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Da Il Foglio di Sabato 28 Aprile 2001

Quell' amico degli immigrati che è il conservatore Bush

I CLANDESTINI SONO II MIL] CLANDESTINI SONO 11 MILlONI INVECE CHE 6. E ANCHE QUESTO SPIEGA OTTO ANNI DI BOOM ECONOMICO AMERICANO

New York. Cose che succedono in America. Un presidente di destra, George W. Bush, scavalca tutti i suoi predecessori, democratici compresi, nell'aprire le porte a nuovi immigrati e nel regolarizzare quelli clandestini. E, col suo collega messicano Vicente Fox, fa dell'apertura uno degli argomenti portanti verso iI un futuro colossale Mercato comune panamericano. Il più visceralmente xenofobo dei senatori repubblicani, Jesse Helms, e il suo collega Phil Gramm, che voleva ergere un muro tra Stati Uniti e Messico e mettere in galera chi desse lavoro a immigrati clandestini, hanno cambiato idea e vanno a Città del Messico a discutere di nuove ondate di visti per "guest worker" messicani con un ex comunista e un ex amico di Fidel Castro, il ministro degli Esteri di Fox, Jorge Castaneda. Le analisi in corso sul censimento americano del 2000 suggeriscono la presenza di un numero doppio di immigrati clandestini rispetto alle stime precedenti: 11 milioni o più, rispetto ai 6 milioni stimati. Ma la cosa non crea panico, e, anche a livello dell'opinione pubblica, molto meno preoccupazione di quando pensavano ce ne fossero meno. Anzi, il dato diventa motivo di soddisfazione. Si scopre che gli immigrati non sono solo poveracci, mangiapane a tradimento, profittatori dei servizi assistenziali, carne da baraccopoli e manovalanza per la delinquenza. Invece portano prosperità, ingentiliscono i quartieri pagano le tasse, anche quando non hanno i documenti in regola. Il sindaco repubblicano di New York, il castiga-criminali Rudolph Giuliani, parla di "nuovo Rinascimento" della sua città. Nel- l'ultimo decennio la popolazione è cresciuta del 19,4 per cento, e ora per la prima volta nella storia supera gli 8 milioni di abitanti. Il punto più basso c'era stato nel 1970, e aveva coinciso con la crisi fiscale che le aveva fatto rischiare la bancarotta. "1994: Fuga da New York", profetizzava il titolo di un film di successo. E invece non c'è mai stata tanta ressa e tanta abbondanza, anche nelle casse dell'erario. Solo dal 1990 in poi sono arrivati oltre un milione di ispanici o asiatici. Gli altri dal resto del mondo e dell'America. "New York è il prototipo di città che non sarebbe la città vibrante che è, non fosse stato per l'immigrazione. La linfa vitale e la speranza delle città è una continua immigrazione, che porta loro vitalità e, ovviamente, anche conflitti", spiega William Frey, demografo dell'University of Michigan e del Milken Institute.

Così si sono risanate le inner city

Effetti simili si sono verificati a Chicago e altre grandi città, che hanno invertito la tendenza a perdere abitanti in direzione delle più tranquille periferie, i "suburbia" per la gente per bene, mentre il centro, l'inner city, tendeva a concentrare grattacieli, barboni, neri, e quartieri in via di degrado. Quanto agli immigrati, la sorpresa è che non si appartano più in enclave fortificate tipo Chinatown, Little Italy o East L. A. Si diffondono nei quartieri bene, o diventano bene i quartieri dove vanno: a New York hanno contribuito alla rinascita del famigerato Bronx, a Manhattan la Bowery, da ritrovo di ubriaconi e deposito di immondizie che era, è diventata di moda quanto Soho o il Greenwich Village. Particolarmente vistoso questo "ingentilimento" anziché imbarbarimento da immigrazione è stato a Washington. Uno studio della Brookin Institution, reso pubblico il 25 aprile, mostra che l'87 per cento dei quasi 250.000 immigrati giunti nell'area dal 1990 al 1998 (la capitale americana è un villaggio se confrontata New York o Los Angeles), si sono sparpagliati nei quartieri residenziali "bene" attorno anziché concentrarsi nei quartieri degradati che si addossano alla città di governo nel District of Columbia vero e proprio. Attratti dai posti di lavoro più qualificati, dalle scuole migliori, dal verde, dai parenti e conoscenti che già vi si trovavano bene, piuttosto che dal desiderio di protezione che una volta li avrebbe attratti invece verso la rispettiva enclave etnica in centro città. Vengono dall'India, dalla Cina, da Taiwan, dall'Iran. Non Sono più braccianti, manovali, camerieri, ma esperti di computer, tecnici, medici, professori. In genere con regolare "green card", permesso di lavoro. Il 40 per cento degli immigrati clandestini vive invece in California. Dove ancora nel 1950 i "bianchi" erano il 90 per cento della popolazione, gli ispanici appena il 6 per cento. E con il censimento hanno invece scoperto che per la prima volta "i bianchi non sono più la maggioranza" (47 per cento, tenendo conto del fatto che molti ispanici e molti immigrati provenienti dal Medio Oriente si dichiarano abitualmente "bianchi"). Fino a una decina di anni fa veniva considerato, assieme al Texas, il punto di massima tensione, la polveriera potenziale. Sembrava che la gente non ne potesse più dei "latino" immigrati dal Messico, delle loro guerre di bande per "Colors", del flusso continuo di clandestini dalla frontiera a Tijuana verso il Nord. Il risentimento era esploso nei referendum dell'inizio degli anni 90. Uno di questi, particolarmente odioso, aveva segnato una pietra miliare: la "proposition 187" prevedeva l'abolizione dei servizi sociali, dell'assistenza sanitaria e della scuola per i figli di immigranti non in regola. Un altro, metteva fine all 'affirmative action", alle norme tese a privilegiare le assunzioni in base all'appartenenza a una minoranza sfavorita, piuttosto che al merito. Un terzo bandiva l'istruzione bilingue, in inglese e in spagnolo, nelle scuole. In tutti e tre i casi, erano passati con ampio margine di voti. Spesso con il consenso non solo di elettori repubblicani ma anche democratici, e di elettori ispanici delle ondate migratorie precedenti, ormai consolidate. Ma poi le cose sono cambiate. I californiani si sono accorti che gli immigrati erano una componente essenziale del boom economico, che non erano sfaccendati e nemmeno i bracero di un tempo impiegati a raccogliere albicocche, ma una colonna portante del miracolo della new economy a Silicon Valley. Non si sono limitati a ricredersi sugli immigrati. Hanno severamente punito alle urne chi aveva messo in piedi la campagna anti-immigrati. I repubblicani, che avevano propugnato la proposition 187 non si sono mai ripresi: la California, che pure aveva eletto governatore il repubblicano ultrà Ronald Reagan, e poi l'aveva portato alla Casa Bianca, è stato uno dei pochi bastioni sicuri per il candidato democratico Al Gare alle ultime Presidenziali. Al punto che si dice che Bush ci abbia messo la croce sopra anche per il 2004, e per ripicca voglia farla bollire nel brodo della crisi energetica. Ma almeno su una cosa deve convenire con i californiani; che gli immigrati dal Messico hanno fatto bene all'economia e conviene regolarizzare i clandestini, anzi ricominciare ad aprire un po' di più le porte. Perché così la pensano anche i suoi del Texas, magari pronti a far baruffa coi californiani su quasi tutto il resto, ma non su questo.

Il caso della California

Mentre per tutti gli anni 90 l'economia continuava a crescere a rotta di collo, gli economisti si chiedevano: com'è che le imprese riescono a trovare abbastanza gente da assumere? Com'è che non ci sono tensioni inflazionistiche e, con la competizione tra chi assume, non aumentano i salari? La risposta viene dal censimento: a riempire i ranghi e a non pretendere aumenti delle buste paghe erano gli immigrati, e in modo specifico gli immigrati clandestini. Il Census bureau si aspettava 175 milioni di americani; ne ha trovati 181 milioni. La differenza dovrebbero essere gli immigrati clandestini: ne stimavano 6 milioni, sono invece 12. Hanno sbagliato le stime di oltre il 100 per cento. L'unica spiegazione razionale è che a far sballare i conti siano stati i clandestini. "Quadra del resto con tutto quello che non capivamo in questi anni, perché costruivamo una scuola dopo l'altra e venivano a mancare le aule, potenziavamo i servizi e non bastavano mai", dicono. Sconvolti dall'invasione? Preoccupati? Inclini a rimediare con espulsioni e imposizione di quote più severe? Niente affatto. Non si evoca più il pur progressista Benjamin Franklin, che si lamentava dell'eccesso di immigrati tedeschi "che tra breve saranno tanto numerosi da germanizzare loro noi, anziche anglificare noi loro". Non c'è la fobia anti-irlandese del 1840 o quella nel 1882 portò ad approvare ila Chinese esclusion act, il bando all'immigrazione cinese, con l'argomento che l'invasione "avrebbe fatto sparire la popolazione americana in mezzo a queste compatte masse di asiatici" e "la California diverrebbe una colonia della Cina". Semmai si ricorda che all'Immigration act del 1924, che metteva limiti severi alI'immigrazione di ebrei e italiani dal Vecchio continente, segui la grande crisi del 1929. E chi, come il senatore Gramm, negli anni 80 aveva fatto passa- re sotto Reagan l'Immigration reform and Control act, per arrestare la fiumana che attraversava il Rio Grande, ora cede alle pressioni dei ranchero americani e del messicano Fox per estendere i permessi temporanei. "A quanto sembra abbiamo in casa 5 milioni di immigrati clandestini che non sapevamo nemmeno ci fossero (forse 6 milioni) e scopriamo che non è la fine del mondo", è il modo in cui la mette Everett Ehrlich sottosegretario al Commercio durante il primo mandato di Clinton. Si rovescia il ragionamento, la domanda angosciosa non è più che ne facciamo di tutti questi immigrati, ma cosa sarebbe successo senza: "E se invece non ci fossero stati? Come avremmo potuto cavarcela? Pensate solo a come sono riusciti a incrementare il nostro potenziale produttivo". Gli immigrati clandestini hanno dato un loro contributo anche al surplus nei conti della previdenza americana. Anche se non potrano beneficiare dell'intenzione di Bush di restituire ai contribuenti una parte di quello che hanno versato. Hanno pagato le tasse, i contributi sociali (qualcosa come una ventina di miliardi di dollari all'anno, secondo le stime dell'Internal revenue service o Irs) ma saranno forse gli unici non avere diritto ad alcun rimborso, e nemmeno alla pensione e al- l'assistenza sociale per cui hanno pagato. Molti non potevano fare a meno di pagare, anche volendo: il datore di lavoro gli fa la trattenuta; altri fanno la dichiarazione anche quando pagati in nero, nel tentativo di essere in rego- la almeno sulle tasse, se non nei documenti. Ma spesso hanno inventato di sana pianta il loro social security number (il nostro codice fiscale) al momento dell'assunzione. I computer dell'Irs rilevavano l'anomalia. Non li de nunciano alle autorità dell'Immigration, in base al principio che un ramo dell'amministrazione non pasticcia sull 'altro. Ma nemmeno gli restituiranno il dovuto. Un amico americano aggiunge all'analisi svolta in questo articolo, un'unica osservazione: "Le aperture di questi tempi all'immigrazione avvengono dopo una lunga fase di sviluppo. In caso di recessione, è probabile che il clima cambierebbe".