UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI VERONA
CENTRO STUDI INTERCULTURALI – Dipartimento di Scienze dell’Educazione



“Media e comunicazione interculturale nell’era della globalizzazione”

Maurizio Corte


In questi ultimi mesi, la Seconda Guerra del Golfo ci ha riportato in tutta la sua evidenza il ruolo dei mass media. E l’ha fatto in una fase della nostra Storia in cui alla globalizzazione dell’economia si è accompagnata giocoforza quella della comunicazione. Le ricerche, di recente pubblicate, sull’utilizzo dei media l’11 settembre 2001, il giorno degli attentati negli Stati Uniti, hanno poi messo in luce il bisogno quasi fisico del ricorso ai mezzi di comunicazione: una vera e propria corsa all’informazione, per capire cosa stava e cosa sta succedendo; una ricerca dell’immagine televisiva soprattutto per vedere cosa accadeva, e nel contempo la lettura attenta dei giornali per avere delle spiegazioni, delle interpretazioni.

Stiamo tuttavia attenti a non cadere in un errore: quello di ritenere che solo la comunicazione mediata da Tv, radio e giornali sia stata e sia l’attrice dell’interdipendenza conoscitiva e informativa fra i singoli e fra i gruppi sociali, là dove vi è una situazione di stress: mi riferisco a una guerra, a un attentato terroristico, a una catastrofe naturale.


Lo scorso mese FrancoAngeli ha pubblicato un libro curato da Mario Morcellini, direttore del dipartimento di Sociologia e Comunicazione all’Università La Sapienza di Roma. “Torri crollanti. Comunicazione, media e nuovi terrorismi dopo l’11 settembre”, questo il titolo del libro. Ebbene, i risultati di una ricerca condotta su un campione rappresentativo della popolazione italiana e mirata a conoscere come e attraverso quali mezzi il pubblico dei media ha avuto notizia degli attentati terroristici negli Usa, hanno rivelato quanto segue: “Nel ciclo di diffusione di una hard news ad altissimo grado di imprevedibilità e rilevanza pubblica, un posto di assoluto primo piano è spettato al passaparola tra amici, colleghi, conoscenti e addirittura sconosciuti. Il passaparola – sia faccia a faccia, che attraverso la rete telefonica fissa e mobile – si è confermato un canale cruciale per l’iniziale acquisizione della notizia e ha continuato a esercitare un importante funzione di rassicurazione rispetto all’allarme”.

“D’altra parte”, prosegue la ricerca curata da Morcellini, “la guerra tra media fa emergere ancora una volta come la superpotenza Tv, ben lontana dal suo declino, si confermi il mezzo più esaustivo, immediato ed efficace a cui rivolgersi per seguire i fatti in diretta, verificarne i particolari e ottenerne conferma”.

Ad un analogo risultato era arrivato Bradley Greenberg in uno studio condotto nel novembre 1962, nei dieci giorni successivi all’assassinio del presidente americano John F. Kennedy. Anche in quel caso, la comunicazione interpersonale aveva svolto un ruolo centrale nella diffusione della notizia, mentre la televisione e poi i giornali avevano effettuato quello che nello studio di Morcellini viene definito il “massaggio mediale”, consolatorio e di rassicurazione di fronte a eventi tanto stressanti per la pubblica opinione. Entrambe le forme di comunicazione, quella interpersonale e quella di massa, hanno infine svolto il compito di fornire conforto, condivisione, partecipazione e di ridurre il senso di incertezza prodotto dall’evento inatteso.
Non dimentichiamo – per ritornare alla guerra in Iraq - come il movimento pacifista, sia nato nei mesi scorsi più sul tam-tam della comunicazione interpersonale, dell’esposizione delle bandiere Arcobaleno, delle manifestazioni di piazza, che sull’uso di un medium di massa.


Possiamo allora affermare, alla luce delle ricerche svolte sia nel 1962 che nel 2001, che nell’intreccio fra comunicazione interpersonale – diretta o mediata dal telefono e dagli Sms – e comunicazioni di massa sta la chiave per capire che cosa accada nell’era della globalizzazione quando l’opinione pubblica è sottoposta allo stress di un evento imprevisto o, se pure previsto, di un evento comunque doloroso e preoccupante.

Vorrei ricordare qui una fra le teorie più importanti delle comunicazioni di massa. Una teoria ormai dimostrata e consolidata e che fa parte del patrimonio scientifico degli studi sui mass media e sulla loro influenza sull’opinione pubblica: la “Teoria della Coltivazione”. Alla fine dei suoi studi sull'impatto della violenza televisiva sulle credenze degli individui, George Gerbner è arrivato alla conclusione che i contenuti della televisione "coltivano" le credenze delle persone. E ha dimostrato che almeno una parte degli individui che guardano spesso la televisione sovrastima il livello di violenza del proprio quartiere e teme in modo esagerato di esserne colpita direttamente. "Nonostante le controversie che ha generato, e indipendentemente dal fatto che sia o non sia una reinvenzione, con nuove etichette, di una ruota teorica più che assodata, la teoria della coltivazione rappresenta una soluzione promettente per affrontare l'antica questione di come acquisiamo le nostre conoscenze e di come esse guidano il nostro comportamento", come affermano DeFleur e Ball Rockach nel loro testo “Teorie delle comunicazioni di massa”, edito in Italia dal Mulino.

"Il contributo delle comunicazioni di massa al nostro sistema di significati condivisi è tanto complesso quanto profondo. In questo senso, le funzioni che i media svolgono nella trasformazione del comportamento del pubblico sono a lungo termine, sottili e cumulative (...). L'agire individuale è determinato dai significati attribuiti al mondo fisico e sociale", osservano ancora DeFleur e Ball Rockach. I mezzi di informazione rivestono un ruolo fondamentale nella nostra società soprattutto in presenza di una condizione: che i fatti, le testimonianze, le storie di vita, i personaggi siano lontani dal fruitore (il pubblico) del messaggio radiofonico, televisivo o su carta stampata. In questo modo tutte le informazioni che il fruitore riceve si fondano su quanto il mezzo di comunicazione trasmette: non vi è la possibilità di una verifica pratica, di un confronto, di un'analisi critica dei contenuti trasmessi.

Non dobbiamo tuttavia credere che fra l’esposizione ai media e le idee e i comportamenti del pubblico vi sia un rapporto di causa-effetto. Su questo la letteratura scientifica è ormai chiara e non lascia spazio a dubbi. A questo proposito, dobbiamo ricordare quanto sottolineano le teorie dell’influenza selettiva dei mass-media: fra l’informazione-stimolo e la risposta del pubblico vi sono una serie di variabili intervenienti che modificano la relazione. Quali sono queste variabili? Le differenze individuali, le categorie sociali e le sottoculture a cui appartengono i fruitori dei messaggi mediali, le relazioni sociali che quei fruitori intrattengono. Per dirla in linguaggio corrente, non tutti i lettori di un giornale o gli ascoltatori di un notiziario radio-tv sono – per fortuna – uguali; e non tutti rispondono allo stesso modo alle stesse sollecitazioni.


Questo è il quadro teorico entro cui possiamo collocare l’influenza dei media, sia quelli di massa che quelli per la comunicazione interpersonale (telefoni cellulari, la Rete attraverso le e-mail), e il loro ruolo in una società complessa e articolata come la nostra. Il più volte citato “villaggio globale” di Marshall McLuhan è quindi un qualche cosa di complesso, di composito, fatto sì di interdipendenza nella comunicazione ma anche di specificità culturali. Da un lato in centinaia di milioni nel mondo vediamo in contemporanea le stesse immagini trasmesse dalla Cnn o da Al Jazeera, la Tv araba novità assoluta di questa Guerra del Golfo (per non dire dell’informazione sul terrorista Bin Laden); in milioni leggiamo le stesse notizie, pur se trattate, esposte e confezionate nel notiziario giornale-tv-radio-sito web in maniera differente.
Diversa è però l’interpretazione che diamo di quelle immagini e di quelle notizie.

Vi voglio citare a questo proposito un esempio, semplice e che tutti conosciamo. La caduta, mercoledì pomeriggio 9 aprile 2003, della statua del sanguinario dittatore Saddam Hussein, trascinata a terra da un carro armato americano fra gli applausi delle centinaia di irakeni lì attorno. Immagino che tutti noi l’abbiamo vista quella scena, chi in diretta Tv a metà pomeriggio, chi nei notiziari televisivi della sera.

Un gesto ha colpito centinaia di milioni di persone, di telespettatori in tutto il mondo; un gesto importante, ma anche improvvido, sbagliato pur se comprensibile. Il gesto del caporale Edward Chin che copre la faccia dell’enorme statua di Saddam con la bandiera degli Stati Uniti d’America. Lo stesso gesto è stato interpretato da milioni di americani e non-americani come il segnale della Liberazione dell’Iraq dall’oppressore; anche a noi ha richiamato per qualche minuto l’arrivo dei soldati americani e la Liberazione dal nazifascismo.

Non so voi, ma appena ho visto quel gesto, ho capito il grave errore commesso dal caporale Chin. Se ne sono accorti anche i comandi militari americani, che hanno subito fatto togliere la bandiera Usa e fatto mettere quella irakena.

Il segnale di Liberazione, perché così l’hanno vissuta milioni di cittadini statunitensi e forse anche europei, è stato interpretato da tanti altri milioni di cittadini arabi ed europei come il gesto di un invasore che con linguaggio “analogico”, comprensibile da tutti – per usare un’espressione cara agli studiosi di linguistica - voleva affermare: “Saddam è caduto, ora qui comandano gli Stati Uniti d’America venuti a portare la loro democrazia, i loro ideali, i loro valori, il loro potere”.

Noi non sappiamo cosa avesse nel cuore il caporale Chin. Ha eseguito degli ordini, ha fatto il suo dovere e ha fretta di tornare a studiare all’università e di chiudere con la guerra, come ha dichiarato poi ai giornali. Ebbene, uno stesso gesto, una stessa immagine, hanno prodotto due opposte interpretazioni. Due interpretazioni opposte frutto di differenti culture, di differenti sensibilità, di differenti modalità di leggere il messaggio.

Ecco allora la domanda che ci dobbiamo porre. In un mondo che seppur globalizzato - nei commerci, nei traffici, nell’economia e talvolta anche nei gusti – mantiene salde le specificità, le articolazioni culturali, le identità religiose, di valori, di storia, quanto sono pronti i media a recitare un ruolo di ponte, un’occasione di confronto? Quanto sanno trasmettere gesti e informazioni, contenuti e relazioni rispettosi delle differenti sensibilità? Notizie e commenti non equivoci e non forieri di tensioni, incomprensioni, conflitti? Quanto sono in grado di attuare una “comunicazione interculturale”?
Dove per comunicazione interculturale non intendiamo soltanto uno scambio di messaggi fra culture differenti, fra società diverse, fra persone di differente etnia e portatrici di valori diversi. Per comunicazione interculturale intendiamo, almeno a livello di mezzi di comunicazione di massa - un sistema dei mass media in grado di rispettare le diverse posizioni, di rispettare le differenti culture, di coglierne ed esprimerne le sfumature, le costanti di fondo, i cambiamenti. Un sistema dei mass media pronto a favorire il dialogo, la comprensione, il rispetto reciproco, la difesa delle regole di convivenza, l’accoglienza, l’ascolto verso gli altri, la conoscenza scevra da pregiudizi e stereotipi. Un sistema dei mass-media che sappia fare tesoro e applicare nelle routines produttive, giornalistiche quotidiane le acquisizioni dell’educazione e della Pedagogia interculturale, approfondite e richiamate nei saggi e nelle opere dei due relatori che mi hanno preceduto, il professor Secco e il professor Portera.
Credo che il ruolo dei mass media sia di far tesoro di queste acquisizioni che sono ormai patrimonio scientifico dell’educazione interculturale e della pedagogia interculturale per porsi in maniera differente rispetto a una società, a un mondo pluralistici, multiculturali, complessi e articolati pur in un sistema globalizzato dove le varie componenti interagiscono, si influenzano e sono strettamente collegate e correlate.


Sono i mass media pronti a fare della comunicazione una comunicazione interculturale? Stando – e mi limito al panorama italiano – alle ricerche degli ultimi anni, la risposta è negativa. Basti leggere i dati e i giudizi che sui media di massa vengono dati da studiosi e istituti di ricerca a proposito dell’immagine degli immigrati sulla stampa italiana. La società italiana dell’ultimo decennio, nelle sue articolazioni culturali, multietnica e multiculturale rappresenta in piccolo quello che è il più grande sistema-mondo, con le sue tensioni, i suoi contrasti, le sue dimenticanze verso certe culture e certe popolazioni, ma anche le sue occasioni di dialogo.

Ebbene, afferma Grossi nel testo “Mass media e società multietnica”, edito da Anabasi nel 1995, “Vuoti di analisi, assenza di approfondimento, copertura spesso di routine, scarsa attitudine alla descrizione del contesto, sono tutti elementi della trattazione giornalistica che ricorrono stabilmente, quando non convivono anche con strategie simboliche che penalizzano (vedi l’Islam) quelle stesse realtà socioculturali che sarebbe nell’interesse di tutti conoscere bene per poter dialogare e interagine con esse”.

Una ricerca condotta dal Censis nel 2002 sull’immagine degli immigrati nella stampa italiana (informazione e fiction televisiva, per la precisione) sottolinea testualmente: “Sebbene non si possa sostenere che la televisione proponga, a proposito di immigrati, stereotipi e rappresentazioni esplicitamente razziste, resta il fatto che il tipo di notizia, il contesto, l’angolatura della notizia trasmessa finiscono con il favorire una rappresentazione piatta e appunto stereotipata. Inoltre, la prevalenza della dimensione puramente descrittiva, di cronaca, lascia un senso di incompiutezza, come se mancassero le energie interpretative, le categorie stesse per leggere e restituire una fenomenologia nuova nella sua complessità e ricchezza di dimensioni. In questo senso, la televisione pare venire meno ad un ruolo, che pur svolge rispetto ad altri temi, di approfondimento e in un certo senso di accompagnamento nell’elaborazione dei fenomeni e nella comprensione e conoscenza della realtà”.
Anch’io nella mia ricerca pubblicata sul testo “Stranieri e mass media”, edito da Cedam nel novembre 2002, ho rilevato qual è l’immagine dell’Altro immigrato, persona di differente etnia e cultura, trasmessa dall’agenzia di informazioni Ansa, che è la fonte primaria dei giornali italiani. “L’Altro è estraneo, diverso, non meritevole di attenzione, di conoscenza, di accoglienza e di dialogo interculturale. Non ha niente di buono, di positivo da portere con sé; è spesso rappresentato come una minaccia alla nostra sicurezza; ha caratteristiche che possono portarci a compiangerlo; ha spesso i connotati della delinquenza; quando è vittima dello sfruttamento economico di cittadini italiani senza scrupoli non viene quasi mai messo nelle condizioni di dare voce alla sua protesta”. Insomma, “la cultura dell’Altro straniero, immigrato, di differente religione o condizione sociale non è ancora meritevole di approfondimento; così come non si dà adeguata evidenza all’opera di dialogo interculturale svolto dalla scuola, ai fondamenti teoretici e ai valori della Pedagogia interculturali”.

Ecco, allora, la necessità di partire da questi dati di fatto, dalla realtà di mass-media che sono impreparati a misurarsi, a leggere e interpretare una società complessa e composita, per fondare una serie di principi, di pratiche operative, di routine informative differenti da quelle attuali. Come farlo è uno degli impegni che a livello di Centro Studi Interculturali ci stiamo ponendo, forti del grande lavoro svolto da tanti studiosi nell’ambito dell’educazione e della pedagogia interculturali.


Certo, oltre ai progetti di ricerca, mi girano personalmente nella testa – inevitabile visto che sono un giornalista – tante domande sulle ragioni di questa impreparazione dei mass media, almeno di molti media italiani, ad esercitare una comunicazione interculturale, rispettosa delle altre culture, capace di conoscere, di spiegare, di interpretare oltre che impegnata a favorire il dialogo, la convivenza pacifica, la crescita e l’interscambio. Perché tutto questo accade? Per un’insufficienza culturale e professionale di chi opera nell’informazione, giornalisti e operatori radio-tv? Per ragioni ideologiche? Per ragioni politiche? O per altri motivi?