La traversata della morte
Dall'Africa all'Europa cercando un futuro: così scompaiono ogni anno centinaia di clandestini
di TAHAR BEN JELLOUN
da "La Repubblica" del 3 luglio 2000

NEL mese di maggio a Tangeri è già estate. Fa caldo, le ultime piogge sono state brevi acquazzoni. Per gli uomini venuti dal Sud e da più lontano ancora, è tempo di uscire per le strade in pieno giorno e andare a gironzolare nei dintorni del porto. Sono giovani, con i capelli arruffati, la pelle annerita dalla polvere e dalla scarsa igiene. Dove dormono? Probabilmente per strada o in qualche rimessa abbandonata. Sono strani. Si direbbero degli evasi, dei fuggitivi. Hanno lo sguardo sfuggente. Sono gli occhi della paura, di quell'angoscia che sgualcisce il cuore. Si assomigliano tutti. Forse appartengono alla stessa tribù, alla stessa famiglia. Si spostano gli uni appiccicati agli altri. Sono diffidenti e sfasati. Sotto il quartiere dei commercianti, Siaghine, c'è una spianata che si affaccia sul porto. È lì che si accalcano. Di tanto in tanto guardano il mare, scrutano i camion in partenza per l'Europa, aspettano la notte o un miracolo. DI LÌ, quando il cielo è terso, si riesce a vedere la costa spagnola. È proprio quella costa sfocata, con i contorni che si confondono nelle nuvole, che guardano. La sognano, in silenzio, quasi con vergogna. In quella parte della città si aggirano altre ombre. Sono africani. Camminano con disinvoltura. Sembrano indifferenti. Anche loro guardano il mare, ma la tristezza, l'inquietudine che lasciano trasparire dai loro volti è minore. Aspettano la notte, una notte buia e calma, per attraversare lo stretto di Gibilterra. Dei bambini passano loro accanto gridando "Harraga! Harraga!". Non sono sorpresi e non rispondono. Non è un insulto, ma un riconoscimento della loro sventura. Significa "bruciatori": com'è noto, i clandestini bruciano i loro documenti d'identità per non essere rispediti nei paesi d'origine in caso di arresto. A un certo punto quella parola è diventata sinonimo di "traversata" e di "esilio". In compenso, non indica la morte per annegamento o la prigione. Gli "Harraga" potrebbero costituire una comunità dal destino pieno di buchi. Tentano la sorte, prendono posto nella stessa barca, riescono o falliscono, cadono in mare o nell'oblio, si ritrovano nelle prigioni spagnole o sulle strade d'Europa. Non parlano quasi. Quando ci si avvicina, loro si allontanano. Il traghettatore deve aver detto loro di non parlare con nessuno: tutti potrebbero essere poliziotti o concorrenti. Venerdì 12 maggio degli uomini sono morti annegati nella baia di Tarifa. Sulla loro barca c' erano 29 persone. È andata a sbattere contro uno scoglio. Da gennaio, è il quarto naufragio di cui si abbia notizia, in quella zona. In tutto 17 morti e 30 dispersi. È una tragedia diventata banale. L'immigrato, clandestino o legale, è soltanto un corpo. Quello che perde è il suo corpo e nient'altro. Quello che guadagna è di nutrire il suo corpo e nient'altro. Gli spagnoli ritengono che dal 1998 almeno 250 persone siano morte in circostanze analoghe. La stampa marocchina, in particolare il quotidiano "Libération", avanza una probabile stima di 3.450 morti. Dalle coste di Tangeri o di Ceuta e Melilla partono barche praticamente ogni giorno, o, più precisamente, ogni notte. Nonostante tutto, il traffico dei traghettatori è fiorente. Ma al di là di questa constatazione, che mette sempre più in imbarazzo i politici di entrambi i paesi emergono degli interrogativi: fino a quando, uomini perfettamente al corrente dei rischi a cui vanno incontro continueranno a cercare di entrare illegalmente in territorio europeo? Come dissuaderli? Come trattenerli nei loro paesi, sulle loro terre? Come mettere fine a questo fenomeno, a questo ingranaggio in cui lo sfruttamento della miseria e delle illusioni ha come esito la morte o l'umiliazione di essere brutalmente ricacciati indietro? La stampa spagnola ci informa che la Spagna ha espulso quasi un milione di sans-papiers, una cifra record nell'Unione europea. Proprio lei, la Spagna, che ha appena 800.000 stranieri, la metà dei quali è costituita da pensionati dell'Unione europea. Dell'altra metà, sette su dieci sono marocchini e la maggior parte sono stati arrestati a Ceuta e a Melilla, città marocchine sotto l'occupazione spagnola da cinque secoli. Più di 3.000 clandestini sono stati arrestati e incarcerati dall'inizio dell'anno. La rigorosissima vigilanza della Guardia Civil e la scarsa mobilitazione dei movimenti antirazzisti hanno certamente nutrito l' immaginazione e incoraggiato i pregiudizi degli spagnoli di El Ejido che lo scorso febbraio si sono barbaramente sfogati sui braccianti marocchini. La Spagna scopre che il razzismo anti- arabo è virulento e in certi casi micidiale. Queste violenze razziste hanno radici nella storia antica ma anche nell'inconscio collettivo di una Spagna che si preoccupa maggiormente del suo sviluppo e dimentica il suo recente passato di paese di emigranti, così come dimentica di vigilare sul rispetto dei diritti dell' uomo quando si tratta di un immigrato arabo, di un musulmano, di qualcuno i cui lontani antenati ebbero qualche noia con Isabella La Cattolica. Per Juan Goytisolo, che scrive su El Pais (articolo ripreso da Courrier International del 13 aprile '99), "lo sfruttamento disumano dell'immigrato è la diretta conseguenza dell'improvvisa accelerazione dei cambiamenti sociali, dell'incapacità etica e culturale degli orticoltori di El Ejido di sostenere il loro nuovo ruolo. Più il numero di Mercedes per abitante è alto, maggiore è il disprezzo per l'Arabo asservito nelle serre. Un crudele paradosso: l'immigrato necessario all' interno delle serre diventa indesiderabile all'esterno. La sua sola presenza offende e preoccupa...". A questo paradosso va aggiunta l'immagine di un colonialismo scadente e miserabile che i marocchini conservano degli spagnoli che occuparono il nord del Marocco. Senza andare indietro fino al quindicesimo secolo, né all'inizio degli anni Venti del secolo scorso e alla guerra dei Rif, bisogna ricordare che Spagna e Marocco sono legati da una memoria comune. Potrebbe essere bella e felice, e invece è una memoria ferita; nessuno lo dice, nessuno lo dà a vedere. Se la Francia ha dolorosi problemi con gli algerini, è perché sulla guerra d' Algeria non si è mai veramente voltato pagina. Nonostante gli sforzi diplomatici da entrambe le parti, le relazioni restano tese. La memoria ispano-marocchina non conosce le stesse bruciature né gli stessi blocchi. Tuttavia è soggetta a perturbazioni e a emicranie inquietanti. La Spagna è normalmente vicina al Marocco, non foss'altro che per la distanza geografica. Il Marocco è una porta sul continente africano, così come la Spagna è, per il Marocco, una finestra sull'Europa. Si è anche parlato, in un certo periodo, di un collegamento fisso tra i due continenti. Ma per il momento è un' utopia. La Spagna si lamenta in continuazione del suo deficit demografico. Sa di aver bisogno degli altri, in particolare dei suoi dirimpettai. Sa di aver bisogno di una nuova manodopera perché i pensionati possano ricevere le loro pensioni. José Maria Aznar lo ha confermato (Le Monde, 28- 29 maggio 2000): "Non vogliamo voltare le spalle agli immigrati. Al contrario, ne abbiamo bisogno. Il nostro paese - è uno dei nostri punti deboli - ha il più basso tasso di natalità". L'Europa, nel complesso, conosce questo problema. Prima o poi avrà bisogno di nuovi immigrati. E può essere un bisogno più cruciale di quello d'inizio secolo, quando fabbriche e miniere mancavano di uomini. Oggi l' Europa manca di giovani, manca di capitale umano, quello che fa un paese e consolida una nazione. In questo senso, l'arrivo illegale di disperati è un epifenomeno. Non bisogna focalizzare l' attenzione su questo aspetto triste e indesiderabile. Il vero problema è quale cooperazione inventare, quali nuove relazioni immaginare tra un paese dalla demografia in declino e un altro della demografia galoppante. Le due rive del Mediterraneo soffriranno per questo squilibrio angosciante. Il Sud è sovrappopolato. Il Nord sottopopolato. Il Mediterraneo non avrà più un baricentro. Fosse anche solo per questo, è urgente trovare soluzioni importanti e bisogna evitare la politica del bricolage. Congressi e altre conferenze sul Mediterraneo non si contano più. Sono "giochi" abbastanza seducenti, ma mascherano altre realtà fatte di disuguaglianze e di ingiustizia, di corruzione e di assenza dello Stato di diritto. Donde la fuga e l'esodo di migliaia di persone che, andando tra l'altro ad arricchire la mafia dei cinici traghettatori clandestini, pensano di andare a rifarsi una vita in un'Europa prosperosa. Ma loro non sanno che questa Europa è fondata sul diritto e sul rispetto della legge. La Comunità europea dovrebbe avere un po' più di fantasia e mettere in atto una nuova politica dell'immigrazione, più lungimirante, più sottile e soprattutto più giusta di quella che ha seguito finora. Alain Juppé ha ragione a ricordare, in un'intervista a Le Monde del primo ottobre 1999, che "Dobbiamo definire criteri comuni per l' accoglienza di nuovi stranieri nell'Unione europea. Credo, infatti, che l'"immigrazione zero" non significhi molto [...]. Molto probabilmente l'Europa avrà bisogno dell'apporto della manodopera straniera". Questi "criteri comuni" dovrebbero anche tener conto delle necessità e degli interessi dei paesi del sud. In questa prospettiva probabile e per metter fine al sistema delle pateras, non bisogna da un lato investire di più nei paesi da cui partono quei desperados e dall' altro prepararsi ad accogliere immigrati del terzo tipo, vale a dire persone che non saranno soltanto una forza lavoro importata per trarci d'impaccio, ma partner coinvolti in un progetto di società? Questi uomini, dei quali i paesi europei avranno bisogno, non saranno né clandestini sbarcati di notte sulle spiagge spagnole o italiane, né immigrati del primo tipo, quello dettato dalla logica coloniale. L'Europa dovrà prepararsi e organizzare il loro spostamento e la loro sistemazione in modo molto più civile di come è stato fatto in passato. È finito il tempo dei quartieri di transito alla periferia delle città, finito il duro lavoro pagato con il minimo sindacale, finita la mancanza di considerazione. Quelli che emigrano oggi saranno i genitori dei picoli europei di domani. Prima, quando la Francia per esempio aveva bisogno di manodopera, andava a cercarla in Maghreb tra i contadini più robusti e li parcheggiava in quartieri di transito senza preoccuparsi delle loro condizioni di vita. L'immigrato non esisteva. Era una trasparenza. Non era visibile. All'epoca, la Francia si permetteva quella che Jean-Paul Sartre chiamava la "schiavitù moderna" nella cornice dell'occupazione coloniale. Il sociologo algerino Abdelmalek Sayad (scomparso nel '98), scrive nell' ottimo "La doppia assenza" (Seuil 1999): "Un rapporto di profonda somiglianza unisce l' immigrato e il colonizzato, ammesso che il primo non sia anche nello stesso tempo il secondo e che le due condizioni non si sovrappongano andando a rafforzarsi reciprocamente: colonizzato alla nuova maniera o colonizzato della ultima ora, l'immigrato è in posizione minoritaria, in posizione dominata...". Oggi l' Europa ha a che fare con paesi sovrani, sensibili al modo in cui vengono trattati i cittadini. Per i paesi maghrebini, l'emigrazione, a conti fatti, un disastro umano sociale e anche economico. Perché se i benefici immediati sono visibili e reali, (si risolve un problema nell'immediato, ma si ignorano le conseguenze a lungo termine di un simile spostamento), i mali che incancreniscono l'immigrazione sono molti e gravi e hanno conseguenze su almeno due generazioni qui e laggiù. A poco a poco si è formata una società contraddittoria e incongrua. Una società di immigrati con bambini che non sono emigrati. Nella stessa famiglia coesistono due visioni del tempo e dell'essere. Ci sono quelli che hanno fatto il viaggio, quelli nati dopo il viaggio e che non vogliono farsi carico di quella memoria scheggiata. È una società mal consolidata, una società che ha accettato la provvisorietà e l'improvvisazione amministrativa. È una società fatalista e rassegnata. Non si è ribellata e non si è integrata (il diritto di voto per la vecchia generazione non ha nessun senso, se non quello di un cinismo trionfante) e assiste impotente alla perdita simbolica della sua progenie, alla destrutturazione della famiglia e del clan, alla perdita dei suoi punti di riferimento e all'indebolirsi della sua cultura. Il disastro è lì, in quell'infelicità silenziosa, nei volti di quei padri in pensione che non sanno dove andare con la loro malinconia, anche se fanno la spola tra il paese d'origine e il paese che gli ha "preso" i figli. Non si tratta, ovviamente, di rapimento organizzato, ma della rottura con una tradizione, con un sogno. Il disastro è lì, in quell'attrazione irresistibile verso un'altra cultura, un altro modo di essere e di comportarsi con i propri genitori. Quest'altra cultura, detta cultura d'accoglienza (di fatto sono i bambini che ci si immergono a partire dalla scuola) è spesso un rifugio, espressione metaforica di un'opposizione alla figura del padre che non è più un ideale, ma la realtà del fallimento, la figura di colui al quale non si vuole assomigliare, responsabile e vittima di uno spostamento che ha sciolto vincoli ancestrali, che ha introdotto smarrimento e frustrazione. Questa generazione, la cosiddetta prima generazione, arrivata negli anni Sessanta, porta in volto più di una grande stanchezza, un dolore segreto, un' indicibile contrarietà. È già in lutto per se stessa. Nessuno parla più di lei. È già classificata, messa da parte. Alcuni pensionati passano le loro giornate nelle moschee, altri nei bar a giocare a domino. Hanno il loro paese nelle rughe della pelle, la nostalgia solca l'anima di uomini e donne che non sanno più che cosa gli succede. I bambini nati in Europa o i giovani di cui l'Europa ha bisogno oggi non hanno più niente a che vedere con la figura stanca e spezzata di un'immigrazione dal destino deviato. È ancora Alain Juppé a constatare che "l' integrazione non funziona, né a scuola né sul lavoro, con discriminazioni insopportabili che minacciano la nostra coesione nazionale". C'è ancora molto lavoro da fare per cambiare stereotipi e mentalità, per accettare finalmente l'idea di un'Europa in cui l'eterogeneità sarà fonte di ricchezza, in cui il razzismo sarà sconfitto dall'energia vitale di centinaia di migliaia di bambini dalla pelle bronzea, una gioventù ottimista, felice di vivere qui e che non sopporterebbe di essere trattata senza dignità. Non si tratta più di "stranieri", ma di invitati di un nuovo tipo, chiamati, di fatto, con la loro presenza e il loro inserimento nella società, a ridurre il deficit della natalità europea. Si fanno venire degli ospiti in una casa che minaccia di crollare se questa non è abitata, vale a dire piena di bambini. A questo punto, non sono più i paesi del sud a chiedere, ma i paesi europei, quelli che finché hanno potuto hanno chiuso le frontiere e respinto chi cercava di entrare. L' Europa occidentale è oggi quasi costretta a favorire il meticciato e il multiculturalismo. Se questo programma ha successo, sarà una rivincita postuma offerta da figli e nipoti a genitori e nonni che un tempo hanno sacrificato tutto al benessere della loro progenie. Anche se la cultura d'origine ha sofferto del trasferimento, non è scomparsa del tutto. Questi bambini, piccoli europei dalla pelle scura, sono anche portatori di una memoria alta. Prima o poi, quella memoria si esprimerà e porterà nuovi colori, nuove spezie alle culture europee. Forse allora non si vedranno più ombre inquiete e inquietanti aggirarsi vicino allo stretto di Gibilterra.