L’espulsione come sostituzione al carcere:
un indultino, o una condanna supplementare?
 

Tre mesi di polemiche, intorno alle carceri ed ai problemi della giustizia in Italia, hanno prodotto un solo risultato: maggioranza ed opposizione sono d’accordo sull’opportunità di espellere gli stranieri. Anche se in regola con le norme sull’immigrazione, quando sono imputati o condannati, pure se in via non definitiva, li aspetta il rimpatrio forzato.

La parte più sostanziale del “mini indulto” è proprio questa: 5 - 6 mila stranieri detenuti potrebbero essere rimpatriati… alleviando così il sovraffollamento del nostro sistema carcerario. Sembrerebbe una soluzione ovvia, ma forse non lo è: noi che ci battiamo perché si aprano possibili percorsi di regolarizzazione agli stranieri detenuti, dobbiamo invitare le forze politiche e sociali ad una attenta riflessione al riguardo.

Innanzi tutto, è da evitare la logica del capovolgimento del problema, che ha indotto qualcuno ad affermare: “L’espulsione, come alternativa al carcere, è incostituzionale, perché rappresenta un vantaggio per gli stranieri, rispetto agli imputati italiani”.

Ragionando in questi termini, si va nella direzione opposta all’ampliamento delle pene alternative alla detenzione e, oltre tutto, s’incoraggia la stipula di accordi per far scontare le pene agli immigrati nei paesi da cui provengono, come sembra essere in preparazione per gli albanesi.

Una volta chiarito che l’espulsione “potrebbe” essere una valida sanzione alternativa, assimilabile all’obbligo o al divieto di soggiorno per gli italiani, vanno necessariamente fatte alcune distinzioni.

Le persone che sarebbero più danneggiate da questa innovazione sono quelle che hanno già scontato buona parte della condanna in carcere; per loro la sanzione risulterebbe raddoppiata: dopo mesi o anni di detenzione, pure l’espulsione obbligata.

Chi ha un permesso di soggiorno e, con molte più difficoltà, anche gli irregolari, oggi possono cercare di costruirsi un futuro fuori dal carcere con la semilibertà, o con l’affidamento ai servizi sociali, dando così un senso anche alla pena espiata.

Sarebbe importante, quindi, che i detenuti stranieri potessero scegliere tra l’espulsione e la continuazione della pena detentiva, com’era peraltro previsto nella legge Martelli, in vigore fino al 1998.

Per gli stranieri ammessi alle misure alternative, ovviamente, la via da individuare è sempre quella della permanenza regolarizzata in Italia, se non altro in considerazione delle risorse investite dallo Stato sul loro recupero sociale.

La situazione riguardante i condannati è, insomma, sufficientemente chiara: un “aut - aut” tra il carcere e l’espulsione, una scelta possibilmente fatta da loro stessi, tenendo conto sia delle difficoltà del rientro sia del rischio di essere comunque espulsi alla fine della pena.

Il rientro in patria delle persone espulse non potrà mai essere un buon ritorno, in quanto significa l’ammettere il fallimento del proprio progetto di emigranti e spesso l’essere trattati come criminali dalle polizie locali: questo lo sappiamo bene.

Non si può comunque ignorare che l’espulsione potrebbe rappresentare una diversa risposta al fenomeno della criminalità indotta dalle condizione di disagio sociale.

Finora la sola risposta data è unica “carcere - carcere – carcere”, con i risultati visibili da tutti: istituti strapieni, recupero sociale dei condannati “quasi” inesistente e, per gli stranieri, “quasi” nessuna possibilità di regolarizzarsi al termine della detenzione.

È perciò auspicabile che il limite di pena, entro il quale l’espulsione possa essere applicata come sanzione sostitutiva, venga  innalzato a livelli previsti in altri paesi europei: sei anni in Spagna e fino a sette anni in Germania, ad esempio.

Il contraccambio tra il divieto di reingresso (che dura 10 anni) e la pena detentiva evitata sarebbe in questo modo più adeguato e s’inquadrerebbe meglio nell’ambito delle misure interdittive previste a livello europeo: il confino; il divieto di soggiornare in un paese o in una regione; l’obbligo di soggiornare in un determinato luogo, con divieto di allontanarsene.

Il nostro codice prevede l’applicazione delle interdizioni sia come alternativa al carcere, sia come misura di sicurezza a cui assegnare le persone giudicate socialmente pericolose che hanno già scontato la pena: nel primo caso possono avere la durata di 10 anni, nel secondo caso di 5 anni.

L’espulsione è di queste misure di sicurezza e, in questa forma, va a penalizzare quanti non possono usufruirne come sanzione alternativa, avendo una condanna superiore ai due anni (limite fissato dall’articolo 16 della legge sull’immigrazione).

Invece è più contraddittoria la procedura a carico degli imputati, a cui la Costituzione riconosce la presunzione d’innocenza e il diritto alla difesa: entrambi questi princìpi sono messi in discussione, quando l’espulsione sia eseguita prima della sentenza definitiva.

In particolare, i titolari di un permesso di soggiorno sarebbero sottoposti ad una limitazione grave dei loro diritti, non potendo presenziare all’udienza eventuale di impugnazione del provvedimento di espulsione. (Per i clandestini non c’è nemmeno la possibilità di presentare ricorso, quindi il problema non si pone ...). Fin qui, arriva la legge, che poi dovrà essere applicata... com’è logico.

Una buona applicazione può migliorare o peggiorare l’impatto di qualsiasi norma ed in questo caso più che mai è necessario che ne siano valorizzati gli aspetti di cautela e garantismo, cominciando dall’accertamento dell’identità degli stranieri imputati e condannati.

L’attribuzione di generalità non supportate da un documento, come avviene spesso per gli irregolari fermati dalle forze di polizia, è insufficiente per espellerli verso un paese che potrebbe essergli anche estraneo.

Inoltre sarebbe opportuna un’interpretazione estensiva dei criteri che determinano il divieto di espulsione: la “persecuzione per motivi ( ... ) di condizioni personali e sociali” (articolo 19 del decreto legislativo 286/98) può verificarsi proprio a seguito del rimpatrio coatto, in quanto le autorità del paese di provenienza “incolpano” la persona di avere disonorato il nome della nazione.

Di certo, almeno la prima di queste due condizioni (l’accertamento dell’identità), sarà motivo di impedimento all’espulsione di molti detenuti e potrebbero, per assurdo, essere espulsi soprattutto i “regolari”, o coloro che un qualche titolo di soggiorno l’hanno avuto, prima di entrare in carcere: staremo a vedere se verrà data loro una possibilità di scelta, oppure no.

Le carceri non si svuoteranno comunque, per effetto di questo provvedimento, nemmeno delle 6.000 persone previste: finché la politica criminale prevale su quella sociale saremo sempre sovraffollati, nonostante la costruzione di nuovi istituti.

Qualcuno ha già previsto che diventeremo in 70.000, se fossero approvati gli aumenti di pena per il furto in appartamento e lo scippo: intanto è arrivata una nuova legge sul diritto d’autore, che prevede condanne fino a quattro anni per chi fabbrica e vende prodotti contraffatti: tanto per cambiare, i venditori di prodotti copiati sono soprattutto gli immigrati.

I venditori ambulanti sono quindi da considerare “persone socialmente pericolose”, da incarcerare o da espellere? Chissà se questo dubbio è passato per la mente di quanti hanno votato la legge ...  

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