“Narrazione
e intercultura”
di
Duccio Demetrio
Sono Duccio Demetrio. Non mi occupo di letteratura se
non attraverso uno sguardo particolare, che è quello dello studioso di
pedagogia che, tra l’altro, non studia solo quello di cui, solitamente, si
ritiene debba occuparsi un
pedagogista, cioè i bambini e l’infanzia.
Io studio, da trent’anni, l’età adulta e la
condizione adulta; insegno educazione all’università degli studi di Milano e
anche pedagogia interculturale.
Il mondo della letteratura e del racconto ha a che
fare, comunque, con i miei studi sull’educazione nel corso della vita,
concetto che sempre di più si sta diffondendo. Nelle mie attività di ricerca
mi sono sempre avvalso di un metodo, di cui oggi in parte parleremo, che è
quello delle storie di vita, dell’autobiografia.
Dirigo, da due anni, la Libera Università
dell’Autobiografia di Anghiari, che ho fondato con un grande giornalista
italiano, che è Saverio Tutino. Vi sono stati distribuiti due depliants
relativi alle iniziative che si svolgeranno il primo di aprile ad Anghiari,
vicino ad Arezzo, e ad un’altra iniziativa, particolarmente interessante
rispetto ai temi che oggi affronteremo, che riguarda la memoria e l’oblio
nell’incontro tra diverse culture.
Poi, se avrete interesse ad approfondire i contenuti
di queste giornate, vedrete quali sono le proposte che la Libera Università di
Anghiari rivolge a tutti coloro, insegnanti e bibliotecari compresi, che
intendono diventare specialisti in metodo autobiografico.
Non solo perché desiderano, a un certo punto della
loro vita, scrivere la loro storia, cosa quanto mai auspicabile che tutti, prima
o poi, facciano, per il desiderio di lasciare testimonianze di sé. Per il
desiderio di curarsi, anche, attraverso la narrazione.
Con la Libera Università dell’Autobiografia
vogliamo specializzare, nell’arco di due anni, con seminari di
approfondimento, tutti coloro che sono affascinati dall’ingresso,
all’interno della riflessione pedagogica ed anche psicologica, del cosiddetto
pensiero narrativo. Ho pensato di scandire la conversazione odierna in quattro
momenti.
In primo luogo vorrei riprendere, ma da pedagogista,
non da teorico della narrazione, un alfabeto di ciò che significa, oggi,
adottare uno sguardo pedagogico che mette al centro il motivo della narrazione,
in senso ampio, e della narrazione di sé in modo particolare.
Il secondo momento di questa mia scaletta, verrà
dedicato al rapporto tra narrazione e identità: noi, quest’oggi, dobbiamo
affrontare il rapporto tra intercultura e racconto di sé e, giocoforza, la
letteratura scientifica che si occupa di pedagogia interculturale, e che oggi
mette l’accento sulla nozione di identità.
L’incontro tra culture diverse, modifica o conferma
le identità reciproche, oppure ci troviamo di fronte a quel fenomeno che gli
antropologi chiamano di ‘meticciamento’, di ‘ibridazione’
delle nostre identità?
Il concetto di identità è cruciale perché, nel
momento in cui anche nella scuola ci incontriamo con alunni o genitori di altre
culture, il nostro pensiero non può che interrogarsi sul senso di ciò che
andiamo facendo e proponendo, a proposito delle trasformazioni della loro e
della nostra identità.
Il terzo punto riguarderà la relazione tra
narrazione e intercultura, quindi prendendo in pieno il titolo della mia
conversazione. L’ultimo punto, il quarto, sarà dedicato alla ‘narrazione e
transcultura’.
Transculturalità e interculturalità sono concetti
che, anche se hanno molte assonanze tra loro, a mio parere non possono e non
debbono essere confusi. Muoviamoci, quindi, in primo luogo dalla considerazione
di che cosa significhi per un pedagogista, o semmai per uno psicologo della
narrazione, questa straordinaria attenzione che oggi, nel mondo scolastico e non
solo, si sta sviluppando intorno ad una sorta di controtendenza pedogogica, che
vede come protagonisti i temi del raccontarsi e del racconto di sé.
Questi temi, ed io non posso che concordare con
questa controtendenza, non sono soltanto un espediente per stare meglio con i
bambini e con i ragazzi, per socializzare, per scambiarsi storie.
Non è solo per questo, ma la controtendenza
narrativa che si è sviluppata, curiosamente, negli Stati Uniti, e si è diffusa
poi nell’Europa negli ultimi anni, dice che dobbiamo riconsiderare le teorie
psicologiche di avvicinamento a chi sta crescendo.
Si tratta di nuove forme di didattica, di altri
metodi per lavorare nella scuola, ma non solo. Mi riferisco, in modo
particolare, ad un autore, uno psicologo molto noto, che scrisse alla fine degli
anni ‘80 un testo straordinario poi tradotto in italiano con il titolo ‘La
ricerca del significato’, questo autore è Geo Bruner.
Nella premessa di questo testo, Bruner dichiara di
essere uno ‘psicologo pentito’. Perché pentito? Perché negli ultimi anni
‘70 Bruner era il protagonista della corrente cognitivistica, cioè di quella
corrente del pensiero psicopedagogico che patrocinava e patrocina tuttora la
superiorità delle procedure sequenziali di apprendimento e di sviluppo della
conoscenza.
Procedure che richiedono, quindi, un avvicinamento al
sapere per tappe, per fasi, secondo princìpi che appartengono alla ricerca
sperimentale.
Bruner, in questo testo, sostiene che il compito
dello psicologo e il compito, quindi, del pedagogista, non è solo quello di
studiare i processi cognitivi, come processi volti a favorire l’accumulazione
delle conoscenze, ma deve occuparsi soprattutto della ‘ricerca del
significato’, come la definisce.
La nostra mente è un intrigo di significati, dice
Bruner; noi ci costruiamo la coscienza, l’ambiente e il contesto costruiscono
la nostra coscienza, sulla base di operazioni narrative della realtà della
vita.
Questo avviene attraverso strutture di pensiero, che
sono il risultato di incontri con la dimensione delle storie. Noi apprendiamo
storie, non apprendiamo per episodi, quindi apprendiamo per insiemi: una storia
è un insieme, perché deve avere un antefatto, un incipit, una trama, e deve
concludersi.
Bruner ci chiama, quindi, all’importanza di
ricostruire ogni nostro sguardo nei confronti degli altri, in particolare se
facciamo gli educatori professionisti, o siamo semplicemente genitori,
dimenticando una concezione, derivata dalla ricerca positivistica, volta a
classificare i diversi tipi di apprendimento che possiamo esibire e che possiamo
inseguire quando ci avviciniamo alle conoscenze.
Bruner dice che noi conosciamo per insiemi, per
significati, e questo è visto, da un lato, come aspetto importante,
significativo, per cui noi cambiamo ed evolviamo attraverso l’esperienza del
racconto, dell’ascolto di storie che assumiamo e della restituzione di storie.
Ma, d’altro canto, siccome la nostra mente, fin da
piccolissimi, organizza dei significati, organizza anche dei valori e dei
pregiudizi: i significati sono schemi, sono modelli, e Bruner, con gli altri
psicologi e pedagogisti, sostiene che noi cambiamo i nostri modelli,
verifichiamo i nostri pregiudizi e li cancelliamo, soltanto nel momento in cui i
significati precedenti, che ci hanno consentito di organizzare il mondo, non ci
servono più.
Nel momento in cui i significati perdono il senso,
che ciascuno riflette su di sé, ognuno ragiona e cambia il modello mentale
nell’avvicinamento della realtà. Si accorge che questo modello mentale l’ha
cambiato quando non gli serviva più,
oppure quando lo stesso modello non è stato più coerente con un contesto, un
ambiente, una certa circostanza. Quando ragioniamo sul costituirsi della nostra
mente come intreccio di storie, vediamo questo nostro procedimento spontaneo
come qualcosa di molto interessante, perché possiamo aprire e rendere
disponibile la nostra intelligenza solo attraverso le storie. Del resto, lo
sappiamo benissimo che questo tipo di apprendimento è un apprendimento
quotidiano, continuo, che passa anche attraverso la cultura orale.
Apprendiamo
attraverso le narrazioni, ma alcune le fermiamo, perché confliggono con i
modelli che abbiamo acquisito in precedenza, e questo è un aspetto negativo.
Quindi, le storie rappresentano un veicolo di trasformazione, ma rappresentano
anche un ostacolo al cambiamento. Il narrare ha un valore importantissimo, di
carattere quasi ontologico: il nostro essere al mondo ci fa narratori
giocoforza, ci rende individui che narrano. Ma, allo stesso tempo, ogni
narratore ed ogni storia ci rende anche dei ‘narrati’: essere narrati,
sempre dal punto di vista della pedagogia della crescita, ma anche della
pedagogia dell’età adulta, diventa fondamentale. Perché, se ciascuno di noi
non fosse narrato dagli altri, in quel momento diventa qualcosa di estraneo a se
stesso: non c’è nulla di più disdicevole di quando sbagliano il nostro nome,
oppure ci confondono con qualcun altro, perché in quel momento non siamo più
nel campo narrativo altrui.
Per questo, oggi, la narrazione viene anche messa in
luce come un’esperienza di natura curativa e terapeutica, dove la nozione di
cura non deve essere ricondotta solamente alla dimensione patologica. ‘Cura’
è anche un concetto filosofico, che compare già nei dialoghi platonici, nel IV,
V secolo avanti Cristo. La ‘cura’ sta per una manifestazione dell’essere
al mondo, che ci trova al centro dell’attenzione degli altri: quindi ‘c’è
cura’ tutte le volte che qualcuno si accorge di noi.
E quando qualcuno si accorge di noi, o continua ad
accorgersi di noi, è evidente che entriamo nel campo della sua narrazione, nel
campo delle sue parole, nel campo della sua voce. Guai, quindi, al bambino che
non è al centro di una narrazione; guai al bambino che non può crescere
all’insegna della sua autostima, che non sente intorno a sé dei narratori, a
prescindere dai contenuti della narrazione. Ma questo è vero non solo nei primi
anni della vita: guai se, nel corso della nostra esperienza di uomini e di
donne, nell’età anziana in particolare, non continuassimo ad essere narrati.
Al punto che l’autobiografia, di cui mi occupo, in particolare come esperienza
autopedagogica, è una risorsa, per ciascuno di noi, contro la solitudine.
Ci sono dei momenti, nel corso della nostra vita, nei
quali sentiamo che la narrazione da parte degli altri viene meno, si
affievolisce, si incrina. Quindi l’uomo e le donne che hanno ancora risorse e
voglia di sopravvivere, ricorrono, come la storia dell’autobiografia dimostra,
alla scrittura di sé, che comprende il diario, il memoriale, la poesia scritta
in modo estemporaneo, senza pensare al lettore. Hanno bisogno di sopperire ad
una situazione di difficoltà e di crisi e lo fanno, se hanno la fortuna di
saper leggere e scrivere, ricorrendo alla letteratura personale. Pensiamo agli
epistolari: ci sono persone che scrivono lettere al vento, senza indirizzarle a
nessuno. Queste non sono forme di disagio, di follia; sono forme invece di
natura autocurativa. Perché, all’insegna di ciò che ricordavo prima, il
racconto cura noi stessi: attraverso la narrazione noi ci prendiamo in cura, ci
accorgiamo che siamo vivi narrando e scrivendo.
Questo, nelle culture orali, accade spontaneamente;
ma nelle culture orali come la nostra, che soffrono di contesti di oralizzazione,
la dimensione narrativa entra in crisi. Nel momento in cui entriamo in un
ospedale, o in una casa di cura per anziani, i contesti di vita e di sofferenza
sono contesti in cui la narrazione viene meno. Mi soffermerò poi su questo
aspetto per presentare un’iniziativa che abbiamo lanciato da due anni nella
mia Università volta a formare dei volontari della narrazione proprio nelle
situazioni critiche.
Torniamo, dunque, a questo duplice valore
straordinario della narrazione: la narrazione ci cura, soprattutto quando è
autoferita, perché attraverso la narrazione autobiografica ci restituiamo noi
stessi, ci accorgiamo che la nostra mente si rimette in moto, ricomincia a
creare, a immaginare, anche se l’oggetto della nostra scrittura è passato. Da
un lato abbiamo la sensazione di nutrirci di noi stessi, della nostra storia,
delle nostre memorie; è una sorta di autonutrimento, di autoallattamento,
potremmo dire. Chi lo prova, sa a cosa mi riferisco. L’altro fenomeno
interessante, studiato da tutti gli psicologi dell’autobiografia, è
costituito dal senso, fertile e non drammatico, di sdoppiamento.
Diventiamo altri, altre persone, ci vediamo
raccontare e ci possiamo raccontare, sia in prima persona che in terza persona:
non siamo più soli, ma diventiamo due. Questo è il motivo per cui, in tante
situazioni di solitudine, naturale, oppure coatta, come ad esempio all’interno
delle carceri, oppure in certe istituzioni psichiatriche, o in contesti
residenziali per anziani, sempre più si sta diffondendo questa metodologia
narrativa. Le narrazioni servono, innanzi tutto, per domandarci chi siamo. La
domanda, magari, non è molto filosofica e magari non la pronunciamo nemmeno:
attraverso il racconto, viviamo questo stato particolarissimo, cerchiamo di
rappresentarci noi stessi. Ci chiediamo cosa stiamo facendo, oppure cosa abbiamo
fatto, quindi ogni narrazione è un sorta di bilancio, anche se non pronunciamo
questa parola. Inoltre, le
narrazioni cercano sempre il fondamento costitutivo di ogni storia, cioè la
coerenza e la continuità. In altri termini, ogni storia è tale se compare una
sorta di organizzazione: noi riorganizziamo la nostra vita, la nostra
esperienza, e attuiamo un approccio che ha molto a che fare con le terapie
formative di carattere meditativo. Stiamo parlando di meditazione autobiografica
e, in modo più specifico, di meditazione mediterranea.
La meditazione mediterranea è una forma di
narrazione: la tradizione mediterranea, anche meditativa, si è sempre avvalsa
di storie. La tradizione mediterranea non cerca la pura luce, che troviamo ad
esempio in certe modalità tipiche del misticismo orientale, ma parte dalle
storie di vita, parte dalle storie come queste si presentano, con le sofferenze,
i piaceri, i dolori, dal gusto semplicissimo di descrivere un evento, un
oggetto, una sensazione. È una narrazione particolarmente poetica, poiché ha
il senso dell’effimero, non rifugge dalla dimensione dell’effimero come
certe tradizioni mistiche, ma si concentra sulla vita, sulla propria vicenda
esistenziale quale essa sia ed è forse anche un’esperienza più malinconica,
più nostalgica. Ma anche questo ci può curare, perché quando raccontiamo la
nostra storia, inevitabilmente, viaggiamo nella dimensione della malinconia,
della sofferenza. La nostra tradizione mediterranea attraversa la sofferenza,
non rimuove la sofferenza, non dice “mi
annullo nel presente’”, come spesso la cultura orientale, ma dice “riattraverso,
ripercorro”. Pensiamo solo alle Confessioni di Sant’ Agostino, oppure
possiamo pensare alle Confessioni di Rousseau, nel ‘700, o anche ai saggi di
Montagné.
Al centro della tradizione mediterranea troviamo le
storie della nostra vita, storie che si sono incontrate e contaminate con quelle
degli altri. Potremmo continuare per ore a parlare di autobiografia, ma mi
fermerei qui, perché mi interessava soprattutto comunicarvi quanto la
narrazione organizzi gli eventi che viviamo, ma non li organizzi soltanto in
modo episodico. L’episodicità della narrazione è un emblematizzata dal
diario, che è un compagno di vita fondamentale, perché il diario è il luogo
del nostro disordine: un vero diario è il luogo dello sfogo, può essere il
diario di un adolescente, oppure il diario di una persona anziana. Comunque sia,
il diario registra la nostra quotidianità nel piacere di raccontarsi, senza
cercare la trama. Certo, se poi risfogliamo i nostri diari, ritroviamo il nostro
destino e la nostra trama.
Ma soprattutto il diario è il luogo della libertà;
la narrazione si fa più interessante nel momento in cui diventa totale, nel
momento in cui cerchiamo di uscire dalla dimensione episodica, e cerchiamo una
ricostruzione più sistematica, più ordinata, più regolata da quelli che sono
i tre motivi fondamentali di ogni autobiografia: la cronologia, lo spazio, i
personaggi. La cronologia, perché non ci può essere un’autobiografia non
scandita dai tempi della nostra vita, dai passaggi, dalle situazioni salienti,
importanti, ma che sono state collocate in un’ora.
La seconda condizione è rappresentata dallo spazio:
come possiamo raccontare un’autobiografia, se dimentichiamo i luoghi, le cose,
gli ambienti nei quali abbiamo vissuto, nei quali ci siamo anche modificati?
Il terzo motivo sono i personaggi: personaggi
incontrati, che continuano ad essere accanto a noi, oppure scomparsi per sempre,
che si rimuovono, che hanno rappresentato per noi i mentori della nostra
esistenza.
Queste tre condizioni sono fondamentali nella
narrazione autobiografica, perché altrimenti ci abbandoniamo, scivoliamo in
altre forme di narrazione, come la dimensione poetica. La dimensione poetica
sfugge a queste regole; certo, anche la poesia è attenta alla cronologia, allo
spazio e ai personaggi, ma nell’autobiografia il compositore deve rispettare
il cosiddetto ‘patto autobiografico’,
come lo definisce il più grande, forse, studioso di autobiografia
contemporaneo, Philippe Legion.
Il nostro patto autobiografico è un patto, da un lato con il lettore eventuale, dall’altro con noi stessi, come lettori della nostra storia. Questo patto, non è un patto di verità, perché l’autobiografia non cerca la verità, l’autobiografia è sempre una finzione. L’autobiografia è sempre legata a un movimento letterario personale, che si muove nella zona straordinaria dell’immaginario, anche se poggia poi su fatti e su esperienze realmente accadute.
Ma è questa la cura, in fondo: sviluppare
l’immaginazione, trasformare la propria storia di vita in un evento di natura
quasi letteraria. Nell’autobiografia rincorriamo la veridicità e questo è il
primo patto; non la verità, perché la verità non la possiede nessuno, e
tantomeno l’autobiografia, che tenderà a manipolare un po’ le cose, perché
c’è l’oblio, c’è la dimenticanza e quindi avrà bisogno di costruire
qualcosa di diverso, in fondo, da quelle esperienze realmente vissute.
Un altro patto, sempre secondo Legion, è che
l’autobiografico deve sempre muoversi all’insegna
di alcune categorie, di alcuni criteri particolari. Ecco quindi che la
narrazione cerca di costruire le trame: è la trama, il ‘plot’, per dirla all’inglese, che ciascun narratore cerca di
costruire o di costruirsi. Se non c’è trama, non c’è storia, c’è
chiacchiericcio, c’è racconto episodico, e questo ci dice che la ricerca
della trama diventa vicenda prettamente pedagogica, perché ci impone anche una
disciplina, un autocontrollo.
Se il diario ci impone solo una disciplina episodica,
cioè cerchiamo di scrivere questo testo, ogni tanto, quando ci interessa,
quando ne sentiamo il bisogno, la scrittura di sé sviluppa intelligenza
originale, particolarissima.
Il secondo punto, è la questione dell’identità;
la narrazione, ci conferisce identità, la narrazione ci rispiega chi siamo
stati e chi siamo, in questa declinazione autobiografica?, dobbiamo chiederci
oggi, in tempi d’incontro con altre culture, che io preferisco chiamare ‘storie’,
per enfatizzare la dimensione individuale all’interno delle culture diverse,
proprio per evitare il rischi di generalizzare.
Per me non ha senso parlare di cultura cinese,
giapponese, veneta o lombarda: siamo individui e abbiamo individui innanzi a
noi. È un approccio, quindi,
centrato sulla persona, come lo definì Carl Rogers, un grande maestro della
pedagogia. Se ci muoviamo alla ricerca delle identità collettive, cosa molto
sconsigliata dagli antropologi, e poi vedremo perché, commettiamo un grave
sopruso nei confronti di ciò che, francamente, non sappiamo.
Quando ci chiedono qual è la nostra identità
italiana, sarebbe bene sempre in presenza di altre lingue e di altre culture,
occuparci delle singole storie e interagire con esse. Perché abbiamo bisogno di
sfollare i volti, sfollare le soggettività per toglierle dalla confusività e
dall’anonimato delle folle. Per noi, un africano, un senegalese, uno straniero
in senso lato, ma anche un abitante del nostro belpaese, è folla, nel momento in cui non racconta la sua storia,
nel momento in cui non ascoltiamo le sue vicende.
Chi si occupa di educazione, di formazione, non può non essere attento, quindi, agli aspetti relazionali e alle necessità di ritagliare le storie e i volti e di ritrovare il piacere del volto dell’altro e del suo ritratto.
Pensate, ad esempio, quando veniamo fermati per
strada da qualcuno che ci bussa sul parabrezza e ci chiede la carità.
Provate ad osservarvi: la cosa che facciamo è girare
il volto dall’altra parte, perché non vogliamo vedere. “Non ci sei, non esisti!” Lo facciamo tutti, io per primo che mi
occupo di interculturalità e di stranieri da una vita; lo ammetto, è così.
C’è un volto, c’è presenza singolare, e quindi
il lavoro sull’identità chiama in causa non concetti generici e astratti, ma
un rapporto diretto immediato, che cerca l’ascolto della storia altrui.
Entriamo in questa importantissima e controversa
nozione e ci entriamo attraverso la lettura di alcune frasi, tratte da un testo
che chiunque intenda occuparsi di intercultura dovrebbe conoscere; è un testo
uscito di recente, di un grande scrittore libanese, Hamid Maluf, e si intitola
“L’identità”.
È un
testo che sembra cruciale, in primo luogo perché scritto da un autore che
proviene da un’altra tradizione e che ha saputo, in questo volume, superare la
sua vocazione letteraria e diventare un vero e proprio filosofo dell’idea di
identità nel terzo millennio. Proviamo a seguire solo alcune pagine e spero di
non annoiarvi.
Dice Maluf: “Da
quando ho lasciato il Libano, nel 1976, per trasferirmi in Francia, mi è stato
chiesto innumerevoli volte, con le migliori intenzioni del mondo, se mi sentissi
più francese o più libanese. Prima o poi, a uno straniero questa domanda viene
rivolta, e risponde invariabilmente ‘l’uno e l’altro’. Ciò che mi rende
come sono e non diverso, è l’esistenza fra due paesi, fra due o tre lingue,
fra parecchie tradizioni culturali ed è proprio questo che definisce la mia
identità. Sarei più autentico se mi privassi di una parte di me stesso, quindi
delle mie vicende, delle mie storie, che si sono compiute al di là del luogo,
il Libano in cui sono nato.
Naturalmente
l’identità non si suddivide in compartimenti stagni, non si ripartisce né in
metà, né in terzi. Non ho parecchie identità, con questo, ne ho una sola
fatta di tutti gli elementi che l’hanno plasmata secondo un dosaggio
particolare, che non è mai lo stesso da una persona all’altra”.
In sostanza, Maluf sostiene quella che è una verità fondamentale, che ciascuno ha osservato diventando ciò che è. Vale a dire che le nostre cosiddette identità personali non sono altro che forme di divenire. Certo noi manteniamo, soprattutto quando raccontiamo la nostra storia di vita a noi stessi, qualcosa della nostra infanzia. Ma noi non siamo più i bambini o le bambine che siamo stati, non siamo più gli adolescenti che siamo stati. Questione controversa, anche pericolosa, perché chi si occupa di educazione dovrebbe in qualche modo, lavorando con i bambini e gli adolescenti, non dimenticare il bambino e l’adolescente che è stato.
Quindi l’identità, dal punto di vista di
un’analisi nel corso del tempo, non può essere ciò che ci riconduce sempre
ad una identica sostanza. Nel momento in cui abbiamo la fortuna, come dice Maluf,
di attraversare una miriade di lingue, di culture, di incontri e di esperienze,
la nostra identità varia inevitabilmente, in rapporto a tutti questi incontri.
Dice ancora, Maluf: “In ogni uomo e donna si incontrano molteplici appartenenze, che a volte
si contrappongono tra loro e lo costringono a scelte penose. Se ciascuno di
questi elementi, cosiddetti identitari, può riscontrarsi in un gran numero di
individui, non si trova mai la stessa combinazione in due persone diverse. Ed è
proprio ciò che fa sì che ogni essere sia unico e insostituibile”.
C’è già, in questo, un’affermazione potentissima e l’importante è che venga da un immigrato; certo, da un immigrato colto, privilegiato, non dall’immigrato semianalfabeta che ci bussa sempre sul parabrezza della macchina.
Ma è comunque una testimonianza importante che ci
dice ancora che noi siamo tutti, indipendentemente dalle culture, delle identità
composite. Soprattutto oggi, in tempi di mondializzazione.
Il concetto di identità composita, di arcipelago
identitario, è un concetto credo oggi tra i più interessanti e i più
appropriati, perché scalza completamente le teorie sull’identità, di cui ci
siamo nutriti per molto tempo, che erano definite categorie identitarie. Le
identità cambiano nel tempo e nello spazio, si compongono, diventano degli
spartiti, letterari e musicali allo stesso tempo, diventano quindi il momento e
il luogo di una vera e propria narrazione plurale, corale.
Anche Fernando Pessoa parlava di identità plurime.
Fu l’inventore della cosiddetta teoria
degli eteronomi: non so se ricordate questo, ma Pessoa viveva in più mondi,
letterature, tradizioni, perché anche lui aveva fatto l’esperienza
dell’emigrazione dall’Africa al Portogallo.
Tutta la letteratura migrante, potremmo dire, è una
letteratura contrassegnata da ciò che Maluf ci sta ricordando. Perché noi ci
ancoriamo a una certa realtà, e allora possiamo a diventare fondamentalisti
islamici, o fondamentalisti cattolici, o fondamentalisti New Age, o Testimoni di
Geova.
Comunque, le contaminazioni sono inevitabili, le
interferenze sono inevitabili e se decidiamo di negarci alle interferenze
altrui, ecco che Maluf dice una cosa quanto mai importante e allo stesso tempo
inquietante, che concerne il rischio di collaborare ad una società che si
proietta verso una possibile deflagrazione ed un possibile conflitto. Perché la
risposta meticcia, la risposta quindi delle identità ibride e composite, è un
risposta democratica sul piano planetario. “Meticcio” deriva dal greco
antico “metis”, che significa
saggezza: meticciato, quindi, come capacità di riconoscere le molteplici
appartenenze, purché si enfatizzi la dimensione delle individualità.
Nel complesso dell’evoluzione della società
multiculturale è importante che ogni persona sia sempre più consapevole che,
per il passato della propria individualità, conta essere vari e multiformi, ma
anche consapevoli dei propri diritti e un po’ meno dei propri doveri. Più
attenti al proprio posto nella società, al proprio benessere, alla propria
salute, al proprio corpo, al proprio futuro, ai poteri di si cui dispone, alla
propria identità individuale. L’identità si costruisce all’insegna di
quella che anche Maluf definisce ‘l’era dell’individuo’.
La società degli individui è vista come risposta
all’era della massificazione, da qui la controtendenza, su cui mi sono
soffermato all’inizio dell’incontro, anche nella scuola: tanto più essa
tende a massificare, a fornire quindi programmi standardizzati, tanto più la
società degli individui è contro di essa.
E possiamo assistere a massificazioni, ovviamente,
all’interno delle culture più diverse, all’interno delle comunità più
differenti. “Mettere al centro
l’individuo, mettere al centro la persona”, ci viene ribadito da Maluf,
di religione islamica, e ciò vuol dire dare un contributo all’educazione alla
solidarietà, alla pace e alla democrazia tra i popoli.
La messa al centro della nostra individualità,
questo può sembrare contradditorio, non genera sempre comportamenti egotistici
ed egoistici. Mettere l’accento su tutto questo significa mettere al centro la
propria storia ed accorgersi che la propria storia ha senso se la rintracciamo
come storia che si è intessuta di storie altrui. Un autobiografo,
inevitabilmente scopre gli altri. Bisogna evitare di ritenere la scrittura
autobiografica un procedimento soltanto estetizzante e narcisistico. Attraverso
la propria storia, l’autobiografo si imbatte di nuovo in tutti quelli che
hanno popolato la sua vita; può ringraziarli, oppure continuare ad odiarli, ma
comunque sono popolo della sua esistenza.
Si accorge così che la sua cosiddetta individualità
può essere un’illusione; ma questo viene dopo, in primo luogo bisogna
enfatizzare la propria soggettività. A questo punto, lasciamo Maluf ed entriamo
nel terzo punto della mia scaletta.
Il terzo punto della mia scaletta è ‘narrazione
e interculturità’: vi premetto che c’è una differenza notevole tra ‘interculturalità’ e ‘transculturalità’.
Narrazione e intercultura: già la parola ‘intercultura’
evoca incontri narrativi, culture diverse, in questo caso individualità che
provengono da nazionalità diverse, che raccontano storie reciprocamente.
Intercultura significa rimescolare le voci,
rimescolare le lingue, vuol dire scambio, vuol dire ottemperare all’antica
tradizione dell’agorà, della
piazza, del mercato, dove ciascuno va a portare qualcosa per ricevere qualcosa
d’altro.
Possiamo servirci della parola ‘interculturalità’ e, ancora più, della ‘pedagogia intellettuale’ ogniqualvolta
il nostro lavoro educativo tende a favorire questo rimescolamento, questo
meticciamento, questa nuova saggezza tra mondi, tra esperienze, tra voci, tra
lingue. Ebbene, tutto questo oggi non si sta ancora realizzando. Possiamo
continuare a parlarne, possiamo scrivere libri, ma di pedagogia interculturale
ne vediamo ancora poca.
Vediamo molta pedagogia monoculturale, perché nel
momento in cui la scuola insegna a un bambino straniero la nostra lingua, non
avviene un’operazione interculturale, ma si travasa sul piccolo la nostra
storia linguistica e la nostra cultura.
Operazione importante e sacrosanta, anche perché i
bambini stranieri cercano soprattutto di mimetizzarsi con i loro compagni di
scuola, cercano di apprendere al più presto possibile un cultura che gli
consenta di integrarsi nella nostra società.
Questo non è meticciamento, ma è un vero e proprio
momento assimilatorio, di cui il bambino straniero ha un sacrosanto diritto.
Quindi dobbiamo anche evitare di insistere sul fatto che il bambino straniero ha
il diritto alla conservazione della sua lingua d’origine. Non è affatto vero,
perché nella stragrande maggioranza dei casi, a meno che il bambino islamico
abbia un padre particolarmente fondamentalista, è un bambino esposto
all’influenza dei nostri costumi. È un
bambino che assimila, e il suo bisogno è quello di nutrirsi di significati, di
modelli, che lo aiutino a crescere e a non essere in situazione di svantaggio
rispetto ai suoi compagni.
Quindi, la pedagogia interculturale c’è solo nel
momento, raro, in cui come educatori ci chiediamo: “Io sto fornendo un modello culturale, un modello di comportamento, ma
cosa sto prendendo in cambio?”. Nulla. È
vero, come dicono molti, che oggi i ristoranti indiani, arabi, cinesi, si
stanno diffondendo, ma non possiamo confondere l’interculturalità con questo
mercato a base di cous - cous; non credo ci sia uno scambio a questo proposito.
Io credo che, nella scuola, se non c’è una forte
mediazione interculturale, una forte vocazione interculturale da parte degli
insegnanti, che attingono al meglio di queste culture musicali, artistiche,
letterarie, lo scambio non possa avvenire.
Lo scambio può avvenire solo all’insegna di una
sempre maggiore conoscenza di mondi culturali altri, che non sono talvolta
assolutamente condivisi dai bambini e dagli adulti che vengono qua.
Quando c’è un insegnante, colto, che conosce ad
esempio quelli che sono i romanzi, o le tradizioni poetiche del Senegal, può
intervenire proponendo questa letteratura, che l’italiano non importa.
Questa esperienza artistica appartiene a mondi che,
altrimenti, non verrebbero assolutamente valorizzati, perché nelle stesse
famiglie di provenienza di questi bambini non sono valorizzati.
Abbiamo fatto un’indagine: nelle case, modeste,
degli stranieri, quale che sia la loro origine, non ci sono libri. Ci sono
casette cinematografiche, queste sì, ma i film che si fanno mandare sono, molto
spesso, le telenovelas: tradotte in arabo, o in altre lingue, sono partite
dall’Europa e qui sono tornate: che ‘tradizione
locale’ è mai questa!?
Non c’è più nulla. Questo è l’aspetto negativo
della mondializzazione, di cui Maluf parla con grande enfasi e con grande
acutezza. Possiamo quindi dare un contributo, facendo in modo che in queste
famiglie straniere, dove non entra nemmeno e non è mai entrata la parte
migliore della loro cultura, in qualche modo questa cultura entri.
Ecco, lo scambio, la pedagogia interculturale, può
essere questa. Non è soltanto il girotondo insieme, tra bambini di tanti colori
diversi, perché dobbiamo sempre porci questa domanda: “Io ti insegno qualcosa, ma tu cosa mi stai dando?”
Se non c’è una risposta, se c’è silenzio
dall’altra parte, io come insegnante colto, devo andare a cercare
testimonianze di quella cultura e riproporle.
La narrazione e la transculturalità: qui mi avvalgo
di un testo, che è uscito oramai qualche anno fa, e si intitola ‘Poesia
africana’. Raccoglie una preziosa letteratura che non conosciamo, di
poeti subsahariani di area francofona. È un
testo che vi propongo perché la poesia, come la letteratura, sono grandi
occasioni transculturali.
Passiamo, così, da interculturalità a
transculturalità: la prima, vuol dire, l’ho già ripetuto fino alla noia,
avere tradizioni diverse che si guardano, si ascoltano, si scambiano qualcosa, a
partire dalle reciproche differenze, a partire dunque da alcune distanze di
carattere religioso, spirituale, filosofico, artistico.
La transculturalità cerca ciò che può avvicinarci,
a prescindere da queste differenze, e la via dell’arte, della poesia, è
senz’altro il percorso elettivo privilegiato. Ritorno a questo volume e vi
leggo, di Patrik Caio, che è un poeta del Camerun, questi brevi versi: “Una
nebbia invano mi vela la tua faccia / attraverso la dissolvenza mi incammino
dietro di te / mai più nelle spine voglio danzare / né vedere baracche dopo
palazzo, carestia dopo abbondanza”.
Vi leggo quest’altra: “A lungo si parlò di te attorno ai fuochi / dopo le devozioni della sera
/ in queste case grigie / ove impassibile il tempo porta e scaccia volti
d’uomini. / Dopo il discorso cadde su altri / e i loro averi / ci furono
matrimoni, morti, nascite. / Il nostro rituale della vita / qualcuno,
forestiero, passò di qui e scomparve”.
Questo, invece, è lo scritto di Mario Luzi, tratto
da ‘Poesie’:
“Chi riconosce più lo scrittore
africano, dello scrittore di Firenze?”
Questa è la transculturalità, cioè riscoprire che esistono, indipendentemente delle latitudini del mondo, ‘cose’ che attraversano tutte le culture.
Quindi, io ritengo che nella scuola di oggi, ma anche
nel mondo, nelle stentate relazioni tra rappresentanti di mondi diversi, sia
indispensabile lavorare all’insegna della pedagogia transculturale, se non ce
la facciamo con quella interculturale.
Per dimostrare ai ragazzi quante corrispondenze,
quante identità ci sono, possiamo usare anche il cinema, ma non le telenovelas
tradotte in arabo... queste non servono a niente.
Abbiamo bisogno, quindi, di creare sensibilità
transculturali avviando l’incontro con quanto ci consente di dire : “Beh,
forse, non è vera quella storia, che sono sempre gli africani a raccontare, che
se pungiamo un nero, esce comunque sangue rosso”.
Quindi, non le differenze soltanto, non le distanze, perché se noi enfatizziamo un’attenzione per le differenze, corriamo il rischio di confermare le reciproche distanze.
Credo invece sia importante individuare le reciproche
contiguità, oppure le comunanze, per dare un contributo alla demolizione dei
pregiudizi, che sono sempre presenti dentro di noi e popolano ogni nostra
riflessione.
Volevo avviarmi alla conclusione, consigliandovi, se
già non lo conoscete, questo piccolissimo libro, di Demir Kuresci, quindi di un
altro autore straniero, di origine pakistana, che conosciamo per molti romanzi
straordinari che ci ha lasciato, come ‘Buddha
delle periferie’, poi libri di cui conosciamo anche la versione
cinematografica, come ‘My beatiful lambrette’.
Questo è un libro che si può leggere anche in una
scuola elementare, il titolo è “Da
dove vengono le storie. Impressioni sulla scritture”, delle Edizioni
Bompiani.
Segnaliamo qualche pagina di un autore che, come
Maluf, si muove alla ricerca non tanto delle differenze, ma delle corrispondenze
tra le diverse culture.
Innanzi tutto, vi propongo alcuni brani di lettura
tenendo conto di queste vicende, vissute dall’autore, che ha sperimentato la
propria scrittura tentando di darsi un’identità in Inghilterra, quindi
all’insegna del meticciato, in quanto suo padre era pakistano e sua madre
inglese.
Ci descrive, nella prima parte, la necessità,
innanzi tutto, della scrittura, e ci ricorda quella che definisce l’ossessione
di suo padre. Suo padre, immigrato dalla prima generazione, che era riuscito a
sopravvivere nell’immigrazione grazie a questa ossessione della scrittura.
Dice Kuresci: “Mio
padre voleva essere uno scrittore, non ricordo ci sia stato un tempo nel quale
non l’abbia voluto. C’erano poche mattine in cui non si mettesse seduto alla
sua scrivania, con indosso uno dei suoi abiti e una delle sue camicie colorate,
L’ossessione lo rendeva incompleto, ma lo spingeva ad andare avanti. Svolgeva
un lavoro, stupido e snervante, nella pubblica amministrazione e scrivere gli
forniva un traguardo a cui puntare”. Ma, soprattutto, scrivere lo
identificava, tra due culture, perché gli scritti di questo padre andavano al
ricordo e basta, e questi ricordi venivano contaminati dall’esperienza del
presente. Il padre di Kuresci non riuscì a pubblicare una riga, ma fu un
modello per il figlio, che invece ebbe ben altra sorte.
In un’altra pagina, troviamo una bella definizione
dell’identità narrativa. Dice Kuresci che le storie sono dovunque, e possono
essere nutrite delle cose più semplici. Il grande Cechov ci ha insegnato che è
nell’ordinario, nel quotidiano, nell’irrilevante, che accadono gli eventi più
profondi, più straordinari e emozionanti.
Queste osservazioni dell’ordinario sono legate
all’esperienza di ciascuno, all’universale, ed a ciò che significa essere
un bambino, un genitore, un marito. Cerchiamo dunque di riconcentrarci su quella
che, lo scrittore pakistano, definisce così: “L’arte
è mostrare come e perché siano significativi i fatti minimi e anche perché
possono sembrare assurdi gli altri”.
Una via, quindi, di ricerca della propria
identificazione narrativa attraverso, ancora una volta, le storie degli altri. E
prosegue ancora Kuresci: “È come se
vivessimo in più mondi differenti allo stesso tempo, nel mondo solito di tutti
i giorni, e insieme in quello incorporeo e fantastico”.
Qui ci ripropone la scrittura come luogo non solo di
radicamento, nelle cose, negli eventi, accanto alle persone, ma come luogo di
svicolamento, come luogo di fuga.
La scrittura, che viene ripresa e descritta
nell’ultima parte del libretto, ci riporta a queste conclusioni: “Una delle condizioni per essere uno scrittore è la capacità di
sopportare ed apprezzare la solitudine. A volte ti alzi dalla scrivania con
l’impressione che il tuo mondo interiore abbia più significato di quello
reale. Eppure la solitudine, la condizione di ogni lavoro creativo e
intellettuale che riveste una qualche importanza, non è qualcosa che ci viene
insegnato, né viene considerata una necessaria pratica umana. La gente spesso
evita la solitudine di cui avrebbe bisogno, perché si sente colpevole a
lasciare fuori gli altri. Ma è essenziale cominciare con te stesso, mettere da
parte del tempo per una tranquilla esplorazione nel tuo stesso interiore”.
Kuresci ribadisce il motivo che abbiamo ritrovato in Maluf, che abbiamo ritrovato nella ricerca dell’identità narrativa. Abbiamo bisogno di costruire, quindi, come esperienza potenzialmente interculturale, dei laboratori di narrazione autobiografica, narrazione di storie e di scritture.
Questi laboratori si stanno diffondendo anche nella
scuola secondaria superiore. Non so se ce ne sono anche qui, ma c’è una
domanda crescente da parte dei ragazzi.
A Milano abbiamo organizzato tantissimi laboratori di
scrittura, con studenti italiani e stranieri della secondaria perché è nella
scuola secondaria che quei bambini
che nascondevano quasi, alle scuole elementari e medie la loro identità, si
risvegliavano alla loro storia culturale.
È frequentissimo questo fenomeno: in adolescenza, ragazzi e ragazze di altre origini, hanno bisogno di ritrovare le loro radici. Non hanno più paura, come all’inizio, di evocare storie ascoltate in famiglia, storie di emigrazione, storie anche tragiche, difficili.
Questi laboratori sono tanto più importanti quando
questi racconti vengono raccolti e trasformati in sceneggiature, come abbiamo
fatto a Milano con il teatro; spettacoli a volte soltanto per sé, che hanno lo
scopo non solo di esibire i vissuti, ma soprattutto quello di intrecciare i
racconti.
Non dimentichiamo che dovremmo, parlando di
interculturalità, non solo evocare altri mondi, perlopiù a noi sconosciuti, ma
parlarne anche rispetto al rapporto tra generazioni diverse.
Non c’è solo l’intercultura interetnica, ma ce
n’è una che soffriamo nella nostra quotidianità, quando parliamo di
generazioni sempre più distanti, di ragazzi che non riusciamo a capire.
La narrazione ci riavvicina, come è dimostrato da
tante esperienze, soprattutto da quelle che vedono gli insegnanti sempre più
disponibili ad approfondire questo metodo, perché scoprono che il racconto
reciproco e la reciproca interazione tra storie hanno lo scopo di mostrare come,
nel corso della vita, siano tantissime le continuità, siano tantissimi i
momenti della nostra esistenza adulta che ci riportano all’adolescenza e
all’infanzia. Quindi non solo intercultura in rapporto a questi altri pianeti,
che sono ancora così sconosciuti, ma intercultura nella nostra quotidianità.
Domande del pubblico e risposte di Duccio Demetrio
Dom.
Lei ha detto che c’è molto bisogno di raccontarsi,
di narrarsi, ma forse c’è anche bisogno del contrario, quello di ascoltare le
storie degli altri. Forse la diffidenza nei confronti degli extracomunitari è
causata dalla mancanza di disponibilità all’ascolto delle loro storie?
Questo, perché accade, perché ci sono troppo storie intorno a noi? E, ancora,
perché ci si racconta preferibilmente in famiglia e non fuori; oppure, al
contrario, lo si fa di preferenza con gli amici?
Dom.
All’interno della scuola incontriamo proprio la
difficoltà che lei sottolineava, quella di proporre qualcosa ai ragazzi
stranieri che sono staccati dalla loro cultura: risulterebbe una letteratura,
una musica, un’arte estranea ai ragazzi italiani, ma anche a loro stessi. I
ragazzi, di solito, hanno già dei pregiudizi nei confronti degli stranieri. Lei
diceva di raccontare altre storie, in modo da far sparire questi pregiudizi,
invece noi siamo abituati a partire dall’esistente. Oggi i ragazzi tendono a
ridurre il linguaggio a poche parole, a volte comunicano tramite sigle, come ho
visto nella posta elettronica, dove usano simboli e simboletti, e della
narrazione non resta quasi niente, cosa può fare la scuola, non per demonizzare
questo tipo di comunicazione, ma per far capire l’importanza di un linguaggio
più ricco e fantasioso?
Dom.
Lei prima diceva di non enfatizzare le differenze. Ma
io penso che le differenze servano; ad esempio per capire che uno stesso
problema può essere visto da diverse prospettive e questo produce allargamento
degli orizzonti. Io sarei, insomma, per l’enfatizzare le differenze, in un
certo senso.
Duccio Demetrio
Il bisogno di narrazione è in crisi, diceva prima un
insegnante; sì, è vero, noi viviamo in un mondo in cui l’egoismo narrativo
è evidentissimo. La parsimonia narrativa è ricondotta, da molti autori, non
solo all’isolamento narrativo che noi viviamo, ma è confermata dalla presenza
nelle nostre case di veicoli tecnologici come la televisione e Internet. È una
parsimonia, direi, più che altro di relazioni umane, perché siamo comunque al
centro di forti esposizioni narrative, come mai si è verificato prima. Anche
perché le narrazioni che si possono realizzare in un piccolo borgo toscano, o
in un paese di campagna veneta, sono destinate a scomparire e, talvolta, non
hanno nulla a che fare con la narrazione.
Il “narrare”,
deve avere alcune caratteristiche. Non possiamo confonderlo con l’interazione
quotidiana; il narrare, per sua tradizione antica, genera processi di
cambiamento, genera stupore e fantasie, genera immaginario. Nelle culture
africane, la figura del narratore, del nostro vecchio cantastorie, continua a
svolgere la funzione del portatore di annunci, di eventi inusuali, di insegnante
di tradizioni. Oggi, questa figura è però in crisi e nella tradizione
narrativa si è impoverita la dimensione educativa e pedagogica. La narrazione
si è così privata di un aspetto, che è connesso con la possibilità di
continuare ad apprendere, ed è diventata qualcosa d’altro. Soprattutto oggi
la narrazione è spappolata, perché procediamo per frammenti e la
controtendenza autobiografica, che esiste nella scuola (non è un caso che si
stiano diffondendo questi corsi sull’autobiografia, o anche sulla scrittura
creativa) serve per ritrovare il piacere della trama. È la trama, quella che
oggi effettivamente è entrata in grande crisi. Quindi, per la domanda che prima
mi veniva rivolta, che riguarda l’uso di questi “messaggini” sulla posta
elettronica, direi che essi possono anche strabiliare alcuni autorevoli
linguisti.
Tullio De Mauro ne ha parlato come un miracolo di ritorno alla narrazione: certo, ci sono degli scambi, ma c’è anche un impoverimento incredibile della lingua. Non possiamo gridare al miracolo, se c’è qualche parola in più che affiora attraverso il telefonino, o anche nell’epistolario via Internet. È vero che una posta elettronica è da guardare con grande attenzione, perché comunque genera una narrativa fluente. Non so che dimestichezza avete con le scritture elettroniche, ma fanno venire il mal di testa, sono una sorta di diario infinito, di narrazione della quotidianità che non conosce mai soste. Un po’ come accade nel diario tradizionale, ma con un profluvio di racconti episodici, come quelli che captiamo in treno, ascoltando qualcuno che parla al telefonino: “hai mangiato; cosa stai facendo?”. Tutti questi strumenti hanno una funzione di controllo reciproco, ma questa non è una narrazione, perché la regola della narrazione è la costruzione di trame, è il piacere di entrare nelle trame degli altri, negli orditi degli altri. Con la scuola, io penso si possa fare molto, a partire da questo straordinario bisogno che hanno i giovani di narrazione intimistica.
Questi ragazzi, che non hanno storia, se non una
storia familiare, rintracciano questo bisogno di narrazione e di costruzione
della propria storia soltanto all’interno di vicende che talvolta ci sembrano
ancora estremamente puerile. Questo bisogno di narrazione di sé però va colto
con grande attenzione pedagogica, e riproposto, mettendo al primo posto il
principio che nelle scuole si deve creare uno spazio narrativo nel quale
l’insegnante non deve entrare.
La riscoperta della trama della nostra vita,
attraverso la scrittura, deve essere uno spazio di libertà e di conquista di
un’autonomia.
Sono assolutamente da sconsigliare quelle iniziative
di sviluppo della narrazione, a livello di temi personali, di racconti riferiti
al proprio mondo interiore in gestazione adolescenziale che, come tutti i ‘lavori’,
vengano poi sottoposti al vaglio degli insegnanti.
Perché se vogliamo curare e stimolare l’istinto
narrativo, che comunque esiste, dobbiamo essere attenti e rispettosi di questo
tipo di scritture. Credo quindi che si possano organizzare degli spazi di vera e
propria autonomia, dove ragazzi e ragazze risperimentano i diari personali, dove
hanno la possibilità di riscoprire che, imparare di letteratura, storia,
geografia, può avere una declinazione geografica e autobiografica e quindi
essere molto più interessante.
Noi ci lavoriamo pochissimo, a differenza ad esempio
della scuola francese, dove troviamo decine e decine di testi dedicati alla
letteratura biografica e autobiografica, testi che sono letti nelle classi,
perché avvicinarsi a un paese straniero attraverso una lezione, anche bella, di
geografia, non è come avvicinarsi allo stesso paese ascoltando magari il
racconto di un narratore che lo descriva parlando in prima persona.
Al di là di questo spazio laboratoriale, gli
studenti possono ritrovare la loro autonomia narrativa che vada oltre i
messaggini sul telefonino, dobbiamo aiutarli nel lavoro di ricostruzione delle
loro storie, sottoponendoli ad alcune domande, anche senza leggere quanto
scrivono. Domande che devono avere a che fare con i criteri, che ricordavo
prima, che compaiono all’interno delle storie, affinché siano tali: lo
spazio, il tempo, i personaggi. Si tratta di operare un restauro narrativo.
C’era una domanda sull’enfatizzazione delle
differenze: in certe circostanze, penso che la differenza debba essere
avvicinata, enfatizzata, ma c’è il rischio di rendere questo avvicinamento
soltanto curiosità. Questo, pure non è poco, ma forse non è sufficiente: io
entro nel tuo mondo, mi spieghi come sono le tue tradizioni; sì, è importante,
ai fini del meticciamento, ma credo che l’insistenza sulle reciproche
differenze rischi di consolidare certe distanze.
Mi piace di più, invece, pensare a dei ponti
attraverso le culture diverse, e ritorno alla domanda, che mi è stata fatta,
sull’utilità di partire dall’esistente: c’è un’esistente, quello
musicale, che i ragazzi frequentano moltissimo. La musica è un luogo
straordinario di meticciamento: prendiamo ad esempio solo il fascino che ha per
i ragazzi questo vituperato movimento che è la New Age. È
un movimento sincretico, che prende un po’ di cultura orientale, un
po’ di quella occidentale, un po’ di musica spirituale, un po’ di
letteratura esoterica. La New Age è il fenomeno transculturale più
significativo che ci sia oggi: forse siamo noi adulti, che apparteniamo
ad un’altra generazione, ad essere esclusi da questi movimenti culturali e che
cerchiamo ancora la tradizione, la purezza.
Perché noi non siamo, e invece i ragazzi lo sono
molto di più, dentro una vera e propria ibridazione. Al di là di tutte le
difficoltà che ci possono essere e dei luoghi comuni, credo che questa sia la
vera speranza: c’è una generazione che si apre di più di noi a realtà
multiculturali, anche se poi davanti all’immigrato che incontra per via,
magari ha atteggiamenti razzistici, di esclusione, di aggressione. Questo è uno
dei paradossi che stiamo vivendo tutti, per cui i giovani partecipano già a
processi mondializzati di acculturazione, non si rendono bene conto di quello
che ascoltano e di cui parlano, che sono già una manifestazione multiculturale
e transculturale.
Ma sopravvivono, dentro di loro, e anche dentro di
noi, pregiudizi che ci riconducono a quelle tesi riproposte da Bruner, cioè i
modelli mentali e di significato, che sono durissimi a dissolversi.
Questo è un paradosso con il quale dobbiamo per
forza fare i conti: siamo sempre più localisti, sempre meno narratori, ma allo
stesso tempo sempre più proiettati in mondi lontani; basta accendere un
computer o televisore.
Siamo in una situazione, quindi, di vera e propria
biculturalità: da una parte una cultura sempre più tradizionale, volta a
proteggerci; dall’altra una culturalità che guarda le altre. Penso che sia
estremamente positivo, perché, come dice Maluf, i rischi più grossi li
corriamo quando, per la paura rispetto al nuovo, consolidiamo la nostra cultura
di appartenenza, che è sempre inevitabilmente miope e chiusa. Quindi il
meticciamento è dentro di noi, anche quando non ce ne accorgiamo.
Dom.
Mi piacerebbe sapere qualcosa di più riguardo ai
volontari della narrazione, che operano nelle case di riposo, ed anche ‘sull’istinto
narrativo’, a cui accennava prima.
Dom.
Volevo chiederle se, in questa capacità di entrare
nelle trame altrui, lei pensa che ci sia una differenza tra il mondo maschile e
quello femminile, sia per quel che riguarda i ragazzi, sia tra gli adulti.
Dom.
Un’osservazione, rispetto al paradosso di cui
parlava prima: l’essere sempre più inseriti in questo villaggio globale ed
allo stesso tempo sempre più vicini al nostro mondo particolare. Credo che in
questo paradosso entri in gioco la mancanza del tempo per la rielaborazione, per
i ragazzi come per gli adulti. Il poter narrare se stessi agli altri, richiede
del tempo e, a mio avviso, anche dell’ozio: vorrei rivalutare i benefici
dell’ozio, perché mi pare che oramai questa sia una dimensione che riguarda
un’élite. Sono pochi quelli che hanno la possibilità di oziare, di pensare a
se stessi, e quindi di aprire la mente all’altro e capirlo un po’ di più.
Dom.
Quale sarebbe, secondo lei, la funzione della scuola,
in particolare nel discorso relativo alla scrittura del sé: l’insegnante
dovrebbe da un lato, abolirsi come adulto insegnante perché non è sufficiente
in relazione con l’adolescente; dall’altro lato, invece, è proprio questo
momento che andrebbe usato per fare leva sul racconto del sé. Che cosa vogliamo
che sia, l’insegnante? Non possiamo continuare a trattarlo come una
sottospecie che non può intervenire sui processi degli adolescenti, perché poi
li valuta, gli dà il voto, è repressivo. Penso che gli insegnanti dovrebbero
trasformare il rapporto scolastico ed educativo tramite i racconti del sé che i
ragazzi fanno, ma con lui, non senza di lui. Però ho l’impressione che
l’intera società preferisca spostare anche la scrittura creativa al di fuori
del rapporto tra l’insegnante ed i suoi studenti, invece secondo me deve stare
dentro lì e questo implica modificare gli insegnanti, altrimenti continueranno
ad essere comunque i ‘cattivi’.
Ricordo una cosa terrificante, che mi è capitata una
volta a Torino, alla fiera del libro. Una ragazza giovane che si alza in un
consesso grandissimo di adulti e dice: “Tutti
i libri che ho letto a scuola li ho odiati”. Questa è una cosa
accettabile, se detta dalla ragazza, quello che non accetto è stato
l’applauso immane in cui è scoppiata la platea, di centinaia di persone
adulte, al termine del suo discorso. Se questo fosse il problema, allora
basterebbe prendere la scuola e levarla; ma non credo che il problema sia
davvero questo.
Duccio Demetrio
Parto da queste ultime considerazioni: è
interessante quello che lei diceva al riguardo della scrittura del sé. Nei
laboratori che noi organizziamo, come Libera Università dell’Autobiografia,
vige una sorta di impegno etico: non è possibile che gli insegnanti che
intendono applicare la metodologia autobiografica, prima non seguano un percorso
destinato all’applicazione della narrazione autobiografica alla propria
storia. Il principio è semplice: innanzi tutto, l’autobiografia è una
pratica, non può essere soltanto descritta, ma va anche sperimentata, perché
se non sperimentiamo la scrittura del sé, non possiamo poi supporre di accedere
alla mente dei giovani e degli adulti che vogliamo sensibilizzare a questo tipo
di esperienza. Il primo passo è che gli insegnanti partecipino a momenti
laboratoriali dedicati, non alle loro autobiografie professionali, ma a quelle
personali.
Perché le autobiografie possono essere tante: oggi
abbiamo parlato di personalità plurima e ognuno di noi è una miriade di
storie, che trovano una loro specificità affettiva, amorosa, amicale,
professionale, etc.
Lo spazio della scrittura di sé, che deve essere in
qualche modo avvicinato all’insegnante, non va confuso con atteggiamenti di
carattere intrusivo, che portano ad usare la scrittura autobiografica nel modo
in cui veniva usata la scrittura diaristica dai genitori dell’800, cioè per
andare a vedere cosa fanno i ragazzi. In realtà, già allora le ragazzine,
furbe, scrivevano un secondo diario, nascosto nel sottofondo dei cassetti, che
era l’antidiario. Gli insegnanti, giocoforza, sono un po’ intrusivi.
L’altro problema, che ci induce a muoverci con
estrema cautela nei confronti delle scritture giovanili, è che l’insegnante
viene poi scambiato per uno psicologo. I ragazzi chiedono all’insegnante chi
sono, qual è il loro carattere ed a queste domande si può rispondere anche con
una psicologia spicciola.
Oggi abbiamo tutti delle conoscenze di psicologia
spicciola, ma non è questo il punto: gli insegnanti devono, in qualche modo,
intervenire, ma un conto è intervenire sui contenuti della narrazione, un conto
è avere insegnanti che conoscono un metodo per lo sviluppo della scrittura di sé,
che porti il più possibile i ragazzi a complessificare questa scrittura.
Perché altrimenti ci sono insegnanti che si
accontentano di queste scritturine, di questi messaggini, e considerando un
miracolo che gli studenti ricomincino a scrivere: non è sufficiente. Se
l’obiettivo è quello di educare la mente allo sviluppo logico, allo sviluppo
di certe intelligenze che oggi non vengono esplorate più di tanto, come
l’introspettiva e la retrospettiva, ma anche la contemplativa, è evidente che
le attività laboratoriali di scrittura del sé devono collocarsi all’interno
di un progetto di sviluppo della mente e del pensiero.
Io credo che l’educazione a pensare sia oggi la più
grande posta in gioco e stiamo perdendo, ancora una volta, una grande occasione.
Se la narrazione non serve a incanalare il pensiero, le strutture logiche e
quelle analogiche del pensare, allora alimenta l’istinto narrativo; ma questo
c’è già, si sviluppa anche da solo, indipendentemente dalla scuola. Perché
noi siamo persone - narratrici, siamo narratori in quanto persone, c’è
quest’istinto. Quindi, che cosa possiamo aggiungere, dal punto di vista
metodologico, alla scrittura di sé, perché diventi scrittura autoriflessiva?
La domanda che riguarda le differenze tra maschile e
femminile: sì, tra maschile e femminile c’è un’enorme divario, e se
leggiamo i giornali femminili vediamo che la scrittura femminile è più
abitatrice dei vari corsi e delle varie iniziative che si organizzano, perché
le donne hanno un istinto narrativo più evidente di quello maschile.
La narrazione femminile ripropone continuamente la
vita, l’esperienza, l’emotività, mentre quella maschile è più parca:
negli studi che abbiamo condotto, sia sui diari maschili che femminili, la
scrittura diaristica dell’uno e dell’altro sesso è diversa.
La scrittura diaristica femminile obbedisce a un
ritmo narrativo che potremmo paragonare ad un andante musicale, senza
interruzioni: si registrano gli episodi, le esperienze. le emozioni. Il diario
femminile viene usato, fino alla tarda età, come un vero e proprio alter ego,
per riscoprirsi, per riconoscersi, come un momento che non trova quasi mai spazi
per la riflessione di carattere concettuale. La scrittura maschile, invece, è
caratterizzata maggiormente dalla riflessione, quando c’è, anche di carattere
filosofico, perché il pensiero maschile è più orientato alla mappa, alla
sintesi, e purtroppo questo è l’aspetto negativo del pensiero degli uomini.
Tendono di più a chiudersi nei modelli mentali di
cui parlavo prima, tendono a saldare mentalmente ed anche ad ossificarsi e
quindi si adattano meno alle circostanze, alle novità, ai cambiamenti. Dopo un
lutto, è più facile trovare diari femminili, che diari maschili.
Tantissime sono le vedove che trovano nel diario un
momento di risarcimento, che viaggiano più facilmente nella memoria, nella
ricostruzione del coniuge scomparso. Si occupano della sua vita dal punto di
vista biografico, e questa è una funzione contenitiva del dolore, esercitata
dalle donne, che la psicanalisi spiega molto bene. In questo campo, c’è meno
scrittura maschile: mentre le donne esplicitano la loro sofferenza anche
attraverso la via narrativa, tra gli uomini la sofferenza è più muta. Gli
uomini, quindi, sono un mondo ancora da scoprire, anche se, come direttore
scientifico della Libera Università dell’Autobiografia devo dire che, dei
nostri primi trenta iscritti, ben sei
sono maschi.
Oggi manca il tempo per scrivere, ma il tempo della
scrittura autobiografica, per fortuna, è un tempo che ci portiamo appresso.
Nulla vieta che, in certi momenti della giornata, ricaviamo lo spazio per
scrivere in forma diaristica. L’attuale ministro per le Pari Opportunità,
Laura Balbo, riprendendo le grandi suggestioni di un sociologo e antropologo
francese, sostiene che per fortuna oggi viviamo di ‘non luoghi’, che sono le
sale d’attesa, le stazioni, gli spazi vuoti, che talvolta ci mancano.
La settimana scorsa e l’inizio di questa settimana,
non hanno fatto altro che fare esami, in continuazione: la sessione attuale,
quella di marzo, ha visto, per quanto riguarda il mio insegnamento, 760
iscritti, e continuerà fino a metà aprile.
Vi assicuro che oggi, nelle due ore di treno per
venire a Padova, ho vissuto un momento di grande libertà: questo è un ‘non
luogo’. A volte andiamo dallo psicanalista, anche se non stiamo troppo male,
perché la seduta dallo psicanalista è diventata un luogo di racconto; ad
esempio, perché lo psicanalista freudiano ci fa arrabbiare di più, rispetto a
quello junghiano: ma perché il freudiano sta zitto, e genera certe modalità di
elaborazione proprio perché sta zitto. Altri psicanalisti invece, sono molto
fecondi e non parliamo della terapia di gruppo.
Oggi, cerchiamo questi spazi e questi luoghi per
istinto narrativo, per trovare delle terze situazioni, quando non riusciamo a
narrare e a narrarci bene in famiglia e sul posto di lavoro. In questi casi, o
ricorriamo all’autobiografia, che costa pochissimo e vi consiglio, oppure
entriamo in corrispondenza via Internet, oppure andiamo dallo psicanalista,
perché pagando abbiamo la sicurezza che a quell’ora c’è qualcuno che ci
aspetta: è un momento d’ozio, indubbiamente, anche se lo psicanalista parla
di lavoro su di sé e dentro di sé.
I volontari della narrazione: l’anno scorso,
abbiamo costituito un gruppo che si chiama ‘Nemon’,
tradotto dal greco antico significa ‘scrivano’. L’obiettivo di questo
gruppo consiste nel fare una esperienza di volontariato nel settore
dell’emarginazione, in particolare un lavoro di strada con i migranti. È
appena uscito un libro, curato da me, che si chiama ‘L’educatore autobiografico’, dove raccontiamo queste
esperienze.
Si tratta di avvicinare persone che non hanno
l’abitudine della scrittura, si tratta di ragazzi o di anziani, ma sanno
ancora narrare. Lo scrivano intelligente, non si limita a raccogliere queste
storie per via orale, usando un registratore o degli appunti, ma fa in modo che
queste storie vengano poi riscritte, anche con uno stile letterario. La storia
di vita, a volte, viene avvilita da uno stile troppo realistico. Nell’arco di
qualche mese, queste storie vengono poi restituite, regalate, a chi le ha
raccontate. Si tratta di un gesto di solidarietà, che si inserisce
all’interno di quel bisogno di racconto di sé e di narrazione, che talvolta
nel mondo anziano rischia l’iterazione esasperata.
Abbiamo notato, invece, che l’avvicinamento di uno
scriba genera il ritrovamento di episodi, attraverso domande, sollecitazioni, a
partire anche da fotografie. Tutto questo permette uno svicolamento delle
modalità iterative quotidiane che si vivono nei luoghi di cura.
Le biografie che stiamo raccogliendo sono quindi la
testimonianza di storie di vita che diventano, quasi, storie erotiche e
letterarie, diventano romanzi.
Perché, come dice uno studioso di autobiografia
molto interessante, Foster, ogni storia di vita dovrebbe diventare un romanzo.
Quindi, il volontario di Nemon regala
alla persona, o alla famiglia, questi piccoli libri, che sono testimonianze che
restano e le biblioteche dovrebbero raccogliere, appunto per evitare la
dispersione.
Io so che a Padova ci sono dei progetti in questo
senso e quindi vi faccio gli auguri; forse sapete che, in Inghilterra ad
esempio, ogni biblioteca ha uno spazio dedicato alle storie delle persone.
Teniamo conto che in Inghilterra, come in Francia e nei Paesi Bassi, c’è più
tradizione autobiografica perché in questi paesi l’analfabetismo è stato
sconfitto prima e c’è una tradizione emancipazionistica di carattere
femminile che noi ancora non abbiamo.
Quindi ogni villaggio inglese
ha queste biblioteche, che conservano le storie delle persone. Stiamo
facendo qualcosa del genere, ad esempio, in un piccolo paese vicino a Cremona;
abbiamo creato il Museo Laboratorio della Memoria, dove abbiamo raccolto decine
e decine di storie di anziani, due anni fa. Molti di questi anziani sono
scomparsi, quindi se non avessimo raccolto le loro storie, sarebbero
testimonianze sparite per sempre.
Ma non ci siamo limitati a raccogliere le storie, in una ricerca che ora è stata pubblicata; abbiamo costituito dei laboratori, nelle scuole di questo paese e dei paesi vicini, perché oramai il paese sta languendo e sono rimaste circa un migliaio di persone, di un’età che varia da 60 agli 85 anni, e le scuole dei paesi attorno convergono al Museo della Memoria di Isola Dovarese, questo il nome del paese, facendo in modo che si creino incontri e occasioni di scambio di storie tra bambini, nonni e genitori. Ma a partire dalla formazione degli insegnanti che fanno, prima di tutto su di sé, autobiografia.
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