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Da La Repubblica del 15 Giugno 2001

Abbiamo trovato e filmato il relitto del barcone carico di cingalesi affondato in Sicilia il 26 dicembre 1996

Il cimitero in fondo al mare

Prova del naufragio fantasma Le vittime furono 283. Per anni il disastro è stao negato Ma i pescatori di Portopalo sapevano e adesso parlano dal nostro inviato

GIOVANNI MARIA BELLU - PORTOPALO -

Abbiamo trovato la nave del "naufragio fantasma". Nord: 36, 25', 31''; est: 14, 54', 34'', acque internazionali a diciannove miglia da Portopalo di Capo Passero, estremo lembo meridionale della Sicilia e dell'Italia. Abbiamo scoperto il più grande cimitero del Mediterraneo: decine e decine di scheletri avvolti negli stracci a 108 metri di profondità, nel punto del Canale di Sicilia dove da anni i pescherecci di Portopalo non andavano più per non rischiare di lacerare le paranze. Il relitto, un barcone di legno dentro il quale ci sono ancora dei cadaveri, era proprio là. Abbiamo filmato e fotografato le falle che alle tre del mattino del 26 dicembre del 1996 lo mandarono a picco col suo carico umano: 283 clandestini indiani, pakistani e cingalesi di etnìa tamil. La prua è spezzata come da un terribile colpo di maglio, la fiancata destra è squarciata che nemmeno un colpo di cannone. Avevano ragione i pochi sopravvissuti sbarcati dai trafficanti di uomini sulle coste della Grecia alle vigilia di Capodanno: qui, tra la Sicilia e Malta, era avvenuta la più grave sciagura navale del Mediterraneo dalla fine della seconda guerra mondiale. "Il presunto naufragio", secondo le nostre autorità marittime che hanno trattato la vicenda come una leggenda di pescatori. "Il presunto naufragio", scriveva nel maggio del 1997, cinque mesi dopo, il nostro ministero degli Esteri in una lettera all'ambasciata pakistana. Si chiama Rov (Remotely operated vehicle). E' una sfera di plexiglass e di plastica gialla. Dentro c'è una telecamera, all'esterno piccole eliche che, dal ponte della nave, consentono a un pilota di dare al robot la direzione voluta. Ora il Rov sorvola il fondale di fango giallo ocra che sembra la superficie della luna, solo che i crateri sono le tane dei gamberi. Ogni tanto fa una capriola e sul monitor il giallo sfuma nell'azzurro del mare. Altre volte tocca il fondale sollevando piccoli tornado di fango. Ha vagato già per un quarto d'ora, il Rov, quando inquadra un essere marino dalla forma mai vista. Una scarpa. Da ginnastica. Si ferma, la scruta per un po', riprende il volo. I fari illuminano una remota foschia di plancton dentro la quale s'intravvede un rilievo. E' un sari di tessuto damascato e leggero che lassù deve aver vibrato al più piccolo alito di vento e che ora invece è fermo, come inamidato, ed è strano che i motori del Rov spostino le stelle marine più grosse ma non questo sari adagiato sul fondo del Canale di Sicilia. E che anche quei jeans che compaiono poco lontano si muovano appena quando il Rov va a sbatterci contro. C'è qualcosa che li tiene. Dalla vita spunta un bastone bianco e nodoso. E' la testa di un femore.

*** Ci sono corpi che comunicano una lotta feroce con la morte. Sono le camicie e i pantaloni con le braccia e le gambe aperte, con la posa del pugile steso sul ring. Ce ne sono altri, e sono i più, che raccontano la paura impotente, l'orrore. E questi fai fatica a individuarli come corpi umani perchè sono fagotti di stracci chiusi in posizione fetale. In comune, gli uni e gli altri, hanno l'assenza della testa. Il mare ha decapitato tutte le vittime del naufragio di Natale. Ma quando il Rov sorvola l'"area cimiteriale", noti che spesso ai crateri dei gamberi s'alternano piccoli rilievi, mezze sfere coperte di fango. Se il parroco di Portopalo avesse visto tutto questo non avrebbe detto che il mare è un luogo di pace "quanto e forse anche più della terra". Il Rov sembra smarrito. Non sa da che parte girarsi. Finchè ha sorvolato il fondale lunare è andato avanti spedito, come un piccolo ricognitore in volo tattico. Ora ha tante cose da guardare . I mucchi di ossa e di stracci sono più fitti, più vicini tra loro. E poi compaiono oggetti diversi: una grossa paratia, un parabordo spaccato in due, una valigia, una piccola borsa da donna. E altre scarpe, di tutte le fogge, anche se prevalgono quelle da ginnastica, le più comode ed economiche per chi deve affrontare un lungo viaggio. Sicuramente anche Anpalagàn le calzava.

*** Se un giorno qualcuno, ignorando il fatto che questo è mare di nessuno, deciderà di intervenire per raccogliere i resti delle vittime e dar loro sepoltura, allora tutti dovranno dire che è stato Anpalagan Ganeshu, 17 anni, da Chawchsceri, zona tamil dello Sri Lanka, a liberare dalla prigione del mare i suoi compagni di sventura. Fino poco tempo fa, Anpalagan era come uno di loro: uno scheletro tenuto assieme da un paio di jeans e una t shirt. Verso la fine dello scorso aprile è stato preso in pieno da una paranza e forse anche dal divaricatore della rete: un quintale di legno bordato di ferro che deve aver fatto a pezzi i suoi poveri resti. Ma la carta d'identità plasticata, che già aveva sopportato quattro anni e mezzo di mare, ha resistito anche a quell'ultima violenza ed è ricaduta sul ponte. Un pescatore l'ha raccolta. Strana storia. Nelle settimane dopo il naufragio, i pescatori di Portopalo nelle loro reti trovavano i cadaveri ancora intatti e li ributtavano in mare per evitare di perder tempo con la capitaneria di Porto. Ma alla fine è stato proprio uno di loro a raccogliere e consegnare il messaggio di Anpalagan, a farlo pubblicare sul nostro giornale, a farlo circolare nelle comunità tamil, a farlo giungere ai parenti di Anpalagan che, una settimana fa, hanno dato la conferma definitiva del fatto che in quel punto c'era la nave scomparsa: il ragazzo era tra i passeggeri.

*** Il fondale di fango è un gigantesco canale sottomarino che unisce la Sicilia e Malta. Decine di miglia di deserto lunare interrotte solo da qualche solco di rete a strascico. Gli scogli sono lontanissimi e quell'ombra che ora il Rov illumina debolmente ti pare uno scherzo geologico, un faraglione subacqueo, finchè non noti i contorni netti dei manufatti umani. Il relitto della "nave fantasma" si materializza nel mezzo d'un caos di stracci e di legni, di tubi e di poveri oggetti. La luce dei fari fa fuggire le cernie e i gronghi che vi hanno da tempo fatto tana, resta solo, come inebetito, un grosso scorfano rosso che ha il muso attaccato a una scarpa, come se volesse baciarla. Vola il Rov sul ponte, dondola su una botola quadrata, plana lentamente puntando i fari verso l'interno. Si ferma. Quattro giorni dopo la tragedia, i superstiti raccontavano alla polizia greca d'una bara bianca galleggiante di diciotto metri per quattro giunta da Malta. Dicevano di averla osservata con immediata preoccupazione dal ponte della grossa motonave, la "Iohan", che da Alessandria d'Egitto li aveva condotti fino a quel punto del Mediterraneo. Sarebbero dovuti salire lì, col mare in tempesta, per arrivare fino alle coste italiane delle quali si scorgeva, e molto lontana, solo qualche debole luce. Con rabbia spiegavano che in molti avevano tentato di rifiutare il trasbordo, ma erano stati convinti con le armi dal comandante, un libanese ubriaco. Dicevano che i loro compagni erano stati costretti a entrare a uno a uno in un buco che conduceva alle celle del pesce. Per questo, infatti, quella barca maltese era usata normalmente. Ecco qua l'ingresso della bara. Il faro dall'esterno ne illumina tutte le pareti. Poi si volta, punta verso la cabina di comando. E sembra di vederlo Marcel Barbara, comandante maltese, complice dei criminali della "Iohan", quando si accorge che il carico è accessivo, che le onde coprono la sua bagnarola. Vira di centottanta, punta la prua verso l'"ammiraglia", chiede aiuto. E la "Iohan" manda le macchine al massimo, sembra che arrivi in soccorso. Lo schianto è devastante.

*** Il Rov ora torna giù, verso la chiglia, scruta la prua ferita, ne scopre un pezzo che, staccato del tutto, giace nel fango qualche metro più in là. Si sposta sulla fiancata destra, incrocia una rete da paranza - proprio come dicevano i pescatori - impigliata sullo squarcio prodotto quella notte dalla prua della "Iohan". Qua la nave è in sezione, come una casa per le bambole: distingui le paratie che separavano le celle del pesce. Risale, aggira la cabina di comando, sorvola la poppa. C'è, in un punto dove la fiancata è integra, un portellone chiuso. Raccontavano i superstiti che mentre la nave andava a picco, sentivano i lamenti di chi, da giù, spingeva per uscire. Ma i portelloni erano bloccati dal peso di chi, sul ponte, non aveva il coraggio di buttarsi in mare o sperava di agguantare qualcuna delle cime alla fine lanciate dalla "Iohan". Il portellone accanto, invece, è aperto. Il faro adesso lo illumina dall'alto: dentro la cella ci sono ancora due corpi che dondolano, con le braccia aperte, come crocefissi.