da "La Repubblica"

di Lunedì 25 Settembre 2000

Violenza razzista, c’è chi la coltiva

di MASSIMO D’ALEMA

AMOS LUZZATO, il Presidente dell’Unione delle comunità ebraiche in Italia, è un signore garbato e colto che ha vissuto in prima persona la vergogna del nazismo, del fascismo e delle leggi razziali. L’ho incontrato qualche mese fa a Palazzo Chigi. Era un colloquio programmato da tempo, cadeva nel pieno delle polemiche sull’Austria del dopo Haider eppure non ricordo di avergli sentito esprimere allarmismi o giudizi meno che ragionati sul nuovo clima che si respirava in Italia e in Europa. Tanto più mi ha colpito il suo commento all’aggressione di Verona dove, martedì scorso, tre giovani sconosciuti hanno insultato e malmenato un docente di origine ebrea. «Questo è il segno — ha notato Luzzato — che il livello di guardia sta per essere superato». Dopo il ’900, quando si affronta il capitolo dell’antisemitismo, non è frequente sentire simili espressioni. Credo, in particolare, che un intellettuale ebreo ne faccia uso soltanto quando sospetta davvero che il limite tra un atto di violenza individuale e il sottobosco culturale che lo legittima si assottigli sino a scomparire. Non mi sembrano parole dette con leggerezza insomma, tutt’altro. Hanno piuttosto il sapore dell’ammonimento e suonano come richiamo per tutti. D’altra parte, quando il più odioso dei reati — la brutalità verso chi non ha risorse e mezzi per difendersi — trova un terreno fertile dove attecchire, è sacrosanto chiedersi qual è il senso di quei soprusi, capire dove originano e a cosa mirano. Senza retorica ma pure liberandosi da una mentalità che tutto finisce col giustificare. Picchiare un uomo perché ebreo, e farlo lì dove benessere e ricchezza dovrebbero garantire un grado più alto di civiltà e rispetto, è un fatto in sé tragico e intollerabile. Non meno insopportabile è leggere che un autorevole esponente della destra, a suo dire per un difetto di vigilanza, ospiti sul proprio sito messaggi inneggianti a quel reato. Ma soprattutto a impressionare è la progressione di queste violenze, la loro drammatica escalation. Ieri è stato il turno di un ebreo. Prima di lui era toccato a zingari, barboni, immigrati. Possiamo davvero pensare che sia solo un problema delle vittime o delle forze dell’ordine impegnate ad agguantare i colpevoli? Temo di no. Penso che ignorare ciò che non si può ignorare sia una cattiva scelta. Per questo sono tra quanti guardano con angoscia crescente alle nuove fobie incuneate tra noi e al groviglio di omertà che le accompagna. Vedo un’involuzione grave, una regressione sconcertante dei valori della convivenza civile e di una democrazia esigente. Potrei citare una lunga sequenza di episodi, le tracce visibili di una violenza verbale (e non solo) che ci restituisce le atmosfere più buie del nostro passato. Sono una volta le parole di Bossi sui diritti degli omosessuali o l’inguaribile anomalia di un bambino adottato, un’altra l’attacco agli immigrati, alle loro famiglie, alla fede professata. Fatti isolati? Guasconate volgari e imbarazzanti? Attenzione, non è solo questo. E sbaglieremmo a ridurre, come farebbe chi non vuol vedere, il significato di questi segnali, anche perché non sono pochi né ghettizzati. La verità, quella più sgradevole, è che c’è oggi chi coltiva, colpevolmente, questa miscela di fanatismo e di intolleranza. Perché negarlo? Come smentire che i germi di un nuovo integralismo clericale trovano in questo clima maggiore ascolto, anche fuori dagli ambienti che li allevano? E’ una responsabilità in più di quanti nutrono una visione oscurantista e umanamente misera della società e dei suoi attori. Ma è davvero così? Siamo improvvisamente attraversati da pulsioni che rinnegano d’un colpo tradizioni antiche di ospitalità, tolleranza, rispetto per chi è diverso o viene da lontano? C’è chi trova ragione di questa diaspora di valori in un mondo che si restringe, dove le distanze si accorciano e la corsa verso il benessere produce migrazioni sempre più consistenti. La vecchia lotta per sopravvivere insomma corredata — questa la novità — dal convivere sotto lo stesso cielo (e nelle stesse città) dei ricchi residenti e dei nuovi esclusi. Sarebbe proprio questa strana combinazione a stimolare il ritorno alla passione per il sangue e il suolo, a fare rivivere l’impulso a considerare nemico tutto ciò che non è di razza, lingua o religione affine. La politica da sempre coltiva in seno culture, fortunatamente oggi minoritarie, che hanno tentato di rappresentare e dirigere queste animosità. Storicamente è stata la destra — quella di impronta più radicale e intollerante — a fare del nazionalismo il tratto forte di un’identità debole. Il problema si ripresenta oggi con qualche novità. In primo luogo la difficoltà delle culture moderate a intercettare umori e risentimenti che investono, in larga parte, il loro stesso blocco sociale e di consenso. Cresce — questo è il punto — un nuovo estremismo anche sul piano elettorale come dimostrano l’Austria, la Germania e il successo del Fronte Nazionale in Francia. Si tratta, quasi ovunque, di movimenti apertamente reazionari che non fanno mistero di ispirarsi alle pagine peggiori della storia europea del secolo passato. Eppure raccolgono un consenso crescente sottraendo rappresentanza e forza elettorale al conservatorismo classico. A questa sollecitazione e alle sue implicazioni (che sono politiche, di civiltà e persino di coscienza) il campo moderato ha risposto con chiarezza che i valori costitutivi della civiltà europea rappresentano una discriminante insuperabile. E’ la ragione che non consentirà mai a Chirac di allearsi con Le Pen o alla Cdu di stringere patti con i neonazisti tedeschi. L’Italia, purtroppo, mostra in questo ancora una volta il suo ritardo, stretta com’è nella morsa di una destra che si candida a governare il paese esibendo verso immigrati, gay e minoranze, linguaggio squadrista e muscoli d’acciaio. Ma di questo in fondo si è già parlato molte volte ed è una realtà — ahimé — che i cittadini conoscono fin troppo bene. Più delicata invece, mi permetto di osservare, è la riflessione sull’ambiente culturale entro cui tutto ciò sembra collocarsi. Il fatto in particolare che un progressivo degradarsi della vita pubblica, del suo vocabolario, dei suoi stessi principi regolatori, sia sponda di un impoverimento culturale più vasto ed allarmante. Mettiamola pure così; non credo onesto infliggere il crucifige alla politica (o a parte di essa) se non si coglie insieme il radicarsi di un’etica superficiale, una funzione povera della cultura, una comunicazione ridotta spesso a registrare il nulla o l’eccesso facendone l’unica bandiera dell’ascolto e del consenso. Non sono tra quanti protestano contro tutto questo. Né posso concepire, per cultura e formazione, che sia la censura (e quale poi?) a risolvere la questione. E però credo giusto interrogarsi su cosa oggi è divenuta la cultura di massa — e una certa industria culturale —, su quale griglia di valori si formano le opinioni, i gusti, le preferenze di milioni di persone. E’ un problema che riguarda la politica, tanto più in Italia dove — come è noto — uno dei soggetti in campo coincide nella sostanza con il più grande gruppo privato che opera in questo settore. Se ne parla poco, anzi per nulla, mentre forse il tema meriterebbe un’attenzione diversa. Guardiamo, sono per un istante, al dibattito esploso in questi giorni intorno al programma di punta della televisione di Berlusconi. Personalmente confesso di non comprendere, se non dentro una logica che mercifica qualunque cosa, il senso di un’esibizione pubblica di sentimenti individuali e privati. Nuove polemiche mi pare siano sorte per alcune scene più spinte e — così pare — necessarie a salvaguardare l’audience della serie. Lascio ai critici di mestiere il giudizio sul prodotto. Ma colpisce — lo confesso — che due persone adulte, riprese da una telecamera, s’appartino dietro un divano (per denaro, fama, piacere?), si sottraggano a sguardi indiscreti (puro non sense in uno studio televisivo) per trovare un attimo di privacy. Perché si fa? E per chi soprattutto? Perché può piacere? Ma basterebbe questo a farci riflettere su una certa povertà di sentimenti e — via, diciamolo pure — sull’incredibile pigrizia e banalità di esseri umani che preferiscono specchiarsi nel falso piuttosto che godere del vero. Perché l’industria culturale ci guadagna? E’ una ragione legittima ma non meno esposta ad un rilievo sull’etica del profitto. Ripeto, il punto — almeno per me — non è tra il fare e il non fare. Ma è difficile tacere l’aspetto simbolico della vicenda. Lo stesso signore che da proprietario di quella Tv (perché tale egli è, non scordiamocelo) elargisce amplessi a concorso, poi si affaccia dai muri delle nostre città perorando — da uomo di governo — i valori della famiglia, della morale, della solidarietà e della ricchezza delle relazioni umane. Dov’è la coerenza in tutto questo? La politica non è un contenitore vuoto ma una sintesi di principi, convinzioni ideali, valori etici. Quale concezione ha il leader del Polo di tutto ciò? Insomma chi è davvero Berlusconi? E’ l’imprenditore che si è fatto da sé, che acquista il format di maggiore successo e lo trasmette sulle proprie reti (anche se domani fosse la candid camera sulla caccia al negro)? Oppure è lo statista moderato, coerente, che ha scelto la politica e ne accetta le regole e, soprattutto, le responsabilità? Anche questo, si badi, è un aspetto di quel conflitto d’interessi che mette capo ad una grottesca "doppiezza" tra moralismo e volgarità. Possibile che la questione non interessi nessuno? In fondo ne va della serietà — direi davvero della maturità civile — di un grande paese come il nostro. Poi — è del tutto evidente — siano gli elettori a giudicare, e quanti condividono questa insopportabile ambiguità facciano liberamente la loro scelta. E però — mi sia consentito dirlo — c’è qualcosa che va al di là di un voto per gli uni o gli altri, ed è la dignità con la quale si conduce una battaglia politica, la cultura e la civiltà alle quali ci si ispira. Il problema è che le relazioni umane e sociali — come molti altri aspetti della nostra vita — sono figlie del clima e della mentalità che noi tutti contribuiamo a formare. Più che un’opinione è un dato di fatto, una considerazione storica. Spetta dunque anche alla politica farsi carico, almeno in parte, dello spirito civico del tempo. Non in forme dirigistiche o censorie che la condannano a perdere ogni egemonia e a supplire alla sconfitta delle idee con il solo esercizio della forza. Ma rendendo evidente che lo smarrirsi di una più forte coesione delle nostre società, il loro ripiegarsi in se stesse e disgregarsi, nasce anche — non esclusivamente, ma anche — da una fragilità culturale, da un vuoto di significati e da una spiritualità — l’espressione non appaia inadeguata in bocca ad un laico — che sempre più tende a rinchiudersi in riserve dove chi sceglie di entrare viene accolto ma chi rimane fuori finisce col rappresentare un avversario. E’ questo un tema, credo, che dovrebbe interrogare anche i cattolici o per lo meno quanti tra i credenti — e sono la maggioranza — vivono la fede come dono e apertura verso l’esterno e l’altro da loro. In questa cornice compito della politica è indicare un messaggio forte di coerenza e, su questa base, ricercare le vie che salvaguardino la società dal rischio di ridursi a somma di integralismi o arena di conflitti. E’ qui uno dei valori alti della cultura, dello spirito civico, di un’etica condivisa. Ed è qui il senso della stessa coerenza dei comportamenti individuali. Se questi ambiti torneranno ad assolvere il ruolo proprio — tenere unite società che spontaneamente tendono a dividersi e confliggere — allora è probabile che culture violente non trovino eco maggiore di quella avuta finora. Ma raggiungere questo obiettivo è una responsabilità collettiva, non di una sola parte. Ciascuno, dunque, guardi a se stesso e forse ciò servirà a capire meglio tutti insieme qual è la strada giusta da imboccare. --------------------------------------------------------------------------------