento a Sud dell’Unione europea, quando l’apertura del mercato del lavoro comunitario a flussi migratori in provenienza da Spagna e Portogallo era stata rimandata per 7 anni. In quel caso, le restrizioni si rivelarono inutili: le quote non vennero mai raggiunte, anche in virtù dell’accelerazione della crescita nei Paesi della penisola iberica. Ma il divario nei livelli di reddito pro capite fra gli attuali membri dell’Unione e i nuovi entranti non ha precedenti: a parità di potere d’acquisto i cittadini dei 10 candidati all’ingresso hanno oggi in media un livello di reddito pari a circa un terzo di quello dei Paesi della Ue (contro il 60-70% di spagnoli e portoghesi all’atto del loro ingresso nell’Unione). I divari di reddito fra le regioni di frontiera dell’Unione, la Baviera e l’area metropolitana di Vienna, e le aree ai confini della Repubblica Ceca e Slovacca sono ancora più accentuati. Dunque, l’esperienza dell’ingresso di Spagna e Portogallo nell’Unione è poco informativa circa le pressioni migratorie associate all’allargamento a Est. Le stime disponibili convergono nel ridimensionare l’entità dei flussi migratori potenzialmente associati all’apertura delle frontiere con i nuovi membri. Tuttavia, l’apertura a Est viene percepita con molte preoccupazioni da chi vive ai confini dell’Unione e la Commissione non poteva non tenerne conto. Non poteva nemmeno ignorare il forte grado di incertezza che inevitabilmente circonda ogni previsione sui flussi migratori. Le restrizioni ai flussi erano perciò inevitabili. Forse, proprio in virtù delle difficoltà che si incontrano nel prevedere i flussi migratori, sarebbe stato meglio introdurre delle quote che avrebbero permesso di meglio monitorare le pressioni migratorie associate all’allargamento. Nel suo documento la Commissione, invece, non propone di introdurre alcun tipo di restrizione nell’accesso ai sistemi di Welfare da parte dei nuovi cittadini dell’Unione. Diverse voci si erano levate in Germania, a partire da quella di Hans-Werner Sinn, direttore del più importante centro di ricerca economica della Baviera (il Ces-Ifo), affinché venisse negato l’accesso ai benefici del ricco stato sociale tedesco agli immigrati provenienti dai nuovi membri dell’Unione. Il Ces-Ifo ha recentemente pubblicato uno studio in cui si stima che ogni immigrato comporti un aggravio per l’erario di circa 5 milioni all’anno, in termini di prestazioni dello Stato sociale e accesso ai servizi sanitari e al sistema scolastico. I conti del Ces-Ifo appaiono, in verità, alquanto approssimativi e non tengono conto del fatto che gli immigrati legali sono, in realtà, soprattutto nei primi anni del loro soggiorno, contribuenti netti dello Stato sociale. Cominciano a ricevere più di quanto versino alle casse dello Stato solo una volta raggiunti dalle loro famiglie e tornano a diventare contribuenti netti quando i figli cominciano a lavorare. Inoltre, l’evidenza empirica indica come gli immigrati, a parità di altre condizioni (livello di istruzione, caratteristiche del nucleo familiare, condizioni di salute, ecc.) non abbiano accesso alle prestazioni dello Stato sociale in misura maggiore dei residenti, dunque non ne stiano abusando. È vero, tuttavia, che gli immigrati sono relativamente numerosi tra le fila dei disoccupati di lungo periodo, il che nell’immaginario collettivo può far pensare a forme di dipendenza dagli aiuti dello Stato da parte dei nuovi arrivati. Un possibile modo per affrontare il problemi posti dall’immigrazione alla coesione sociale e ai sistemi di Welfare europei consiste nel puntare maggiormente su forme di immigrazione temporanea. Questo strumento consente di tenere sotto controllo i flussi migratori e, al tempo stesso, di far sì che gli immigrati contribuiscano al finanziamento dello Stato sociale. Inoltre, impedisce che l’immigrazione diventi drenaggio di risorse umane e intellettuali per il Paese d’origine. Programmi di immigrazione temporanea dovrebbero essere introdotti per le due tipologie di immigrati di cui si avverte maggiormente la necessità oggi in Europa: i lavoratori altamente qualificati e i lavoratori con basse qualifiche che vogliono svolgere quelle mansioni (ad esempio lavorare nella conciatura delle pelli) che non sono più appetibili per i cittadini della Ue. La maggiore obiezione che in genere si muove ai programmi di immigrazione temporanea è che spesso finiscono per alimentare immigrazione permanente. È infatti molto difficile garantire la temporaneità del contratto di lavoro e della residenza. Anche amministrazioni più efficienti della nostra tendono a perdere di vista l’immigrato e, dunque, non sono in grado di assicurare che questi torni nel Paese d’origine alla scadenza del contratto. Un modo per superare questi problemi consiste nel responsabilizzare direttamente il datore di lavoro quanto alla temporaneità della presenza dell’immigrato. Il lavoratore dovrebbe essere selezionato dall’impresa nel Paese d’origine (la procedura già messa in atto, ad esempio, dall’associazione degli industriali dell’Emilia Romagna) e ammesso solo una volta dotato di un regolare contratto di lavoro. All’immigrato (più realisticamente al datore di lavoro che lo assume) dovrebbe essere richiesto di depositare una somma all’atto dell’ingresso nell’Unione, dote che potrà essere restituita con gli interessi solo all’atto del rimpatrio. Questo tipo di contratti è stato sperimentato con successo in Israele, un Paese che ha problemi ancora più seri dei nostri nel tenere sotto controllo i flussi migratori. Anche negli Stati Uniti, Paese tradizionalmente restio a concedere programmi di immigrazione temporanea (a parte che nel caso dei lavoratori altamente qualificati), la filosofia del lavoro temporaneo per gli immigrati si sta facendo strada, soprattutto per iniziativa del senatore del Texas, Phil Gramm. Nelle politiche dell’immigrazione conta giocare d’anticipo. Si tratta di affrontare i problemi prima che si presentino, introducendo restrizioni che siano effettivamente applicabili e reprimendo l’immigrazione clandestina in modo coordinato a livello europeo. Cavalcare l’inevitabile sdegno popolare per episodi come quello del pensionato milanese serve solo a stringere il cerchio fra immigrazione clandestina e criminalità. Alimentare l’odio nei confronti di chi viene da fuori ci pone fuori dall’Europa e riduce la nostra capacità di condizionare scelte che ci riguardano da vicino. L’Austria è oggi relegata al margine di negoziati al cui esito è fortemente interessata proprio per la presenza nel suo Governo di formazioni xenofobe. Importante far capire ai nostri partner europei che da noi queste posizioni non troveranno spazio, quale che sia l’esito delle elezioni. Negli Stati Uniti, durante la campagna presidenziale, Bush e Gore si sono fatti ritrarre in compagnia di rappresentanti delle minoranze etniche. È troppo chiedere che anche da noi si faccia altrettanto?

Martedì 17 Aprile 2001