Bossi ha bisogno del senso d'insicurezza della gente
per difendere la sua area di consenso


La politica
fondata sulla paura


di GIUSEPPE D'AVANZO

UMBERTO Bossi è l'imprenditore politico della paura, aspira oggi ad essere il monopolista di un prodotto politico per il quale è sempre pronta una buona domanda. Il ministro per le Riforme ha bisogno della paura degli italiani per l'altro come dell'aria che respira. E' un'insicurezza, un panico morale che il Senatùr è "costretto" a programmare, sollecitare, ingrassare, evocare a mano libera. La paura è la risorsa a cui non può rinunciare, pena una evanescente presenza. Lo spettro che alimenta gli permette, da un lato, di tenere compatta e difendere la sua area di consenso; dall'altra, di ricontrattare all'interno della Casa della Libertà il suo ruolo e conquistare uno spazio politicamente agibile mentre il presidente del Consiglio bisbiglia ai leader europei che "di quel che dice Bossi non bisogna tener conto".

Mille curdi iracheni in fuga dall'oppressione di Saddam Hussein e approdati affamati, laceri, disperati e, loro sì, impauriti sulle coste siciliane sono un'immagine simbolica che perpetua l'esistenza politica di Umberto Bossi e il leader leghista da "animale politico" non se la lascia scappare. Se ne appropria. Evoca il fantasma. Manda avanti i gregari a minacciare addirittura l'uscita dal governo della Lega se l'Italia non "comincia a fare sul serio". Che cosa fa il ministro della Difesa con quella sua benedetta Marina? E il ministro degli Interni con la polizia? Anche Berlusconi che cosa fa? Non vede che gli ambasciatori dormono? Egli stesso esplicitamente censura l'esecutivo di cui fa parte: "Si sta muovendo male".

Bossi ghermisce l'occasione di quella nave di disperati profughi politici come una preda da non perdere in tempi di vacche magrissime. I sondaggi indicano la "sua" Lega al di sotto del 3 per cento.

La "diversità" del suo movimento è scolorita e opaca ora che abita il Palazzo e veste la grisaglia. E' come privato di ogni visibilità mentre incombono le amministrative e si scelgono sindaci e amministratori. Manna dal cielo un "carico di immigrati" perché rimette in movimento l'immaginario dell'"invasione", della "distruzione della sovranità del nostro Paese", del "complotto internazionale". E' il terreno sempre redditizio in termini di consenso elettorale che Umberto Bossi e la Lega hanno coltivato negli anni con raziocinio e cinismo: terreno che ha sempre offerto buoni e congrui frutti. Così è stato ieri, così sarà oggi e, purtroppo, domani. Con una differenza rilevante rispetto al passato, Bossi oggi è uno dei leader della Casa delle Libertà al governo. Rilevanti sono le contraddizioni e le fratture. Conviene elencarle sotto forma di domanda.

L'allarme sicurezza, sempre declinato come emergenza immigrazione, è stato nutrito durante la campagna elettorale del 13 maggio con lucidità da marketing politico. I sondaggi consigliavano Silvio Berlusconi di "cavalcare la tigre" perché l'immigrazione e le questioni dell'ordine pubblico collegate erano la seconda emergenza nelle ansie degli italiani, seconda soltanto alla disoccupazione. Per settimane, alla vigilia del voto, l'opinione pubblica è stata assediata da cronache "di paura" e poco importa se le minacce alla sicurezza, con tutti gli indici di criminalità in ribasso, erano più presunte che vere. Ma un discorso è stare all'opposizione o in campagna elettorale, un altro è governare. Se governi, non puoi ingrassare la paura. Hai bisogno di normalità (o normalizzazione) per governare. Se agiti la dimensione simbolica dell'invasione con rappresentazioni pubbliche, definizioni, percezioni, immagini deformate dai mass media (che controlli, cioè quasi tutti) crei focolai di paura nell'opinione pubblica e un clima di "emergenza continua" che non solo rende accidentato il cammino del governo, ma addirittura delegittima alla radice il governare.

La necessità politica di Bossi di riconquistare una centralità riproponendo le "parole d'ordine" della componente etnica svela, anche a chi tra i supporter del centro-destra non l'aveva ancora compresa, l'eterogeneità della coalizione che ha vinto il 13 maggio. Provoca una frattura nel governo difficile da nascondere o ricomporre. E' un nodo che arriva al pettine. Un nodo difficile da sciogliere in un momento importante per l'immagine internazionale dell'Esecutivo e per l'accettazione delle sue componenti nell'élite dei governi dell'Unione. Berlusconi è impegnato a rappresentarsi come "un moderato" agli occhi dell'Europa. Può un "moderato" scatenare la Marina e l'Aviazione contro i "dannati della Terra"? Gianfranco Fini, appena asceso tra i padri costituenti dell'Unione, vuole consolidare le sue credenziali di gollista europeo: molto gli si può chiedere per tenere unita la maggioranza, ma non ingabbiarlo in politiche sociali xenofobe o razziste. I cattolici democratici di Casini, Follini e Buttiglione sono troppo sensibili alle esortazioni della Santa Sede per abbandonare il valore della solidarietà e della dignità umana. Siamo allora di fronte a una contraddizione che può decidere del futuro del governo. Come la scioglierà Berlusconi? Detta meglio, è in grado di scioglierla?

Non si chiudono in questo interrogativo le contraddizioni. Non è facile usare il pugno di ferro contro l'immigrazione senza colpire gli interessi dei datori di lavoro e delle famiglie e senza ipotecare il futuro stesso del Paese. Le difficoltà interne finiscono così per sospingere il governo contro interi ceti e interessi che lo hanno sostenuto e promosso. "Come reggere, infatti, alla competizione internazionale, senza il contributo degli immigrati? Come mantenere gli attuali ritmi di sviluppo? Chi lavorerà nelle aziende al posto dei nostri giovani, che non lo fanno più? Chi assiste e assisterà gli anziani?", si chiedeva da queste stesse colonne Ilvo Diamanti (La Repubblica, 10 marzo). Che concludeva: "Stupisce il contrasto dello scenario demografico e socioeconomico con la rappresentazione che ne disegnano le politiche sociali e le strategie legislative.

Stupisce che si assecondino le paure dei cittadini, invece di raccontare loro la verità. Stupisce che l'immigrazione, invece che una realtà da integrare, sul piano dei diritti e dei doveri, delle regole e dei controlli, continui ad essere un stereotipo, un'ombra che ci minaccia. Da allontanare con le nostre navi".
Avrà la forza Silvio Berlusconi di raccontare a Bossi e agli italiani questa elementare verità? O continuerà a minimizzare tanto "di quel che dice Bossi bisogna non tenerne conto"?

E soprattutto sarà in grado la nuova maggioranza di mettere in campo idee e intelligenze che abbiano una qualche familiarità con la complessità dei problemi che non si risolvono con slogan o contesti ideologici che considerano i migranti non persone, ma soltanto forza lavoro? Ieri è apparso nei telegiornali della sera, a nome del governo, il sottosegretario agli Interni Alfredo Mantovano. Uomo e politico colto, solitamente rigoroso e ben informato, Mantovano ha detto che "il problema deve essere affrontato a monte: stipulando accordi e garantendo aiuti ai Paesi d'origine degli immigrati".

Ci ha provato anche la Francia qualche anno fa offrendo aiuti finanziari al governo del Mali per ridurre la pressione migratoria di quel Paese sui confini e nelle città d'Oltrealpe. Gli aiuti furono rifiutati. Ogni anno gli immigrati del Mali in Francia inviano nel loro Paese d'origine 67 miliardi di franchi (oltre 10 miliardi di euro): in Mali tutte le scuole vengono costruite grazie alle associazioni di familiari legati a chi lavora all'estero. I fondi offerti da Parigi mai e poi mai avrebbero eguagliato le rimesse dei lavoratori dall'estero.

(19 marzo 2002)