la questione dell'esodo e dell'asilo dei kurdi in Italia
(e delle responsabilità turche nel traffico);

Perché i kurdi preferiscono sfidare il Mediterraneo su scafi sovraccarichi, rispetto alla via dell’Albania e dei Balcani? Perché i piccoli gruppi rischiano di essere respinti, come accade sempre più spesso nei porti di Bari, Brindisi, Venezia, Trieste, o al confine terrestre di Gorizia. E il rischio di morte raddoppia. Racconta il 10 agosto al quotidiano "Ozgur Politika" S.D., boss turco operante in Albania: "Gli agenti che li fanno confluire a Istanbul trattengono in genere cinquecento marchi su cinquemila. Altri 3.500 marchi si ripartiscono fra i tragitti dalla Turchia in Albania, da qui in Italia, e dall’Italia in Germania o altrove. All’organizzazione restano almeno mille marchi a testa. Dall’Albania inviamo in Italia gruppi di venti persone ogni due settimane, ma anche più spesso se il mare è buono. Ovviamente, i viaggi possono finire male… Noi stiamo a Tirana, Durazzo, Valona ed Elbasan, dove il traffico di eroina e di persone fa circolare un mucchio di denaro. La gente aspetta a lungo e i più esposti sono i kurdi, perchè sono contro lo Stato. Per alcuni chiediamo istruzioni in Turchia: dobbiamo riconsegnarveli o farli proseguire? Talvolta la risposta è: fateli fuori…" Il 16 luglio, mentre a Roma il ministro Bianco rendeva pubblico il nuovo accordo con Ankara "per la lotta all’immigrazione clandestina e al terrorismo", i poliziotti greci di Rodi si mettevano le mani fra i capelli. Dai registri risultava che lo scafo Burcu-1, appena sequestrato con 126 profughi kurdi a bordo, era di proprietà della "Gocek Tourism & Yachting Co.", la quale appartiene nientemeno che ad Ali Erkmen, figlio dell’ex ministro degli Esteri turco Hayrettin. "Me l’hanno rubata", si giustificò il rampollo del politico di rango. La polizia turca confermò: gliel’hanno rubata… Ridono dell’aneddoto i profughi kurdi nel campo di Crotone. Ridono amaro. "La polizia turca? L’8 agosto gli autobus che ci portavano da Istanbul a Smirne si fermavano a ogni posto di blocco, l’autista scendeva e distribuiva biglietti da dieci milioni di lire turche (pari a 50mila lire italiane, ndr). All’ingresso del porto di Cesme l’autista è entrato nel comando militare con un fascio più grosso: ventimila dollari". Un altro si allarma quando gli dico che l’accordo Italia-Turchia comporta la presenza al Viminale di un funzionario di polizia turco. "Per controllarci? Quando ci siamo imbarcati, di notte, un gruppo s’è perso nel bosco. E’ stata la polizia a ricondurli al porto e a distribuire i posti sulle navi insieme ai mafiosi. Controllavano i nomi: qualcuno non è entrato nella nave ma in prigione". Due pescherecci sbilenchi il 30 luglio hanno scaricato a Crotone più di cinquecento kurdi irakeni, tutti della città di Zakho. Anche loro scrollano le spalle quando si parla della polizia turca. "In tre notti abbiamo attraversato tutta l’Anatolia con un convoglio di quindici minibus, passando il confine e i posti di blocco in regioni sotto coprifuoco. Credi che non ci abbiano notato?" E aggiungono: "Dalle province più esposte chi non è ancora partito ora fugge. I partiti kurdi che ci amministrano fanno solo interessi personali o di clan, e prendono anche loro la tangente per farci passare il confine". "E’ un’organizzazione grande e spietata" interviene la madre di due bambini: " per 3.500 dollari a persona, duemila per i bambini, invece della nave che doveva aspettarci al largo abbiamo proseguito, sotto il tiro di tre mafiosi armati, su due barconi mezzo allagati. Alla fine si sono spaventati pure loro, e hanno puntato su Crotone". Sono più di ottocento i naufraghi degli sbarchi che, con la crescita esponenziale di quest’anno, danno il termometro della tensione e della disperazione dei kurdi. Il sole arroventa le roulotte allineate nel "piccolo Kurdistan" di Capo Rizzuto, in quello che doveva essere il più grande aeroporto Nato nel Sudeuropa. La pista che quindici anni fa occupammo per protesta, oggi non ospita i rombanti F-16 a stelle e strisce, ma per metà le carni martoriate delle vittime degli F-16 con la mezzaluna rossa, nell’altra metà le carni abbronzate dei turisti nell’aeroporto civile. Il contrasto stride. Il campo non diventa un lager solo per l’innegabile impegno dei funzionari prefettizi, che però non possono reinventare la legge. Possono solo accelerare le pratiche che, in capo a tre o quattro settimane, rinvieranno sulla strada "richiedenti asilo" con un pezzo di carta e quattro soldi, sufficienti appena per sopravvivere uno o due dei quindici mesi di attesa media. E la risposta in molti casi non sarà positiva. Omer Eroglu, ventun anni, ha portato alla commissione ministeriale un articolo su suo fratello desaparecido e un attestato del sindaco del suo villaggio, distrutto per rappresaglia dall’esercito. Ma "si contraddice, non scende in particolari": istanza rigettata. Come quella di Harre Ahmet, perché "la diserzione e la renitenza alla leva non sono motivo sufficiente per l’asilo" (ma per il carcere a vita sì, in Turchia). Ad Abdullah Ovun per ottenere asilo non bastano le cicatrici delle pallottole, né il dettagliato racconto delle torture subite… Accoglienza inesistente, procedura d’asilo lunga e incerta: tutto congiura per dissuadere i profughi dal restare. Meglio affidarsi ai mafiosi sui valichi rischiosi delle Alpi o di Ventimiglia, meglio vivere clandestini ma in famiglia. Finchè i trattati di Schengen e Dublino non li rispediranno in Italia, primo paese d’approdo, guardiano di un’Europa che non ha il coraggio di farsi carico dell’esodo e delle ragioni di un popolo intero.

Dino Frisullo

21/08/2000