Irregolari e clandestini… 
di fronte ad una legge da rivedere

 

La legge Turco - Napolitano è per molti aspetti una buona legge e costituisce un progresso sul piano dei principi perché, in prospettiva, si propone di assicurare, a una parte consistente di immigrati, condizioni di vita corrispondenti a quelle di cittadini italiani. Si tratta di una scelta civile e importante, che supera le ambiguità della legislazione preesistente e si distingue da impostazioni presenti in molti paesi europei, dove gli stranieri sono considerati cittadini di serie B, non privi di diritti, ma tuttavia esclusi dalla pienezza della cittadinanza.

 

Una spaccatura insanabile tra chi è in regola e chi no

 

Il superamento di questa ambiguità ha però, nella legge Turco - Napolitano, un prezzo, la spaccatura insanabile tra regolari e irregolari, espressa nello slogan: “Frontiere aperte per chi entra regolarmente nel nostro paese, guerra senza quartiere ai clandestini”.

Ragionando in astratto, a tavolino, tale scelta può apparire razionale. Ogni società ha delle regole, chi le rispetta ha la pienezza dei diritti. Però la logica, all’apparenza inattaccabile, di questo approccio è viziata da uno scarso realismo. Nella storia, l’immigrazione si è sviluppata secondo regole diverse dalle aspettative e dalle dinamiche proprie dei paesi d’arrivo, seguendo spinte e bisogni economici e sociali non gestibili secondo schemi precostituiti.

Il carattere più o meno restrittivo e repressivo delle legislazioni in tema d’immigrazione ha creato difficoltà, problemi, sofferenze, ma non ha inciso significativamente sull’entità dei flussi; nessuna politica di stop ha, per esempio, impedito agli italiani di andare in Svizzera o in Germania, in Argentina o negli U.S.A., fino a quando sono mutate le condizioni economiche e sociali che stavano alla base dell’immigrazione.

 

La realtà dell’immigrazione

 

In alcuni fra i più importanti paesi europei i flussi migratori sono cessati o, comunque, c’è un equilibrio tra arrivi e rientri al paese d’origine. Continuano a essere significativi i flussi verso l’Italia, il Portogallo, la Spagna e la Grecia, cioè gli ultimi paesi europei interessati da immigrazioni consistenti. Ciò significa che l’immigrazione come “invasione”, oggetto di paure collettive, non esiste. Esistono flussi maggiori o minori, a seconda di circostanze esterne, e si tratta di flussi in andata e in ritorno, perché parte consistente degli immigrati ritorna al paese d’origine (proprio come ha fatto parte consistente degli immigrati italiani). Una quota d’immigrati, naturalmente, si sistema in modo definitivo e concorre alla vita sociale ed economica dei paesi d’adozione. In questa fase storica, per una serie di ragioni, è prevalente il movimento verso i paesi europei e questo fenomeno lo si deve regolamentare e non, come molti vorrebbero, solo con un incontro ordinato e programmato di domanda e offerta di lavoro.

Innanzi tutto, ritenere che esistano davvero due flussi (quello regolare e quello clandestino), separabili e governabili in modo differenziato, è del tutto estraneo alla realtà sociale. Il problema dell’assistenza agli anziani nel nostro paese è stato risolto, o quanto meno contenuto, solo grazie a immigrati, per lo più irregolari; così come è irregolare una parte consistente degli immigrati che lavorano nelle campagne del sud Italia.

La legge attualmente in vigore non consente la regolarizzazione nemmeno nelle situazioni, e sono molte, in cui è il datore di lavoro che chiede di realizzarla. Oggi non è possibile, proprio perché i binari della regolarità e dell’irregolarità non si incontrano mai: o regolari fin dall’inizio, o irregolari in eterno.

Questa separazione rigorosa e insuperabile è la logica della legge; mentre chiunque, anche chi abbraccia le posizioni più dure, sarebbe d’accordo che la regolarizzazione di chi sta lavorando, o è comunque stabilmente inserito, sarebbe un vantaggio per tutti. Chi viene in Italia per lavorare e per vivere onestamente, se è entrato, per esempio, con un permesso per ragioni di turismo, non potrà mai regolarizzarsi (salva l’ipotesi di periodiche sanatorie o l’improbabile rientro in patria per acquisire un incerto permesso d’uscita ad altro titolo). È il caso di sottolineare che cosa questo significhi: l’irrazionalità del sistema, non solo nell’ottica dei buonisti, ma persino in quella della Confindustria.

 

Che fare?

 

Per integrare e correggere questa legge si possono e si devono fare due cose fondamentali. Anzitutto, si può tenere ferma una politica centrata sulla determinazione di quote annue d’ingresso, ma queste vanno rese numericamente più consistenti. Ci sono aree politiche lontanissime fra loro (da una parte del solidarismo cattolico, agli imprenditori industriali, ai centri sociali) che convergono, pur con motivazioni profondamente diverse, sulla prospettiva di una totale libertà di ingresso per gli stranieri: “Lasciamo che siano le dinamiche sociali a determinare l’immigrazione”.

Non necessariamente deve essere così, anzi è forse meglio che non sia così, perché lasciare tutto alle leggi del mercato ha sempre portato svantaggi per i più deboli, non certo per i più forti.

È vero però che il fenomeno immigrazione, per la sua stessa struttura, tollera di essere accompagnato, ma non arginato o trasformato. Se l’economia e la società italiana richiedono un ingresso di 200.000 immigrati l’anno, continuare con la previsione di quote di 15.000 - 30.000 ingressi (come si è fatto negli anni scorsi), o anche di 70.000 circa (come si è fatto quest’anno), significa abbandonare il realismo in favore dell’ideologia e della paura. Il risultato, è che gli ingressi saranno comunque 200.000, ma la maggior parte avverrà in condizioni d’irregolarità, alimentando ulteriormente il relativo serbatoio.

In secondo luogo serve una regolamentazione duttile, a ingresso avvenuto. Perché non regolarizzare la situazione di chi, entrato in Italia irregolarmente, non è stato espulso e ha, negli anni, trovato un suo inserimento (lavoro, casa, famiglia)?

Nel nostro paese si sana tutto: il passare del tempo estingue anche i reati e i debiti. L’unica cosa che non si cancella è l’ingresso clandestino, destinato a restare una macchia indelebile. La regolarizzazione, oggi, presenta una complessità burocratica tale da essere di fatto impossibile.

Certo, non ci sarebbero miracoli, perché nessuno ha bacchette magiche, ma il sistema funzionerebbe meglio. Prendiamo il problema (manifestato in maniera strumentale da molti, ma reale) dell’insicurezza che l’immigrazione porta con sé.

Il fatto che ci siano sacche di criminalità connesse con l’immigrazione è evidente, innegabile, ma la diffusione della criminalità organizzata ha a che fare soprattutto con la globalizzazione dei mercati illeciti, non è dunque necessariamente una faccia dell’immigrazione. La diffusione di criminalità nazionali in altri paesi può avvenire tranquillamente senza l’emigrazione di lavoratori: valga l’esempio della diffusione dell’attività delle mafie italiane nei paesi dell’Est, senza alcuna immigrazione di lavoratori italiani. Non c’è dubbio però, che se c’è una criminalità albanese in Italia, troverà più facilmente manovalanza fra albanesi emigrati che attraverso l’integrazione con la criminalità locale; e così i cinesi, da sempre abbastanza chiusi a un’effettiva integrazione, si servono, anche per le attività illecite, più degli altri cinesi che non degli italiani.

Queste riflessioni dovrebbero suggerire politiche diverse da quelle attuali: un serbatoio di duecentomila irregolari, dei quali venti o trenta mila dediti ad attività criminali, rende questi ultimi più difficilmente identificabili e li mette in condizione di poter continuare a delinquere impunemente; viceversa, far emergere l’irregolarità amministrativa isolerebbe di chi è venuto in Italia per delinquere, o che comunque ha scelto di farlo, e rende perciò più agevole ed efficace l’intervento della legge.

 

Il paradosso della sicurezza

 

I dati dimostrano che il numero di persone che possono essere espulse è di circa 20.000 ogni anno. Il problema è identificare con criteri precisi chi si vuole espellere, cioè definire le situazioni a cui ricollegare un’integrazione impossibile e, quindi, la necessità dell’espulsione. Il paradosso è rappresentato dalla presenza di un serbatoio di 200.000 - 300.000 potenziali espellendi, tra cui scegliere chi allontanare. Per lo più, vengono allontanate non le persone pericolose, ma quelle nei cui confronti l’espulsione è più facile, per esempio per la presenza di generalità certe. Nessun comandante d’aereo accetta di imbarcare una persona di nazionalità incerta, dato il rischio di doverla riportare indietro, quando le autorità doganali del paese di destinazione non la riconoscano come proprio cittadino. È più semplice, dunque, espellere chi ha documenti, anche se si trattasse di persone meno pericolose. L’esperienza dei Centri di Permanenza Temporanea lo conferma: quasi il 70 % degli internati vengono trattenuti per venti o trenta giorni e poi rilasciati, non essendo possibile l’esecuzione dell’espulsione per mancata identificazione. È evidente che si tratta di un meccanismo perverso, che facilita le espulsioni facili e rende impossibili quelle rispondenti a effettive ragioni di sicurezza. L’esito del sistema attuale è che le 20.000 espulsioni eseguite (ma sarebbe lo stesso se salissero, ad esempio, a 50.000), non incidono minimamente in termini di diminuzione della criminalità e di rassicurazione sociale.

Non dobbiamo stabilire se privilegiare le politiche d’accoglienza o quelle di contenimento, siamo piuttosto nella necessità di trovare politiche che funzionino, capaci di produrre risultati utili per tutti, italiani e stranieri. Il senso d’insicurezza esiste e non va minimizzato, ma ciò non significa che qualunque risposta al riguardo vada condivisa. Lavorare per un sistema di convivenza più sicuro significa, al contrario, smascherare le risposte apparenti. Usare strumenti inadeguati produce, infatti, insuccessi e, conseguentemente, maggiore insicurezza. La legge Turco - Napolitano va rivista non perché è una legge troppo permissiva che genera insicurezza, ma perché è troppo astratta e per questo, contrariamente alle intenzioni, finisce per non combattere né la discriminazione né l’insicurezza.

 

Offrire un’alternativa di vita agli immigrati, prima di chiedere loro “responsabilità”

 

Nel campo dell’immigrazione occorre imparare a distinguere. Anzitutto fra semplice irregolarità e clandestinità. È la totale clandestinità l’ostacolo maggiore all’esecuzione delle espulsioni, mentre la pura irregolarità amministrativa non pone ostacoli di sorta. L’attuale considerazione normativa, omogenea tra irregolarità e clandestinità, incentiva l’irregolare a diventare clandestino, a mimetizzarsi nella moltitudine di “fantasmi” per i quali il reato è spesso uno stato di necessità. Far emergere l’irregolarità consentendo le regolarizzazioni, ridurrebbe il serbatoio di clandestini e permetterebbe di dedicare le energie alla lotta alla vera criminalità, in collaborazione con i paesi d’origine da cui provengono le quote più consistenti di immigrati (che non sono molti).

Si apre qui la prospettiva di politiche di scambio e di integrazione. Per esempio, buona parte degli immigrati dai Paesi dell’Est (Romania, Ucraina, Polonia, etc.) sono donne che lasciano al paese d’origine famiglia e figli con l’intenzione di lavorare in Italia per alcuni anni (per lo più in lavori domestici), mettere da parte qualcosa e poi tornare a casa. Far venire alla luce questi fenomeni e regolamentarli significa accompagnarli, evitando allo stesso tempo di lasciare tutto alle dinamiche, spesso pericolose, del mercato.

Anche il lavoro di recupero della devianza minorile, per fare un altro esempio, è condizionato da questa situazione. Proporre, ad un ragazzino straniero, un percorso alternativo alla vita in strada, e provare a metterlo in contatto con organizzazioni e persone che possano accompagnarlo in un percorso di crescita personale e professionale, è oggi pressoché impossibile. Gli si dovrebbe chiedere di fornire le proprie vere generalità dandogli, allo stesso tempo, la certezza di regolarizzare la sua posizione e restare in Italia quando diverrà maggiorenne. A questo punto ci sarebbe una “vera” alternativa, con possibilità reale di scelta (e con evidente vantaggio anche per la società, il cui interesse è quello di sfoltire i ranghi della criminalità, piuttosto che quello di allontanare tutti in maniera indiscriminata). Ma se l’unica prospettiva che gli si offre venendo allo scoperto è l’espulsione, non c’è nessuno spazio per una politica che unisca l’accoglienza alla assunzione di responsabilità da parte dei ragazzi stranieri.

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