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Da La Repubblica del 6 Giugno 2001

Negli abissi il cimitero dei clandestini

La verità sul naufragio-fantasma del Natale '96 dal nostro inviato

GIOVANNI MARIA BELLU - PORTOPALO DI CAPO PASSERO

- "Abbiamo issato la paranza e l'abbiamo aperta sul ponte. In mezzo al mucchio del pescato c'era il corpo ancora intatto di un uomo scuro di carnagione sui venticinque- trent'anni. La pelle era in parte mangiata dai pesci. Gli altri che erano a bordo sono scappati a prua per non vedere. Prima di ributtarlo in mare non ho potuto fare a meno di notare che quel poveretto portava a un dito un anello dorato con una piccola pietra rossa a forma di piramide". Era il 4 gennaio del 1997. Nove giorni prima, alle tre del mattino del 26 dicembre 1996, tra la Sicilia e Malta era affondata una nave carica di clandestini asiatici: 283 morti. Ma pochi credevano al racconto dei superstiti: si parlava di "naufragio fantasma". Non lo era affatto: i corpi non si trovavano perché, dopo essere finiti nelle reti della pesca a strascico, venivano buttati in mare, a decine, dai pescatori di Portopalo di Capo Passero, 3300 abitanti, 170 pescherecci, estremo lembo meridionale della Sicilia e dell'Italia. E in paese tutti sapevano o hanno saputo nei mesi e negli anni successivi: il parroco e il vicesindaco, il vigile urbano e lo storico locale. Il mistero del "naufragio fantasma" era anche il segreto di Portopalo. "HO TIRATO via quel cadavere dal mucchio - continua a raccontare il pescatore - Mi faceva pena e orrore. La vista di quell'anello mi ha fatto pensare alla sua vita, ai suoi familiari. Ti vengono in mente mille cose in momenti così. Poi ci ragioni e ti rendi conto che era un clandestino, che veniva da molto lontano, che è molto difficile, se non impossibile, rintracciare i parenti. E poi non c'è più niente da fare: è morto. E ti ricordi di quel collega che ha fatto il suo dovere, ha portato un cadavere a riva, ed è stato bloccato in porto dalla burocrazia: giorni e giorni di lavoro perduti tra verbali e interrogatori. L'ho sollevato per avvicinarlo al parapetto e buttarlo giù, come avevano già fatto altri, come abbiamo continuato a fare per un altro mese e mezzo noi di Portopalo, fino a che abbiamo smesso di trovare nelle reti cadaveri interi o pezzi di cadavere. Ho fatto un passo con quel corpo in braccio. Ho sentito un tonfo. Il collo non aveva retto il peso della testa. Forse perché era in mare già da una settimana, forse perché i divaricatori dello strascico l'avevano in parte decapitato. Ho chiuso gli occhi, l'ho scaraventato in acqua, poi, con gli occhi sempre chiusi, ho preso una pala, ho raccolto la testa e ho lanciato anche quella in mare. Avevo i brividi, per un po' non sono riuscito a guardare verso quel punto. Ho aperto la pompa e ho inondato il ponte. Il getto ha aperto il mucchio e molti pesci, anche pregiati, sono finiti in acqua. Era il 3 o il 4 gennaio del 1997". [***] Le autorità italiane per mesi non hanno creduto al naufragio. Il 5 gennaio del 1997, mentre i cadaveri venivano pescati e buttati in mare, sul "Manifesto" apparve una dichiarazione dell'ammiraglio Renato Ferraro, comandante generale delle Capitanerie di Porto: "Abbiamo molti dubbi sulla fondatezza della notizia ... difficilmente sarebbe passato tanto tempo senza un riscontro obiettivo, senza qualche rinvenimento, sia pure casuale, di un pezzo di relitto o, addirittura, di qualche cadavere". A raccontare la tragedia erano stati, il 30 dicembre, alcuni dei superstiti arrestati in Grecia, un giorno dopo essere stati scaricati dai trafficanti in una spiaggia del Peloponneso. Disperati dissero che alle tre del mattino del 26 dicembre 1996, si trovavano al largo della Sicilia meridionale a bordo di una grossa motonave, la "Iohan", stipata fino all'inverosimile di uomini, donne, ragazzi, bambini provenienti dallo Sri Lanka, dall'India, dal Pakistan. Avevano pagato 5000 dollari a testa per quel viaggio terrificante che, dopo tre mesi, stava finalmente per concludersi. La "Iohan" era stata affiancata da una barca di legno molto più piccola che doveva portarli fino alla costa. Cominciarono a salire: dieci, venti, cento, duecento - il mare era in tempesta, qualcuno impaurito tentò di opporsi al trasbordo e fu minacciato con le armi - Duecentocinquanta, trecento... La piccola barca partì lentamente verso la costa, cominciò a imbarcare acqua, chiese soccorso alla "Iohan" che intervenne con una manovra maldestra e tardiva: la prua del mercantile colpì la piccola barca maltese mandandola definitivamente a picco. "Solo ventinove di noi sono riusciti a salvarsi. Tutti gli altri sono morti". [***] Giovanni Lupo è uno dei cinque vigili urbani di Portopalo. E' un cinquantenne cordiale, che porta con orgoglio la divisa e un paio di occhiali da sole da poliziotto americano. "Ha saputo la storia dei cadaveri nelle reti? Beh, sì: qua la sanno tutti. Fu una cosa tremenda, incivile. Recuperavano corpi interi, poi gambe, braccia, teste e li ributtavano in mare. Ma sarebbe sbagliato incolpare i pescatori, quelli l'hanno fatto per difendere il loro lavoro. C'è stato sicuramente chi ha saputo e ha lasciato fare". Michele Taccone è assessore alla pesca e vicesindaco. Trentacinque anni, pizzetto alla Balbo, eloquio inarrestabile, descrive con entusiasmo i progetti per il recupero del porto, eternamente invaso dalla sabbia, per l'organizzazione di strutture turistiche. Chiarisce che i celeberrimi pomodorini, noti in Italia e nel mondo come "di Pachino" sono in realtà "di Portopalo" perché devono il loro speciale sapore "alla nostra acqua salmastra, alla nostra terra sabbiosa. La storia dei morti? Fu una cosa molto dura ma in un certo senso inevitabile: i pescatori non potevano permettersi di seguire i tempi della burocrazia". Don Calogero Palacino da Raddusa, il parroco, indossa una tonaca impolverata che ha più l'aspetto d'una veste da lavoro che d'un abito talare. Avrà passato i sessanta ma ha l'energia di un giovanotto: organizza la attività sportive, le feste, le danze. Le sue prediche fanno tremare i politici: li redarguisce dal pulpito, con nome e cognome, quando ritiene che abbiano sbagliato. Un don Camillo senza nemmeno un Peppone tra i piedi. "Buttavano via i corpi che trovavano nelle reti, lo so, me l'hanno detto. Si trova di tutto nelle reti a strascico: anfore greche e spazzatura, reperti bellici e resti umani. L'hanno fatto per non interrompere il lavoro. Hanno sbagliato? Sì. Ma, se ci pensiamo bene, il mare è un luogo di pace quanto e forse anche più della terra". [***] Sono più di quattro anni che Portopalo conserva il suo segreto. Quando hai sentito le prime vaghe voci, ti è sembrato lo scherzo di un macabro burlone, una leggenda di pescatori. E ora che te lo senti svelare - con semplicità, noncuranza, al massimo con un po' di imbarazzo - ti viene il dubbio che non sia stato mai avvertito come tale. Come se nessuno avesse mai avuto la percezione di quello che accadde fuori di qua tra la fine del 1996 e il 1997 quando le comunità tamil, pakistane, cingalesi, indiane di mezzo mondo gridavano inascoltate che la notte di Natale era veramente avvenuta una immane tragedia, che i superstiti dicevano la verità. Sarebbe bastato un corpo, solo uno di quei corpi ributtati in mare, per chiudere quell'incredibile controversia sul "naufragio fantasma". [***] "E' un reato?". E' sorpreso il pescatore. Non lo sapeva. Chiede di restare anonimo. Davvero non pensava che fosse vietato: "Erano morti - insiste - non c'era più niente da fare". Apre una carta navale, indica un punto tra la Sicilia e Malta. Punta il dito quasi nel mezzo della retta immaginaria che unisce La Valletta a Portopalo: "Sicuramente il relitto di quella nave si trova in questa zona. Lo sappiamo da anni. Ci siamo dati la voce. Un tempo ci passavamo sopra, mentre da allora non è più possibile perché c'è quell'ostacolo. Qualcuno ci ha anche perso le reti, un bel danno. Ma i cadaveri, nel mese e mezzo dopo il naufragio, li pescavamo in altre zone". E punta il dito più a Est. "C'era stata la tempesta, poi un continuo vento di ponente. Sicuramente una parte dei corpi, quelli finiti nelle reti, è stata trasportata dalle correnti, un'altra parte è rimasta in fondo al mare, attorno al relitto. Chi per errore si è avvicinato a quella zona, ed è capitato anche di recente, ha tirato su mucchi di ossa, appartenenti a persone diverse. No. Non è più impressionante come prima: adesso sono ossa bianche, pulite. Al massimo capita di trovarle avvolte dentro dei vestiti. Sa, i clandestini si vestono con diversi strati di abiti, si portano tutto addosso. So che sono stati pescati dei documenti, delle banconote. Chiedendo in giro forse potrà trovare qualcosa". Ha ragione il pescatore. Un documento c'è. E' una carta d'identità cingalese plastificata, ancora perfettamente leggibile: il nome del suo intestatario è nell'elenco delle vittime elaborato dai tamil francesi. [***] Si chiama Corrado Cernigliaro lo storico locale. Ha scritto un monumentale tomo intitolato semplicemente "Portopalo di Capo Passero". E' amico e coetaneo del vigile Lupo, che ci accompagna da lui su "ordine" di don Calogero. Esce poco, ma riceve spesso, lo storico portopalese Cernigliaro. E' il vigile, questa volta, a introdurre la storia della pesca dei cadaveri. Cernigliaro scuote il capo in segno di disapprovazione: "Sì, a qualcuno l'ho detto che era uno sbaglio. Ma non ti ascoltano. Ognuno pensa al suo, a farsi i fatti propri. Sa, l'undicesimo comandamento..." Ha una grande nostalgia dei vecchi tempi - che poi sono gli anni Sessanta - quando ancora non era stata scoperta la miniera d'oro della pesca a strascico e si usava il vecchio metodo del cianciòlo: una vasca di rete creata da due barche affiancate, e i pesci tirati su col coppo: pesca povera, di superficie. "Ora c'è fretta, fretta di guadagnare, paura di restare indietro. Un tempo c'erano meno soldi ma più rispetto. In tanti lasciavano il paese per trovare lavoro. E da stranieri vivevano in luoghi lontani e sconosciuti, dove alla fine riuscivano a trovare un ruolo. Tutti qua sanno bene che gli immigrati di oggi sono come i nostri nonni di ieri. E' vero, a molti manca una coscienza civica. Ma gliel'assicuro: non siamo razzisti. Quella storia dei cadaveri ha un altro motivo, un motivo economico". [***] Negli anni Settanta venivano gli hippies a Portopalo. C'era un ambiente simile a quello di Ibiza d'estate. Erano gli anni d'oro della pesca, appena passata dalla fase artigianale a quella industriale. Poi i prezzi salirono e gli hippies cambiarono zona. Cominciarono ad arrivare i turisti normali: stranieri, gente del Nord Italia e poi molti dalla Sicilia, specialmente i catanesi. Ma, a parte due camping e qualche albergo, non ci sono grandi strutture. Il paese è veramente affollato solo in agosto. In questi giorni il forestiero viene ancora notato, riconosciuto: basta poco tempo per crearsi una piccola rete di conoscenze. Passi davanti a un bar del Corso, ti invitano il caffè, e riprendono quel discorso che, ormai lo sanno, ti appassiona tanto: i problemi della pesca a Portopalo. Ecco Antonino Cannarella, gli occhi verdi, la pelle del viso avvizzita dal sole: lo riconosceresti come pescatore anche se lo incontrassi sull'Himalaya. Gli è tornato in mente uno strano episodio che accadde al tempo della pesca dei morti. Lo racconta con un sorriso amaro: "Era il febbraio del 1997, non ricordo il giorno. Di certo era mattina presto. Un amico e io stavamo camminando per il Corso quando notammo una cosa da restarci secchi. Sul paletto che sosteneva un'insegna davanti a una macelleria c'era la testa di un morto. Dopo un po' arrivarono i carabinieri, transennarono la zona e la testa fu portata via". Ti viene nuovamente il dubbio di una burla. Ma tutti confermano anche questa storia, e tutti la associano alla grande disponibilità di parti di corpo umano di quei giorni. [***] Il maresciallo Neve, dei carabinieri di Pachino, a quell'epoca non lavorava qua e non ricorda. Chiede a un appuntato, sfoglia il registro, si fa portare un fascicoletto. "Ecco - dice - è questo: atti relativi al rinvenimento di un teschio umano nei pressi della macelleria di Maggio Sebastiano". Lo apre: c'è la relazione di un medico legale che non ipotizza una data di morte, non dice nulla sull'etnia. Ma conferma che si trattava di un teschio umano, appartenente a un maschio tra i 16 e i 25 anni. Il maresciallo ha un moto di sorpresa. Legge a voce alta un passo della relazione: "All'interno della scatola cranica, del tutto integra, sono state trovate due vongole chiuse e una conchiglia".