UGUAGLIANZA E DIFFERENZA: IL CASO DELL'INSERIMENTO IN UNA SCUOLA ELEMENTARE DI BAMBINI ZINGARI E STRANIERI

di Anna Rita Calabrò
Sociologa, consulente dell'IPM (Istituto Penale Minorile) di Milano. Autrice del libro Il vento non soffia più. Gli Zingari ai margini di una grande città, Venezia, Marsilio, 1992. Il materiale pubblicato fa parte di un articolo più lungo sui risultati della presente ricerca


"Quando Pietro, un bambino nomade, non riesce a fare qualche cosa come tutti gli altri, ha delle vere e proprie crisi di ira e di rabbia. Può capitare perché per lui è molto più difficile fare le cose che fanno in classe i suoi compagni; perché non si sente uguale agli altri; perché in quel momento ha pensato o vissuto qualcosa. Una volta, dopo un episodio di questo tipo, mi ha spiegato che era perché la sua mamma non era venuta a parlare con noi e a ritirare la pagella. Alle volte non vuole portare a casa il quaderno perché ha paura, quando porta a casa qualcosa, che non torni indietro. Lui non ha il materiale che gli serve per la scuola: glielo diamo noi. E' molto gratificato quando gli viene dato qualcosa e lo tiene anche con sufficiente cura. Secondo me si crea una situazione particolare: si sente in un certo senso privilegiato perché gli vengono fatti questi regali ma nello stesso tempo sente di non essere come gli altri che hanno queste cose da casa. Non ho mai capito se lui vive questa situazione come un privilegio o come una sottolineatura della sua diversità. Probabilmente tutte due queste cose. Io cerco sempre di dirgli: 'Non ti preoccupare: adesso ce l'hai la tua matita, non importa chi te l'ha data'. Ogni volta che si deve fare un avviso, lui diventa ansioso: 'La mia mamma non sa leggere, non sa cosa c'è scritto'. Io gli rispondo: 'Non ti preoccupare, qualcuno glielo dirà a voce'. Mi ricordo all'inizio dell'anno, la rabbia con cui diceva: 'Perché ci sono le altre mamme e la mia non c'è?' Ecco sono queste situazioni che creano problemi a questi bambini ed è molto difficile gestirle. Io non vorrei che Pietro si sentisse diverso. Vorrei che Pietro si sentisse uguale agli altri bambini. Ma non è così. E anche se noi gli diamo ciò di cui ha bisogno, lui sa che non è la sua famiglia a darglielo. Adesso avremo la foto di gruppo e lui non avrà i soldi per pagarsela. Dovremo trovare un modo per fargliela avere senza che si senta diverso, però non vorrei che a lungo andare vivesse questo come una forma di privilegio, come una cosa dovuta. Perché non è neppure giusto: noi ti diamo quello che ti manca, ma tu non lo devi dare per scontato, come doveroso da parte di noi tutti".

Questo articolo è il resoconto di un'indagine(1) che ho condotto lo scorso anno in una scuola elementare di un quartiere periferico milanese dove sono inseriti, insieme agli italiani, bambini cinesi, nord africani e zingari (2). Una scuola che si distingue per l'impegno e l'attenzione dedicati all'inserimento dei bambini stranieri. La Direttrice, che è Presidente per la Lombardia dell'Opera Nomadi, è infatti una tenace e coerente sostenitrice di un principio apparentemente ovvio e scontato, il fatto cioè che tutti i bambini, indipendentemente dalla propria nazionalità ed etnia abbiano diritto all'istruzione e ad un trattamento che non li discrimini all'interno della scuola. In realtà sostenere questo principio significa, come cercherò di argomentare nelle pagine che seguono, un impegno molto gravoso, in molti sensi e per molte ragioni, sia per gli adulti, direttrice, insegnanti e genitori, che per i bambini, stranieri ed italiani, che interagiscono all'interno della scuola. Di fatto la scuola, una scuola intendo dire dove con grande impegno e attenzione, ma pur sempre nei limiti di una legislazione scolastica ancora carente e metodologie poco codificate (3), sono inseriti bambini stranieri, diventa un laboratorio di straordinario interesse per sperimentare quotidianamente strategie e modalità di interazione che necessariamente devono fare i conti con due principi contrapposti e interdipendenti: uguaglianza e differenza, universalismo e particolarismo. Ne deriva un percorso accidentato, segnato da continue regressioni e fughe in avanti, errori anche gravi ed intuizioni straordinarie, ma dove sostanzialmente ciascuno sa, più o meno consapevolmente, che nella pratica e al di là dei luoghi comuni, del pregiudizio e della demagogia, l'incontro con lo straniero, sia pure esso un bambino, e l'essere uno straniero, anche a sei anni, vuole dire sopportare ed agire accettazione e rifiuto, ambivalenza e contraddizioni. In realtà è solo a queste condizioni, accettare cioè le contraddizioni di una sintesi impossibile, quella tra identità e alterità, che l'incontro e il cambiamento si realizzano.

L'obiettivo di questo lavoro era quello di verificare come all'interno di una micro realtà, come può essere quella di una scuola elementare di una città dove la presenza di minoranze etniche è ormai un dato di fatto, si gioca la partita cruciale che investe le società post-industriali che, di fronte al multiculturalismo, devono conciliare l'uguaglianza del diritto con il riconoscimento della differenza. (4)

1. Diritto all'uguaglianza e riconoscimento della diversità. Le strategie d'azione di fronte all'ambivalenza

Dal documento di Rinnovamento dei programmi della scuola elementare, 1985:

"Il fanciullo sarà portato a rendersi conto che tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono uguali di fronte alla legge, senza distinzioni di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali"

"E' dovere della scuola elementare evitare, per quanto possibile, che le diversità si trasformino in difficoltà di apprendimento e in problemi di comportamento, poiché ciò quasi sempre prelude a fenomeni di insuccesso e di mortalità scolastica e conseguentemente a disuguaglianze sul piano sociale e civile"

"La programmazione dovrà articolarsi e svilupparsi in modo da prevedere la costruzione e la realizzazione di percorsi individuali di apprendimento scolastico che, considerando con particolare accuratezza i livelli di partenza, ponga una progressione di traguardi orientati, da verificare in itinere"

"In ogni caso, l'obbiettivo dell'apprendimento non può mai essere disatteso e tanto meno sostituito da una semplice socializzazione in presenza"

Riportando la questione, così definita nelle sue linee teoriche, all'interno del caso specifico da me analizzato, una scuola elementare dove sono inseriti bambini zingari e stranieri, il problema può essere posto in questi termini: da un punto di vista universalistico tutti i bambini sono uguali e hanno diritto allo stesso trattamento ma le differenze culturali, ad esempio, segnano disuguaglianze significative in termini di risorse: livello di conoscenza della lingua italiana, capacità di apprendimento, abitudine alle norme generali che regolano l'istituzione scolastica e via dicendo. E' possibile, e in tal caso come, tener conto di queste differenze senza per ciò contravvenire il principio dell'uguaglianza di trattamento per tutti i bambini?

Quando ho posto questa domanda alla direttrice della scuola e alle insegnanti, il problema, seppure non sottovalutato nella sua difficoltà, sembrava trovare nella prassi una soluzione dettata dal principio delle pari opportunità. Detto in parole semplici il compito della scuola deve essere quello di fornire ai bambini 'svantaggiati' tutto il sostegno possibile per poter 'raggiungere' gli altri. Insegnanti di sostegno, mediatrici culturali, un laboratorio linguistico per l'apprendimento della lingua italiana, attività ludiche finalizzate a favorire l'inserimento nella classe dei nuovi arrivati (collocati nelle classi in base all'età e non al livello di apprendimento per favorirne la socializzazione e l'integrazione nel gruppo dei compagni) sono i mezzi che la scuola usa a tale scopo con un dispiego di risorse e di energie decisamente superiore alla media delle altre scuole cittadine (5).

Ma già questa risposta contravviene al principio dell'uguaglianza di trattamento poiché "di fatto" i bambini stranieri sono trattati in maniera diversa anche se appare ovvio che solo garantendo loro un accesso protetto alla scuola è possibile metterli alla pari degli altri bambini. Ma il problema è ancora ben più complesso di quello che potrebbe apparire perché investe immediatamente la sfera etica. Come tutelarsi dal pericolo che la socializzazione alle norme culturali del nostro paese non colluda con quelle della cultura di appartenenza? Come proteggere i bambini stranieri dall'esperienza dell'inadeguatezza e dell'estraneità? Come salvaguardare la loro identità di uguali e diversi? Come abituare i bambini, sia italiani che stranieri, ad accettare la differenza di trattamento senza subirla come un ingiustizia o come una discriminazione? E come trattare il pregiudizio dei genitori italiani verso il "diverso" soprattutto quando si tratta di un bambino zingaro e rassicurare i genitori dei bambini stranieri rispetto ai valori che il bambino apprenderà a scuola?

Nel corso di queste pagine cercherò di mettere a fuoco questi problemi, attraverso le contraddizioni che ne derivano, così come emergono dalle interviste. Ciò che vorrei dimostrare è che non solo queste contraddizioni sono, almeno al momento attuale, inevitabili e in una certa misura senza soluzione, ma che, se le si assumono come tali, la consapevolezza della dicotomia che le sottende e della parzialità delle scelte che ne discendono, può rappresentare una garanzia perché l'interazione possa svolgersi su un terreno di rispetto reciproco.

Quando, sebbene si parta da una dichiarazione di eguaglianza di tutti i bambini, si afferma che in realtà non solo i bambini non sono tutti uguali, ma che ci sono i diversi tra i diversi: di fronte all'alterità dello zingaro, gli stranieri diventano "uguali" (Detto in altre parole lo zingaro fa saltare il gioco identità/alterità)

"Con i bambini stranieri non abbiamo nessun problema: lo dimostra il fatto che ci sono delle differenze molto visibili e molto grandi tra bambini stranieri e bambini nomadi perché i bambini stranieri bene o male sono tutelati, bambini bene o male già scolarizzati i cui genitori sono inseriti e lavorano. Bambini dunque che hanno genitori alle spalle con i quali non abbiamo perciò grossi problemi. L'unico problema potrebbe essere quello della lingua, ma generalmente sono bambini intelligentissimi con grosse capacità di apprendimento: tempo due o tre mesi di laboratorio linguistico che già parlano benissimo l'italiano".

Sebbene in ciascuna classe siano presenti, insieme agli italiani bambini zingari, nord africani e cinesi, è solo dei primi che, nel corso dell'intervista, tutte le insegnanti, senza alcuna eccezione, finiscono per parlare. Ogni domanda circa le problematiche e le iniziative inerenti alla presenza, nella scuola, di bambini di una cultura diversa, conduce ad un discorso sui bambini nomadi: solo loro sembrano essere gli stranieri, i diversi, coloro che costringono al confronto con l'altro. La lontananza culturale di cui è portatore un piccolo cinese, magari appena arrivato in Italia, o un bambino di colore, magari mussulmano, sembra annullarsi di fronte all'estraneità e all' imbarazzo che suscita la presenza di un bambino nomade.

Non starò qui a discutere le ragioni di ciò -del resto nel corso dell'articolo tali ragioni saranno in parte esplicitate- e accenno solo al fatto che un atteggiamento di questo tipo potrebbe condurre a penalizzare, non valorizzandola, la diversità degli altri bambini stranieri (6), e a sottovalutare le difficoltà che questi potrebbero incontrare nell' essere una minoranza in un ambiente in cui le regole sono comunque dettate da una cultura diversa dalla loro. Quello che invece mi interessa sottolineare è un altro aspetto della questione: il fatto cioè che la presenza dello straniero all'interno di una comunità sposta continuamente i confini di ciò che collettivamente separa coloro che sono insider da coloro che sono ritenuti outsider, ridefinisce il senso di appartenenza e quello di estraneità, modifica le ragioni dell'accettazione e quelle del rifiuto, ridisegna le espressioni di solidarietà e pregiudizio. Supposto che ogni gruppo, micro o macro che sia, abbia bisogno dell'altro da sé per definire la propria identità, in una società come la nostra, in cui i processi di migrazione si sono accelerati, si trovano costrette a modificare continuamente i propri meccanismi di inclusione/esclusione.

L'arrivo di un nuovo straniero, ancora più estraneo del precedente, facilita il percorso di integrazione dei primi arrivati, nuove esclusioni obbligano a nuove inclusioni. Per quanto riguarda il nostro paese, negli anni del boom economico, gli "stranieri" erano coloro che dal Sud Italia arrivavano nelle città industrializzate del Nord. Successivamente nord africani, slavi o albanesi si sono succeduti nel ruolo di ospiti indesiderati. Si potrebbe obbiettare che ogni ondata migratoria successiva, trovava quella precedente già parzialmente integrata e che non si possono mettere a confronto i nostri immigrati meridionali con coloro che oggi arrivano dai paesi extracomunitari, ma al di là di qualsiasi altra considerazione c'è comunque il bisogno di ciascuno di definire le proprie appartenenze, di tracciare confini, di escludere per includere. Bisogno che, a fronte di una realtà in continua trasformazione, conduce a modificare altrettanto rapidamente i propri giudizi di valore.

Anche i bambini, all'interno di un contesto che li costringe al confronto con lo straniero, sembrano non potersi sottrarre all'obbligo di operare delle distinzioni, di agire delle esclusioni.

"Con i bambini stranieri non ci sono difficoltà, salvo i primi tempi quando ancora non conoscono la lingua, mentre abbiamo qualche problema con gli zingari. All'inizio l'impressione che si ha di loro è di una certa timidezza. Un sentirsi un pò diversi dagli altri, per cui c'è qualche difficoltà a legare con gli altri bambini. Soprattutto quelli che frequentano irregolarmente hanno anche dei problemi igienici, quindi nell'aspetto evidenziando maggiormente la loro diversità. Per cui gli altri bambini, soprattutto in prima, poco abituati ad essere in contatto con bambini diversi, hanno qualche perplessità. Certe volte ho colto la resistenza a dare la mano perché non è pulita anche se poi si provvede mandandoli a lavare. Ma si vede che non c'è quella disponibilità immediata che si ha verso un altro bambino che si presenta con un aspetto più gradevole".

"Mentre i bambini stranieri vengono accolti abbastanza bene dai nostri bambini, anzi vengono aiutati ad inserirsi forse perché sono ancora piccoli e quindi più spontanei, c'è un atteggiamento un pochino diverso per i nomadi, perché il nomade porta sempre un pò le sue caratteristiche di comportamento, di stile, di abbigliamento...Certo, questa è una scuola particolare perché c'è tutta un'educazione ad accettare il diverso, però mentre nei confronti dei bambini cinesi o dei bambini arabi gli altri ne diventano quasi dei paladini, con i bambini nomadi le cose sono un pò più difficili forse perché l'essere nomade porta anche altri problemi oltre quello di essere diverso, di un altra etnia. Per esempio è molto più semplice per un bambino straniero stare seduto in classe come tutti gli altri bambini, mentre per un nomade, abituato a vivere all'aperto tante ore di scuola sono senz'altro più pesanti".

Tant'è che anche tra i diversi dei diversi scatta la ricerca dello straniero: stabilire una differenza, consente di affermare un'eguaglianza.

"I nomadi bisogna stare molto attenti a metterli insieme perché tra gruppi diversi c'è proprio uno scontro, un rapporto di amore-odio. Nella nostra scuola abbiamo gli Havati, i Khorakhané, i Kalderasa e i Kanjaria. I Khorakhané sono i più malconci, provengono dalla Bosnia, non hanno fissa dimora. Uno dei miei bambini, un Kalderasa, mi ha detto: 'Teresa, io non ho più voglia di venire da te perché tu curi più i Khorakhané che me!'. Oppure 'No, tu non ti devi assolutamente occupare dei Khorakhané' 'No' rispondo io 'per me i bambini sono tutti uguali sia che siano Havati , Khorakhané , Kalderasa o Kanjarja'. Insomma bisogna risolvere la questione cercando di farli ragionare."

Quando per raggiungere un'eguaglianza di opportunità si mettono in atto delle misure di discriminazione con l'intenzione di compensare lo svantaggio di partenza

Con l'intento di realizzare una politica delle pari opportunità la scuola si è dotata di una serie di servizi da offrire agli alunni stranieri che, giustamente, vengono inseriti nelle classi in base all'età senza tener conto del livello di istruzione effettivamente raggiunto. Per renderli in grado di mettersi alla pari con i loro compagni, i bambini hanno a disposizione un laboratorio linguistico per l'apprendimento della lingua italiana e, laddove lo si ritenesse necessario, insegnanti di sostegno in classe. Queste misure risultano pienamente soddisfacenti per quanto riguarda gli stranieri, ma risultano inadeguate nei confronti dei piccoli zingari.

"I bambini stranieri arrivano generalmente già scolarizzati. Magari non parlano una parola di italiano ma hanno già l'abitudine alla disciplina, all'apprendimento, allo studio e in poco tempo, con il sussidio del laboratorio linguistico, sono in grado di seguire le lezioni. Per i bambini nomadi questo non avviene, non hanno punti di riferimento, sono molto disorientati. Con loro c'è da fare tutto un lavoro di pregrafismo, di prelettura, di prescrittura...Loro arrivano con tutto un bagaglio di problemi che vanno risolti a monte per poi poter dire 'mbè, adesso possiamo fare un lavoro che sarà veramente utile' perché se facciamo un lavoro senza le fondamenta, costruiamo, costruiamo, e poi si sgretola tutto".

Le ragioni della differenza, al di là del pregiudizio, sono molte: sono bambini che vivono all'interno dei campi nomadi, in condizioni igieniche spesso molto critiche; appartengono ad una cultura nella quale quasi non esistono senso dell'ordine e della disciplina; spesso i genitori sono analfabeti; a causa degli sgomberi dei campi da parte della polizia e di ciò che rimane delle loro abitudini al nomadismo, frequentano saltuariamente la scuola; in alcuni casi praticano fin da piccoli l'accattonaggio e il furto; sono abituati da sempre a sentirsi degli estranei, guardati con diffidenza, accolti dal pregiudizio. Queste ragioni sono ben note a quanti operano nella scuola e sono stati fatti indubbiamente degli sforzi notevoli per favorire l'inserimento degli alunni zingari. Ma affrontare la differenza senza lasciar agire pregiudizio o demagogia è un compito tutt'altro che facile e, se è vero che il riconoscimento della differenza e l'affermazione dell'uguaglianza rappresentano i termini di una configurazione ambivalente, le strategie d'azione che ne derivano, al di là delle buone intenzioni, finiscono per sollevare contraddizioni di non lieve entità.

Primo esempio: l'igiene. All'interno della scuola esiste tutta un'organizzazione, chiamata accoglienza, che si preoccupa di lavare e, qualora fosse necessario, mettere abiti puliti ai bambini Rom prima che entrino in classe.

"Venire a scuola significa anche imparare l'igiene che loro al campo, vuoi per problemi di acqua, vuoi perché fa freddo, non hanno. A scuola però bisogna esser puliti e un bambino nomade non è diverso, deve essere pulito come tutti gli altri: abituarlo ad essere uguale agli altri vuol dire anche essere pulito come gli altri. Gli diciamo: 'Venite a scuola prima, c'è l'acqua calda, ci sono le docce, vi lavate, vi pulite, entrate in classe'. Questo è un modo per far sì che siano accettati dagli altri bambini e dai genitori"(1,5)

"Ognuno ha la propria cultura, anzi culture diverse arricchiscono, ma l'igiene non fa parte della cultura, dobbiamo livellarci tutti. L'igiene è una cosa molto importante per evitare epidemie e situazioni molto più spiacevoli. Il problema dell'igiene potrebbe essere un motivo di rifiuto verso chi è diverso in quel senso. E' un discorso molto difficile e molto importante da fare perché non è bene il discorso 'mbè, capiamolo'...no, perché allora resta diverso. Per questo che c'è tutta questa organizzazione di lavanderia, guardaroba, docce e disinfettante per il bambino zingaro, per far sì che anche lui vada tutto profumato, uguale agli altri, perché se c'è tutta questa accoglienza lui non si sente diverso..."(1,8)

Riesce difficile commentare un'iniziativa di questo genere: da una parte occorre ammettere che il problema esiste e riconoscere le buone intenzioni di chi ha trovato una tale soluzione (che del resto implica un impegno non da poco da parte della scuola), d'altro canto è giocoforza chiedersi quale sia il vissuto di questi bambini (soprattutto i più grandicelli) sottoposti ogni mattina ad un controllo circa il decoro della propria persona e ad un rituale estraneo alle proprie abitudini. Non è escluso che possano vergognarsi o sentirsi trascurati dalle loro famiglie.

"Ogni martedì Semso fa la doccia a scuola perché il giorno dopo li portiamo in piscina. Abbiamo detto a tutti i bambini che il martedì devono fare la doccia a casa e poi abbiamo spiegato a Semso, davanti agli altri: 'Tu la fai qua perché magari a casa non hai l'acqua calda'. Lui all'inizio non voleva, perché pensava che qualcuno entrasse con lui, invece poi ha visto che gli davamo la biancheria e gli spiegavamo come fare e poi lo lasciavamo solo e si è tranquillizzato. A un certo punto ci siamo accorte che faceva la doccia con le mutandine e gli abbiamo detto: 'No, adesso nessuno ti sta vedendo, hai la porta chiusa, non ti devi vergognare'. Ormai non ci sono più problemi"(6,12)

La contraddizione tra un proposito di uguaglianza e un'azione che sottolinea una differenza esiste e solleva una domanda che nel caso specifico può essere posta in questi termini: nei bambini zingari, prevale la gratificazione del sentirsi accuditi o la frustrazione e l'imbarazzo dovuti al sentirsi diversi dai loro compagni, costretti, per essere accettati, a modificare il proprio aspetto? O sono entrambi i sentimenti ad accompagnare questi bambini nel loro percorso per l'integrazione? L'iniziativa finisce così per assumere il carattere ambiguo di una oggettiva discriminazione -resta da vedere se positiva o negativa- di cui sono fatti oggetto i piccoli nomadi. E ci si chiede: attraverso una discriminazione, può iniziare un percorso di uguaglianza?

Secondo esempio: il rispetto delle regole. Come non riconoscere il compito gravoso che gli alunni Rom, il cui processo di socializzazione all'interno delle famiglie ha seguito vie molto diverse da quelli degli altri bambini, devono affrontare per adeguarsi a regole a loro estranee? Tanto più quando queste regole implicano capacità di autocontrollo, disciplina, tenuta del compito, impegno intellettuale, estranei all'ambito culturale in cui questi bambini sono cresciuti e in cui vivono all'esterno della scuola. Questa consapevolezza è ben presente nelle parole delle insegnanti intervistate e altrettanto chiari sono i dilemmi che la questione solleva: tenuto conto che il diritto di cittadinanza implica l'osservanza delle regole comuni, giuste o sbagliate che siano, un atteggiamento troppo permissivo rischia di non produrre cambiamento consegnandoli al loro destino di outsider; inoltre una cura particolare può essere vista dal bambino che ne è fatto oggetto come una sottolineatura del suo 'bisogno' e dagli altri come un 'privilegio' che a loro non è concesso. Ma d'altra parte sarebbe una grave omissione da parte della scuola non riconoscere che la diversità di questi bambini esige un'attenzione e un impegno specifici.

"Con questi bambini il rischio che corriamo è forse quello di volerli proteggere troppo, di dare una giustificazione ad ogni loro mancanza. Già le elementari sono un tipo di scuola in cui si tende a proteggere questi piccolini, tanto più nel caso dei bambini nomadi. Ma poi quando esci di qui cominci a prendere delle legnate e agevolandoli in maniera eccessiva tu rischi di non farli crescere, di non abituarli a quelle regole che poi troveranno fuori. Ci sono delle regole che non possono essere messe in discussione e a cui anche loro debbono adeguarsi. Un occhio di riguardo va bene: non è questione di voler più bene a loro che agli altri è che, di fronte alle loro situazioni di vita, che non sono quelle degli altri, dobbiamo essere un pochino più malleabili, un pochino più aperti nei confronti di questi bambini e dei loro problemi. Ma all'inizio tendevamo troppo a lasciar correre...Adesso siamo più rigidi per esempio rispetto alle vaccinazioni o ai certificati medici che i bimbi devono esibire se stanno assenti più di quindici giorni. La scuola si deve rendere conto che queste persone devono crescere, che non possono dipendere sempre da te, che non possono dipendere sempre dalla scuola. Se non vuoi che questi bambini vivano da grandi come vivono adesso i loro genitori, e cioè rubando, devi insegnare loro fin da piccoli che determinate cose vanno rispettate e basta. E' fondamentale che imparino a rispettare gli altri, perché rispettare le regole significa rispettare gli altri. Certo i bambini ti fanno tenerezza, perché capisci che dietro ci sono gli adulti...ma dobbiamo sforzarci a non assumere atteggiamenti troppo protettivi. L'accoglienza, per esempio, l'accoglienza deve essere fatta all'inizio e con tutti i criteri, ma poi questi bambini devono imparare a camminare con le loro gambe, devono cominciare a rispettare le regole, se no si prendono le punizioni che si prendono tutti gli altri. Certo ci vuole buon senso perché comunque gli errori che possono fare questi bambini sono meno gravi di quelli che possono fare gli altri, perché non sono bambini tutelati, non hanno alle spalle famiglie integrate "

"Si vuole renderli uguali, ma ci si rende conto che hanno dei bisogni diversi. Questa loro ricerca di affetto, questo vederli un pochino isolati. Magari tornano dopo una lunga assenza e si mettono in fondo, nell'ultimo banco. Magari per farli lavorare occorre separarli dagli altri e mettersi con loro in disparte. Magari si rendono conto di non essere in grado di fare quello che stanno facendo gli altri e mi vengono a chiedere: io che faccio? A volte mi viene voglia di dare loro di più...Per esempio si stancano molto prima degli altri bambini ma non puoi concedere a lui il riposo senza concederlo agli altri ...è sottile la cosa perché entrano in gioco dinamiche complesse e così cerchiamo di variare molto le attività alternando attività impegnative con altre più piacevoli: la stessa strutturazione del tempo pieno modulare favorisce questa varietà. A volte mi ritrovo ad avere qualcosa che il bambino nomade non ha, vorrei dargliela ma mi astengo da dargliela davanti alla classe per evitare che gli altri bambini possano dire a lui si a me no".

Terzo esempio: è giusto pretendere da questi bambini, oggettivamente svantaggiati, le stesse prestazioni che si richiedono agli altri o vanno comunque premiati i loro sforzi e la loro fatica? Certo, insegnanti di sostegno e mediatrici culturali operano per colmare lo svantaggio iniziale ma alla fine dell'anno può essere molto difficile misurare con criteri universalistici il rapporto impegno-rendimento. E allora: devono essere considerati bambini uguali a tutti gli altri, con gli stessi diritti e gli stessi doveri, e dunque applicare le stesse misure di valutazione, o deve essere riconosciuta la loro diversità e, per far sì che questa non si trasformi in disuguaglianza, premiare risultati che in altri bambini sarebbero giudicati modesti?

"Giorgio, un bambino nomade, é arrivato nella nostra scuola che parlava un italiano molto povero di vocaboli e con nessun tipo di nozione matematica. Piano piano sta recuperando, ma il suo problema è la capacità di mantenere l'attenzione: la mattina riusciamo a farlo lavorare ma nel pomeriggio non ce la fa più a seguire e dimostra la sua insofferenza per il fatto di essere là, battendo le mano sul banco, muovendosi, facendo magari qualche verso in più....E poi fa fatica ad accettare le regole anche se poi un pò alzando la voce, un pò con la dolcezza...Certo questi comportamenti sono comprensibili se si tiene conto del suo retroterra culturale ma sin dall'inizio abbiamo pensato che se il bambino doveva essere inserito nella classe doveva essere visto come un compagno e basta e non accettato come un diverso in quanto zingaro. Abbiamo detto ai bambini che ha un diverso modo di vivere, abbiamo detto che vive in un campo, e l'anno scorso siamo andati al campo, abbiamo visto come vive, ma a scuola è solo un compagno, un bambino come tutti gli altri. E allora in classe deve accettare le regole della classe, deve comportarsi come tutti gli altri bambini, lo riteniamo più giusto, e allora, anche se comprendiamo alcuni suoi comportamenti, comprendiamo per esempio perché i suoi tempi di attenzione sono più brevi, poco alla volta chiediamo sempre di più, un pò di più. Però, ad esempio, non siamo ancora riusciti a fargli fare i compiti a casa. Noi lo rimproveriamo per questo, ci sembra giusto farlo...proprio perché vogliamo inserirlo...non so se riesco a spiegarmi. Questa è una scuola a tempo pieno e quindi i compiti li devono fare durante il fine settimana e se il lunedì il bambino non li porta, viene rimproverato. 'Ma insomma, perché non li hai fatti? Va bene, vorrà dire che tu oggi farai meno intervallo e andrai a giocare solo quando li avrai finiti'. Facciamo così con tutti, anche con Giorgio. Ci sediamo vicino a lui, lo aiutiamo, ma dobbiamo farlo, perché se no domani qualsiasi altro bambino può dirci: 'Non li faccio nemmeno io' e questo non va bene, perché significa metterli l'uno contro l'altro".

Dalle parole delle insegnanti sembrerebbe che la linea di condotta scelta dalla scuola, per quanto possa essere impegnativa, risulti scevra da ogni ambiguità: un percorso di eguaglianza non può prescindere alla fine da una regola: per tutti stesso peso, stessa misura. Un principio che dovrebbe rassicurare i genitori degli alunni italiani che temono il cattivo esempio che i bambini zingari potrebbero offrire e sospettano che la scuola possa spendere per gli alunni stranieri, e a discapito degli italiani, troppe risorse ed energie.

"All'inizio i genitori italiani fanno qualche storia soprattutto nei riguardi dei bambini nomadi: 'Il bambino nomade ha un modo di vita diverso, i nostri bambini sono piccoli...' 'Ma qui ci sono gli insegnanti non è che i bambini siano lasciati a loro stessi: a scuola ci sono delle regole che tutti devono rispettare'. Questa risposta li ha un pò fermati. Oppure può capitare che dicano che in questa scuola per curare i bambini zingari si trascurano gli altri e che con gli zingari siamo più tolleranti e indulgenti. Ma poi con il tempo si rendono conto che sono bambini come tutti gli altri e che la scuola funziona per tutti. "

Ma il compito che la scuola si è data, offrire pari opportunità senza rinunciare ad una neutralità di giudizio, è arduo se si considera l'entità della differenza tra bambini nomadi, stranieri e italiani, in termini di risorse e capacità.

"Quando arrivano a scuola i bambini zingari non sanno neanche tenere la matita in mano perché non hanno frequentato la scuola materna. Bisogna seguirli uno per uno, prendere la loro mano e aiutarli a superare lo spazio della grafia stessa. Qualsiasi rappresentazione grafica è per loro una difficoltà enorme, dare loro l'idea che si possa attraverso un segno rappresentare un oggetto. Nella prima parte dell'anno si fa molto questo lavoro e nel frattempo sono in classe e devono seguire anche il programma della classe per non farli completamente staccare dal resto dei bambini. Per le cose più difficili vengono esonerati, molti non parlano neanche l'italiano ed è impossibile per loro esprimere un concetto, un idea: è più facile partire da un'immagine collegata ad una parolina. Non si può neanche forzarli perché poi più di tanto non rendono. Per loro è molto arduo mettere insieme le frasi: capiscono il significato di un disegno o di una situazione ma anche se tecnicamente scrivono la parolina, non hanno cognizione della logica dell'insieme delle parole. Ma in prima abbiamo tempo: non c'è ragione di forzare le cose".

Considerate allora le risorse culturali di partenza si finisce forse per chiedere agli alunni zingari qualcosa di meno, o forse semplicemente qualcosa di diverso, da quello che si chiede agli altri e alla fine dell'anno, nel valutare i risultati, si tiene conto dello svantaggio iniziale. Una parzialità di giudizio che può essere dettata dai migliori propositi e che forse può essere anche giusta, ma che viene giudicata severamente da chi guarda le cose da un altro punto di vista. Parla una ragazza Romni che da bambina ha frequentato le elementari in questa stessa scuola e, dopo le medie e un adeguato corso di formazione, vi lavora come mediatrice culturale:

"Durante le lezioni le insegnanti dovrebbero occuparsi più dei bambini nomadi e non contare solo sulle maestre di sostegno. Magari la maestra ha due bambini Rom e quindici gadjè (7) e mentre gli altri vanno avanti con la lezione ai due bambini Rom fa fare un disegno perché non sono in grado di seguire la lezione. E poi non è giusto promuoverli se non sanno niente: io preferirei che li bocciassero almeno l'anno dopo saprebbero più cose, invece nelle scuole non vedono l'ora di mandarli fuori. Tu dici: 'Ma questi bambini nomadi non sanno niente...non frequentano', ti rispondono: 'Ma non è colpa loro se non frequentano regolarmente la scuola'. Però è inutile promuoverli se non sanno né leggere, né scrivere. Loro dicono che hanno 13/14 anni e che devono andare alle medie, ma cosa vanno a fare alle medie dove troveranno problemi più grossi? Io alle medie ho imparato a leggere perché alle elementari non sapevo neanche leggere. Alle medie mi sono così vergognata...cosa sapevo fare? Due o tre cosettine: non sapevo neanche cosa fossero storia e geografia. Il guaio è che i nostri bambini non frequentano regolarmente, restano assenti anche due o tre mesi, rimangono indietro e quando tornano non vanno più alla pari con gli altri. Quando tornano a scuola li mettono a fare i disegni, poi arriva l'insegnante di sostegno e gli fa fare due o tre cosette, non riescono mai a raggiungere gli altri. Arriva la fine dell'anno, gli dici di scrivere una parola e loro non la sanno scrivere. Hanno promosso mio fratello in quinta, mia madre è andata a scuola: 'Ma cosa avete preso mio figlio per un handicappato? Lo promuovete e non sa scrivere neanche il nome e il cognome?' Forse pensano che i bambini Rom siano stupidi, oppure che debbano rimanere sempre quello che sono, buoni solo per andare a rubare. E' che ti passa la voglia di mandarli a scuola perché vedi i loro quaderno e ti accorgi che non sanno fare niente. Mia madre guardava i quaderni di mio fratello e sempre disegni, disegni..in quinta ancora scrive in stampatello".

Quando il principio del rispetto della diversità culturale si rivela difficile da sostenere

"Qui in questa scuola non ci sono solo bambini nomadi, ci sono anche gli africani, i cinesi...Di diversi ce ne sono tanti..non è la stessa cosa che essere nomadi? L'unica cosa che può rendere diversi i bambini zingari è l'aspetto: sarebbero uguali agli altri se avessero una vita più agiata. Infatti quando gli facciamo la doccia, gli mettiamo un bel vestito, li profumiamo come gli altri e forse anche di più, come si fa a rifiutarli? Ma come si fa a intervenire su queste cose con le loro famiglie? Nessuno pretende che diventino uguali a noi, la differenza culturale nessuno la tocca, ma per il resto bisognerebbe cercare di eliminare questo senso di disagio che potrebbe nascere dal non essere puliti come tutti gli altri, non avere il quaderno, la matita..."

Dichiarare che la differenza culturale non si tocca è davvero un principio difficile da sostenere quando le abitudini culturali dello straniero non corrispondono all'idea di decoro e dignità personale che la società ospitante possiede o, a maggior ragione, con i principi etici che la guidano o le regole che si è data circa ciò che è lecito o illecito. Naturalmente occorre distinguere -e non sempre è facile- tra quei comportamenti determinati dalle difficili condizioni di vita in cui spesso si trova ad essere chi abita un paese straniero, quelli chiaramente illegali e quelli dettati, invece, da abitudini culturali diverse (8). In quest'ultimo caso risulta evidente che coloro che rappresentano la cultura maggioritaria, attribuiscono carattere universalistico ai propri principi morali per cui il giudizio di valore circa il comportamento altrui si basa su tali principi e tali credenze. Ma, d'altra parte, risulta oggettivamente difficile ammettere carattere di relatività a valori profondamente introiettati quali quelli etici e ci sono regole di cittadinanza che non ammettono alcun tipo di negoziazione. La questione, come ho accennato nelle pagine precedenti, è al cuore di un dibattito che la realtà del multiculturalismo ha reso pressante e appassionato.

Nel vissuto concreto dei rapporti quotidiani si può rispondere a questa contraddizione con il pregiudizio, la demagogia, l'imbarazzo. Si può prendere posizione o sospendere il giudizio, essere disponibili ad un confronto o ad una trattativa. Nel caso specifico che qui stiamo analizzando, all'interno di un rapporto tra un adulto autorevole e un bambino, quando l'adulto è tenuto ad intervenire e non può sottrarsi al proprio ruolo di educatore, ci si augura abbiano voce intuito e sensibilità.

"Alcuni bambini hanno un rapporto molto affettivo con le insegnanti, per loro siamo delle amiche, non la maestra. Con noi parlano della loro cultura. A me raccontano delle loro feste 'Sai, ho bevuto molto vino, ci siamo ubriacati'. 'Ma non sarebbe giusto ubriacarsi, bambini così piccolini. Sì, bere un goccino di vino perché la vostra tradizione ve lo consente, però ubriacarsi e andare addirittura a letto con la sbornia no, non va bene!"

"Una volta ero con Davide e gli stavo insegnando come si scrive la parola treno e lui mi dice 'Io qui ci vado a rubare'. Io mi sono messa a ridere e ho detto: 'Ah sì, mi racconti come fai?'. Immediatamente la tentazione è stata quella di dire: 'Non si fa!'. Ma in quel momento mi sembrava che quelle parole venissero dall'alto della mia posizione. Ma poi abbiamo cercato di andare sul concreto e dire che il materiale degli altri appartiene agli altri e non si deve prendere; ma questo detto a tutta la classe e non riferito in particolare a lui. I bambini nomadi raccontano della vita del campo solo alla maestra: è molto difficile agli altri bambini perché hanno molto pudore di ciò che succede nei campi. Tieni conto che alcuni bambini vengono dal campo di via xxx dove sono accaduti episodi molto brutti. E i bambini prima di raccontarti quello che succede ci pensano due volte: hanno paura della polizia, degli interventi che possono fare. Abbiamo avuto bambini che avevano paura a dirti anche il nome. Ci vuole un pò di tempo perché abbiano fiducia".

2. Differenza e disuguaglianza

Nonostante i termini differenza e disuguaglianza vengano spesso usati come sinonimi i due concetti hanno significati opposti. La confusione nasce dal fatto che nella maggior parte dei casi la differenza culturale viene ridotta allo stereotipo, fagocita il pregiudizio e si traduce in misure e atteggiamenti discriminatori nei confronti di coloro che ne sono portatori. In realtà quando con un linguaggio scientificamente più corretto si parla di diversità e quando i soggetti rivendicano la loro diversità, ci si riferisce a questa come ad un carattere positivo che ha a che fare con l'identità collettiva di una minoranza. Un patrimonio che, come tale, deve essere valorizzato e difeso. Il concetto di disuguaglianza, al contrario, richiama non solo una disparità nella distribuzione e nel controllo delle risorse tra i vari gruppi sociali, ma anche la strutturazione di rapporti di dominio e subordinazione per conservare tale disparità. Ora, mentre l'affermazione di una differenza da parte di chi ne è portatore, non mette in discussione la libertà e la dignità dell'altro, "molte disuguaglianze trovano pretesto in quei caratteri che costituiscono la differenza altrui"(9).

Il caso che stiamo analizzando mostra come nella realtà le cose si confondono e come la differenza, la differenza culturale di cui sono portatori bambini zingari e stranieri che frequentano una scuola elementare, possa, a seconda delle circostanze, assumere un valore positivo ed essere valorizzata o, al contrario, essere banalizzata in uno stereotipo e generare pregiudizio.

Quando la differenza assume significati molteplici e ambivalenti: disuguaglianza, valore, stereotipo

La differenza, per il semplice fatto di essere colta come tale, implica un confronto, sollecita un giudizio. Sentimenti di accettazione o rifiuto, attrazione o repulsione implicano atteggiamenti e determinano risposte diverse. Accade così che la differenza possa diventare un valore e rappresentare una risorsa, o, al contrario, degenerare in disuguaglianza e, per chi ne è portatore, assumere l'onere di un vincolo.

"Quando Chang è arrivato non parlava una parola di italiano ed era molto difficile capire se era o no scolarizzato. Per matematica avevo iniziato con un programma a parte, come si fa con i bambini di prima, preparando delle schede molto semplici. Un giorno ho scritto alla lavagna delle operazioni che i bambini dovevano risolvere mettendole in colonna. Ho visto che lui aveva un foglio sul banco, guarda il foglio del compagno e scrive sul suo direttamente il risultato. Chang aveva risolto mentalmente un'operazione che gli altri, per risolverla, avevano bisogno di mettere in colonna. Beh, a quel punto mi sono detta: 'Devo andare fino in fondo, devo vedere fino a che punto....', ho scritto delle operazioni su quel foglio e gliele ho messe davanti. Mah, saranno passati due secondi, questo bambino mi ha mostrato una capacità che forse solo, che forse solo...non so, ma in due secondi...io non sarei stata capace in così poco tempo, lui mi ha presentato il foglio con le operazioni risolte, tutte fatte; poi quando interrogavo gli altri bambini, a Chang scrivevo alla lavagna e lui metteva il risultato accanto e io lo interrogavo così e lui era contento perché io cercavo di gratificarlo con un sorriso, cercando di fargli capire che aveva fatto bene. Gli dicevo: 'Bravo, bravissimo, sei stato bravissimo' e lui rideva e mi sono accorta che prima, giustamente, si annoiava con quelle schede troppo semplici che io gli sottoponevo pensando di dover ricominciare tutto da zero. Certo per i problemi non era altrettanto facile perché io non conoscevo il cinese e lui non parlava l'italiano ed era molto complicato fargli capire quale era il problema da risolvere. Questo rallentava un pò i tempi anche per gli altri...ma qualunque inserimento nuovo rappresenta un lavoro doppio per noi perché questi bambini hanno bisogno di una programmazione diversa, di un modo di intervenire diverso perché diversa è la lingua e magari diverso è il livello raggiunto dall'alunno. Anche nel caso di Chang, che era diverso dagli altri bambini perché decisamente più avanti, dovevo fargli fare altre cose altrimenti si sarebbe annoiato: non è certo un problema, anzi, ma significa comunque organizzare il lavoro in maniera diversa".

Ma la differenza sembra essere una ben povera risorsa per un bambino nomade, perché quando viene sottolineata una loro diversità in senso positivo, e cioè come un'abilità' si fa generalmente riferimento ad aspetti che notoriamente non sono ritenuti importanti all'interno di una scuola.

"Il fatto che vivono all'aperto è una risorsa in più che hanno perché, rispetto ai nostri, possono avere più spazio, più libertà di agire, di muoversi. E infatti in questo sono molto più svegli, non sono imbranati nel senso del movimento, perché nel movimento sono molto sciolti, molto vivaci. Tutte le volte che noi insegnati parliamo di una gita, di un certo percorso che si fa all'esterno della scuola, il bambino nomade risulta più bravo, perché conosce già perfino i nomi delle strade. In queste occasioni si sentono più bravi degli altri...certo quando si tratta di cose teoriche, non riescono..."

In ogni caso valorizzare la differenza è indubbiamente un buon modo per iniziare un percorso di integrazione.

"Le difficoltà iniziali penso che si risolvano col pretendere rispetto e dare loro rispetto. Il discorso è che ciò che chiedo agli altri bambini, lo chiedo anche a loro . Certamente a loro non puoi chiedere l'impegno che chiedi agli altri, in quanto non hanno né l'abitudine, né la resistenza che hanno gli altri bambini su un lavoro che non li coinvolge molto. Quindi, io lo so perfettamente, che loro dopo un pò hanno bisogno di muoversi, hanno bisogno anche di lavorare molto manualmente, perché sono molto abili. Questo è un modo per dimostrare agli altri che cosa valgono e, secondo me, ogni individuo deve dimostrare ciò che vale per essere accettato. Davide, per esempio, era abilissimo con il traforo, quindi se lui, quando era il momento di leggere e scrivere, non era all'altezza, nessuno poteva dire 'tu non sei capace' perché lui era abilissimo a fare altre cose. La cosa molto difficile all'inizio è stata appunto di convincerlo che questo valeva come valevano gli altri lavori, perché in ogni modo lui percepiva la superiorità culturale degli altri. Ne subiva il fascino perché gli altri sapevano leggere e scrivere. Solo non si voleva impegnare anche perché i bambini nomadi lavorano solo dentro la scuola. L'ambiente culturale in cui vivono è molto diverso dal nostro per cui non si può far troppo conto sulla famiglia: tutto quello che fanno lo fanno a scuola. Gli altri bambini, anche quelli stranieri possono avere un ambiente familiare più o meno stimolante però dal punto di vista scolastico hanno i libri e i genitori si interessano a quello che fanno a scuola: questo accade raramente per il bambino nomade".

Non valorizzare la differenza, può significare, al contrario, trasformarla in disuguaglianza.

"I bambini zingari sono molto lenti nell'apprendere. Hanno bisogno di ripetizioni continue. Non bisogna mai dare niente per scontato perché le cose prima o poi se le dimenticano."

"I bambini nomadi si affaticano più degli altri. Diciamo che hanno più difficoltà ad accettare la struttura, la classe, il fatto di rimanere chiusi. Si vede che hanno alle spalle un'esperienza decisamente diversa."

Inoltre è molto facile che la diversità venga banalizzata nello stereotipo e lo stereotipo, si sa, è l'anticamera del pregiudizio (10) (positivo o negativo esso sia) perché offre un'immagine generalizzata, superficiale ed eccessivamente semplificata della realtà, attribuendo in maniera indifferenziata e indiscriminata determinati caratteri e comportamenti a tutti gli appartenenti ad un certo gruppo sociale riconosciuto come tale. In tal modo la differenza viene appiattita e banalizzata in modelli rigidi di giudizio che condizionano la percezione dell'altro e i caratteri dell'interazione.

"I bambini cinesi hanno caratteristiche proprie di comportamento e di carattere. Sono schivi, timidi e riservati. Rispetto ai nostri bambini italiani più vivaci, estroversi e rumorosi, avere a che fare con un bambino cinese è molto piacevole, diventa una specie di relax. Sono sempre molto sorridenti e disponibili ad accettare tutto quello che gli viene richiesto dagli adulti. Sono bambini che non dicono mai di no, che non si ribellano mai, i bambini cinesi. Sono sempre disposti a lavorare e deve essere l'insegnante che deve capire quando è il momento di smettere perché hanno un tale rispetto per la figura dell'insegnante che non ammetterebbero mai di essere stanchi e finirebbero per subire. Sono bambini molto graditi all'interno della classe per questo loro comportamento così corretto. I bambini nord africani sono molto simili ai nostri: si sente che sono più vicini...sono mediterranei. I bambini nomadi arrivano invece con molte carenze di apprendimento, memorizzano con molta difficoltà, hanno una capacità di attenzione molto inferiore a quella degli altri bambini. Si riesce a recuperarli solo con un lavoro molto costante e questo è molto difficile per le loro continue assenze, per i loro continui spostamenti: quando rientrano bisogna cominciare tutto da capo."

Stereotipo non significa necessariamente falsa rappresentazione se non nella sua accezione di estrema generalizzazione e banalizzazione di un carattere o un aspetto della diversità. Ciò che voglio dire è che quello che dichiarano le maestre probabilmente è vero: di falso, o meglio di falsificante, c'è il rischio che la percezione superficiale di alcuni caratteri legati all'identità culturale di questi bambini possa ostacolare una conoscenza più approfondita, finisca per offuscare la realtà, conduca a sottovalutare, o al contrario sopravalutare, il significato dei loro comportamenti trascurando così i loro bisogni, travisando le loro richieste. Finendo alla fin fine per alimentare il pregiudizio. Uso il termine pregiudizio in senso stretto per indicare atteggiamenti, azioni e comportamenti derivati da un giudizio preliminare o preventivo, non sostenuto dall'esperienza o comunque basato su dati inesatti, esperienze limitate o indebitamente generalizzate. Tale pre-giudizio comprende un atteggiamento "pro" o "contro" da cui deriva l'attribuzione di un valore positivo o negativo. Il pregiudizio è connotato da una componente affettiva, esclude la possibilità di altri giudizi e non prende in considerazione altre prove. Dal pregiudizio discendono azioni e comportamenti che esprimono, a seconda dei casi, accettazione o rifiuto (11).

Quando il pregiudizio diventa demagogia

In tal senso il pregiudizio non investe necessariamente l'altro di caratteri negativi e non sempre provoca un'azione di allontanamento e di esclusione. A volte una lettura eccessivamente superficiale e demagogica della diversità si traduce in un atteggiamento di accettazione dell'altro, ma tale accettazione si basa comunque su una rappresentazione falsa e fuorviante della realtà. L'incontro con lo straniero mette sempre in discussione credenze e valori provocando incongruenze tra le proprie convinzioni e i propri atteggiamenti (possiamo essere sinceramente convinti che tutti gli uomini siano uguali, ma finiamo per frequentare solo i nostri simili, tenendo a distanza i 'diversi'; possiamo rispettare tutte le religioni, ma non ammettere la poligamia....) Si produce allora una situazione di dissonanza cognitiva (12) che provoca disagio e costringe il soggetto a cercare di ridurre la discordanza. In molti casi il pregiudizio, positivo o negativo che sia, può rappresentare un modo per ristabilire l'ordine: una sorta di autoinganno per nascondere le contraddizione dei propri sentimenti o delle proprie esperienze.

Le parole di alcune delle maestre intervistate ne sono un esempio: la diversità di cui sono portatori i bambini nomadi, gli ostacoli che, a causa di tale diversità essi devono affrontare nell'inserimento scolastico e i problemi che la scuola stessa deve risolvere nello sforzo di garantire loro, e a tutti gli altri, un trattamento giusto e imparziale, si smorzano e si celano in una rappresentazione semplificata e alla fin fine cieca della realtà. Probabilmente lo sforzo di rimanere coerenti al principio dell'uguaglianza è sincero, ma il risultato è l'inganno, verso sé stessi e verso l'altro. Del resto, come si suol dire, di buone intenzioni sono lastricate le vie dell'inferno.

"I bambini nomadi non si sentono diversi dagli altri bambini, assolutamente, solo che hanno una diversità di impostazione di vita, tutto lì. Perché loro hanno una loro cultura e la rispettano. Noi la rispettiamo, anzi, sensibilizziamo anche gli altri bambini su questo. Questi bambini hanno un modo di vita diverso però non si vergognano. Se mai possono vergognarsi del vestito che portano perché magari non è bello come quello degli altri bambini, ma questo avviene anche tra i nostri bambini, perché un bambino che è vestito male la vede la differenza con un altro bambino della stessa scuola che è vestito bene, che ha più agiatezza...ecco, forse queste cose...ma poi ognuno di noi vive la propria cultura, la propria vita, il proprio modo di essere...Noi qui a scuola lavoriamo per far sentire i bambini tutti uguali, perché nel momento in cui si opera nella scuola non ci sono diversità, l'uno vale l'altro."

"Le mamme dei bambini nomadi sono delle mamme normalissime: la mamma è mamma, sempre e in ogni caso. Lo sono anch'io e lo sono loro. Perciò dal lato affettivo non manca niente a questi bambini. Se hanno la mamma stia tranquilla che sulla mamma non si discute perché 'si passi sul mio corpo ma mia figlia o mio figlio non si toccano'.. Io non ci vedo niente di scabroso nel modo di vivere della famiglia nomade" (A questo punto io faccio notare che mandano i bambini a fare la questua) "Certo mandano i bambini a chiedere ma solo per necessità" (Insisto che al di la del giudizio che si può dare della cosa, questo crea una diversità) "Questa diversità c'è perché noi ci inteneriamo quando è il bambino a chiedere e allora si da: invece si può dare anche all'adulto, no? Se noi cambiassimo il nostro atteggiamento e fossimo disposti a dare anche all'adulto non ci sarebbe bisogno del bambino nomade che va a chiedere. Per esempio sotto Natale i bambini fanno molte assenze perché le persone vengono toccate da questa mano tesa." (Domanda: ma secondo lei i bambini si vergognano di questo?) "Certe volte sono obbligati e si vergognano , specialmente i bambini di quarta. I bambini piccoli penso che lo fanno perché così possono avere i soldi: 'vado a comprarmi la merenda, se è carnevale vado a comprarmi il fischione così gioco anch'io'. Il bambino via via che cresce diventa sensibile alla situazione che sta vivendo mentre da piccoli credo che la vita sia come un gioco. Da grandi invece vengono obbligati e se ne vergognano, quindi il rifiuto. Ma vengono obbligati per ragioni ovvie, per avere la possibilità di vivere, di comprarsi il pane. Qualche bambino ne ha parlato con l'insegnante perché queste cose non le racconta agli altri bambini: 'Io vorrei venire a scuola, ma non posso perché devo andare a chiedere' 'Ma tu perché non dici al papà che devi venire a scuola e che lo faccia lui questo? (13)' 'Maestra, io glielo ho detto, ma lui mi ha risposto che da solo non ce la fa e che ha bisogno anche del mio aiuto!' 'Allora fai bene!' dico io perché tutto ciò che funziona all'interno di una famiglia non si può smantellare o annullare, io rispetto le idee degli altri, rispetto le idee di un genitore. Evidentemente finché si tratta di chiedere i soldi per mangiare non sarà questo grossissimo danno"

"Io cerco di insegnare ai bambini nomadi che non sono solo loro ad essere poveri, che al mondo ci sono tanti bambini poveri e che se un giorno non gli porto le caramella è perché quel giorno posso essere io a non avere i soldi. Il bambino queste cose deve capirle e pensare che non è l'unico a vivere in condizioni di disagio. Se tutti facciamo qualche cosa e se il bambino cresce educato bene, comincia a riflettere sulla propria vita e pensare anche di poterla cambiare. Perché no? Certo questo discorso non varrà per tutti i nomadi, ma chi è riuscito a pensare di poter cambiare, penso che possa farcela."

Quando il pregiudizio diventa razzismo

Le testimonianze che seguono mi sembra confermino pienamente l'atteggiamento pregiudiziale di chi insiste nel sottovalutare la diversità dei bambini nomadi, minimizzando le difficoltà e i traumi che questi, se pure all'interno di una scuola dove tutti lavorano con il massimo impegno, devono giorno per giorno affrontare confrontandosi con una cultura che è a loro estranea. Sono bambini che vivono sulla propria pelle il pregiudizio di cui sono fatti oggetto, bambini che, se pure protetti dall'istituzione scolastica, subiscono rifiuto e razzismo. Bambini diversi, oggettivamente e soggettivamente diversi.

"No, i bambini zingari non vengono mai invitati a casa dei loro compagni. C'è solo una mamma che qualche volta invita a giocare Matéo, un bambino nomade compagno di classe del figlio. Una volta l'ha invitato a dormire a casa sua e lui era al settimo cielo dalla gioia, me l'ha continuato a ripetere tutta la mattina: 'Lo sai che stasera vado a dormire a casa di Pietro, lo sai che stasera vado a dormire a casa di Pietro...' e così via, per tutto il giorno e il giorno dopo non smetteva più di raccontare. Ma pare che là i due, l'altro bambino ha dei problemi, si siano scatenati e lui stesso ci ha detto: 'Mbè, la prossima volta devo cercare di contenermi, di stare più attento' Ma lui non era mai stato in vita sua in una casa, in una casa vera, e questa sua gioia era incontenibile! Ma non credo che le altre mamme avrebbero la stessa disponibilità: questa è una mamma particolare che ha avuto il coraggio di adottare un bambino problematico. Noi all'inizio dell'anno abbiamo detto: 'Avremmo il piacere che i bambini fuori della scuola si frequentassero tutti visto che qui dentro giocano e lavorano insieme senza difficoltà' Ma la gente ha paura ad invitare i piccoli zingari a casa perché secondo me, visto che gira questa voce che gli zingari vanno a rubare nelle case, siccome vivono tutti nello stesso quartiere hanno paura che una volta che il bambino conosce la casa possa tornare per rubare".

"No, non mi sembra che ci siano da parte dei bambini italiani pregiudizi verso i bambini nomadi. Sono bambini inseriti. Certo se c'è una festa di compleanno non li invitano, questo è sicuro, però a livello di gioco in classe non ci sono problemi. Ma fuori dalla scuola non ci sono rapporti. Anche perché è atavica la storia dei pregiudizi nei confronti dei nomadi...che rubano, che sono cattivi, per cui a casa non li vogliono! Magari dipenderà anche dal fatto che qualche famiglia non vuole metterli in imbarazzo perché questi qui poverini, abitano in un campo, non hanno una vera e propria casa..."

"Nei confronti dei bambini stranieri no, ma nei confronti dei bambini zingari ci sono molti pregiudizi da parte delle famiglie, soprattutto quelle che abitano nei pressi del campo nomade manifestano un'insofferenza molto accentuata: dipende molto dal tipo di rapporti che hanno avuto con loro. Capita che giocando i bambini si diano spintoni o che abbiano comportamenti troppo vivaci. Ma quello che si perdona ad un bambino italiano, non si perdona al bambino nomade. Basta una piccola cosa che le famiglie protestano e spetta a noi maestre o alla direttrice ridimensionare le cose. Questo mi sembra un sintomo piuttosto significativo del pregiudizio: il bambino nomade deve essere il più controllato di tutti perché da lui non vengono accettati certi comportamenti. Al bambino nomade non viene perdonato proprio niente. Occorre quindi una sorveglianza particolare per prevenire episodi che possano essere il pretesto per creare tensione. A me questo dispiace anche se purtroppo a volte gli zingari sono tra i più vivaci: spintonano o reagiscono in modo eccessivo alle provocazioni dei compagni. Loro come gli altri comunque. Solo che io mi accorgo di avere una vigilanza maggiore nei confronti di questi bambini, ma non perché ho paura che i genitori italiani possano venire a scuola a protestare, ma perché mi dispiace che all'uscita qualche adulto possa rimproverarli. Nei loro confronti sono meno disponibili a capire."

La diversità di cui sono portatori questi bambini, li espone dunque a sguardi poco indulgenti, a discriminazioni di tipo razzista. E non è facile intervenire, parlare di razzismo in presenza di colui che ne è bersaglio. Occorrono tatto, parole giuste, interventi equilibrati perchè qualcuno che ha ricevuto un'offesa possa sentirsi risarcito. Paradossalmente dire 'siamo tutti uguali, anche lui che è nero', vuol dire ammettere una diversità, sottolineare una differenza.

"E' capitato che qualche bambino venisse chiamato con disprezzo 'zingaro' dagli altri bambini della scuola e che lui lo vada a riferire alla maestra. Io in questo caso mi limito a dire 'Lui è un bambino nomade e merita rispetto perché è un bambino. A quello che mi risulta non ha nessuna caratteristica migliore o peggiore del bambino che lo ha insultato. Ognuno vale per quello che è non per dove nasce. Il fatto che lui sia nato in un campo non lo rende né migliore né peggiore di voi.' Questi discorsi si fanno sempre in presenza del bambino nomade perché lui ha bisogno di verificare che tu sei intervenuta davvero, che di te si può fidare. E' lui che ti ha chiesto di intervenire e quindi se intervieni devi intervenire con lui presente, altrimenti non ha senso. Noi abbiamo l'abitudine di fare delle assemblee di classe: ogni tanto se c'è qualche problema ci riuniamo proprio perché l'assemblea toglie quel senso di...io sono la maestra e tu il bambino. Parliamo insieme per risolvere i problemi e sono presenti tutti i bambini, quindi i nomadi conoscono perfettamente questo discorso."

"Quando a scuola abbiamo affrontato il problema del razzismo abbiamo capito che i bambini nomadi questo problema lo sentivano più di altri. Abbiamo portato il discorso sul fatto che i primi a subire il razzismo sono i nomadi. Che i bambini sapessero che i nomadi non sono soltanto quelli che chiedono l'elemosina ma che sotto il nazismo hanno pagato più degli altri. Che i bambini sapessero che gli zingari hanno una lunga tradizione alle spalle, che sono i figli del vento."

3. Dalla parte dei bambini: uguali o diversi?

"Erano i primi tempi della guerra in Yugoslavia e lui mi diceva che veniva da una città dove in quel momento si stava combattendo. Allora gli altri bambini incuriositi chiedono 'Si combatte?' e lui 'Si', 'E chi vince?' 'Non è mica una partita di calcio!'."

Le pagine precedenti hanno mostrato come l'inserimento dei bambini stranieri all'interno della scuola costringa a fare i conti con l'esigenza di rispettare due principi contrapposti ma interdipendenti -il principio dell'uguaglianza e quello del rispetto della diversità- e che questa esigenza prefigura azioni ed atteggiamenti che oscillano verso l'uno o l'altro dei due principi in una sorta di strategia d'alternanza che l'istituzione stessa richiede e riproduce.

Ma cosa trapela dai comportamenti dei bambini? Vince il desiderio di sentirsi uguali agli altri o il vissuto della propria diversità culturale prevale?

In realtà, a conferma dell'analisi fin qui fatta, sentimento di uguaglianza (inteso letteralmente come sentirsi e voler essere uguali a) e percezione della differenza convivono nei comportamenti dei bambini stranieri segnando in tal senso i loro atteggiamenti e il modo di agire l'interazione. Né potrebbe essere altrimenti. Da una parte la scuola invia loro messaggi contraddittori: chiede loro di comportarsi come tutti gli altri bambini, rispettando le stesse regole ma, nel contempo, li tratta in maniera oggettivamente diversa, se pure con l'intenzione di creare per loro pari opportunità; dichiara di attribuire a tutte le culture la stessa dignità e lo stesso valore, ma di fatto di tali culture non parla sperperando così quello che potrebbe diventare un patrimonio collettivo; compie sforzi notevoli per metterli alla pari con gli altri bambini, ma non ha abbastanza risorse per valorizzarne differenza e abilità. D'altro canto i bambini percepiscono la propria differenza, sono più poveri, a volte malvestiti, meno bravi, ma sentono anche, nei giochi, nei rapporti quotidiani di amicizia e solidarietà con i loro compagni e le maestre, di essere e di voler essere, bambini uguali a tutti gli altri bambini.

Quando ho sollevato il problema con le maestre intervistate -i bambini stranieri si sentono uguali o diversi?- le risposte che ho avuto, lasciano infatti intravedere da parte dei bambini una commistione di sentimenti e atteggiamenti che derivano da un vissuto in cui si alternano esperienze di inclusione e di esclusione.

Quando la differenza diventa sia sentimento di inferiorità che orgoglio di appartenenza.

Per la verità, come prima risposta, tutte le maestre concordavano nell'affermare che i bambini vogliono, in maniera a volte perfino ostinata e caparbia, sentirsi uguali agli altri bambini.

"Ho avuto l'esperienza di una bambina cinese che voleva essere uguale agli altri, tant'è che aveva voluto fare la comunione come gli altri, nonostante la famiglia non fosse di religione cattolica. Ma lei voleva proprio essere come gli altri. Una cosa strana. Tra l'altro molto in gamba come ragazza, perché era riuscita a leggere, a scrivere, a far tutto e cercava proprio di essere come gli altri compagni."

Ma appare evidente come in un contesto, la scuola (14), dove i programmi ministeriali e i libri scolastici non contemplano la conoscenza e la valorizzazione delle culture straniere, dove non è tenuto in alcuna considerazione il fatto che un alunno straniero possa parlare due o più lingue, gli stranieri, soprattutto se bambini, tendono a svalorizzare la propria cultura e cercano in ogni modo di mimetizzare la loro diversità imitando i propri compagni.

Come era giusto che fosse, Cheng ha imparato dai suoi compagni ad usare le posate, ma non gli è stata data l'occasione di insegnare a sua volta l'uso dei bastoncini.

"All'inizio Cheng non voleva mangiare niente, riso, solo riso. Poi un giorno mi ricordo che i compagni, perché come riescono a convincere i bambini difficilmente l'insegnante ci riesce, perché da parte dell'insegnante può sembrare un imposizione, ma quando si stabilisce un rapporto con i compagni... Cheng aveva fatto un amicizia particolare con due bambine e lui, che non parlava ancora l'italiano, diceva solo continuamente "Giulia, Anna" e se una delle due non c'era lui continuava a guardarsi intorno e a chiamarla..insomma un giorno Giulia è riuscita a convincerlo a mangiare. Anche per l'uso delle posate è stata la stessa cosa. All'inizio non capiva, non sapeva come...allora ci siamo avvicinati e abbiamo detto: "Guarda Giulia" e imitava. Aveva una grande voglia di imitare, di fare. Abbiamo fatto per Pasqua un bigliettino molto particolare, con la tempera e mi ricordo che li stavo chiamando uno per volta perché era un lavoro che dovevano fare vicino a me. Cheng aveva paura che a lui non lo facessi fare e continuava a venire da me per farmi capire che lui non voleva essere escluso e quando è stato il suo turno era così contento che rideva e a continuato a ridere durante tutto il lavoro, a ridere di gusto: si vedeva che provava gioia a farlo."

Certo, se facciamo un discorso utilitaristico in termini di priorità, è più urgente che Cheng impari a mangiare con le posate piuttosto che gli altri con i bastoncini, ma il discorso cambia se ragioniamo in termini di valorizzazione della differenza culturale. E in ogni caso non si tratta soltanto di imparare ad usare le posate in un gioco amico di complicità tra bambini: l'apprendimento scolastico richiede un notevole impegno concettuale e logico, specie se si parte da una situazione iniziale di grosso svantaggio e la difficoltà del compito può creare nei bambini un forte senso di frustrazione.

"Vedono i compagni scrivere, vorrebbero scrivere anche loro: c'è una continua richiesta di aiuto che non sempre possiamo soddisfare adeguatamente perché in questa scuola ci sono altri bambini che hanno problemi, non solo i bambini nomadi. Il desiderio di essere come gli altri ce l'hanno, ma poi si scontrano con le difficoltà."

Il problema vero è che se gli sforzi che fanno questi bambini per apprendere nuovi linguaggi non è sostenuto da uno sforzo altrettanto forte da parte della scuola nel sostenere la loro identità culturale il rischio, da ambedue le parti, è che tale identità venga svalorizzata. A questo punto i bambini potrebbero provare sentimenti di inferiorità, vergognarsi della loro differenza, cercare addirittura di nasconderla.

"Stavamo parlando della Bosnia e organizzando la raccolta di viveri. Mirko si è avvicinato e mi ha detto sottovoce: 'Lo sai che anche noi siamo poveri? Ma non dirlo a nessuno neanche alle altre maestre, lo dico solo a te'."

"Sono stato assente perché sono andato ad un matrimonio' 'Come era?' Sorride, ma non ne parla, sembra quasi meravigliato che qualcuno possa chiedergli queste cose"

"Ma tu prima dove vivevi ?" "In Yugoslavia" "Dove ti piace di più?" "Qui" "Perché?" "Perché in Yugoslavia ci sono i banditi" Solo questo ha raccontato."

"Non raccontano mai gli usi e i costumi del loro paese di provenienza, si ha quasi l'impressione che si sentano più italiani che filippini, senegalesi o altro. Mi sembra che ci sia quasi una scissione tra quello che vivono a casa e quello che sono a scuola. Tendono ad integrarsi molto, a sentirsi quanto più possibili uguali. Né gli italiani mostrano curiosità in questo senso quasi non si rendessero conto della differenza."

"Omar è egiziano, fa la quinta. Suo padre ha cominciato a fargli frequentare la moschea, ma lui non ci ha detto niente, ce ne siamo accorti dal fatto che a un certo punto alla mensa ha smesso di mangiare carne di maiale: forse l'ha vissuto come un castigo perché il salame gli piaceva. In classe abbiamo accennato al fatto che la sua religione gli impediva di mangiare carne di maiale, ma nessuno ci ha fatto caso."

Alcune maestre ritengono che questi atteggiamenti da parte dei bambini stranieri, i loro silenzi, le loro omissioni, non debbano essere interpretati come espressione della percezione di una differenza vissuta come sentimento di inferiorità, ma come il segnale di una vittoria, di un'integrazione riuscita. Come se, in un contesto scolastico che ne favorisce l'integrazione, il loro essere bambini uguali a tutti gli altri bambini sia un vissuto così forte da far loro "dimenticare" la propria specificità culturale o comunque da far sì che tale diversità venga messa in secondo piano, rimanga, per così dire, fuori dalla porta. Può darsi che questo sia vero, può darsi che sia un'esigenza autentica e legittima. A me pare piuttosto che il prevalere nei comportamenti dei bambini stranieri della loro identità di uguali a discapito della loro identità di diversi, sia solo un aspetto di una dinamica interattiva molto più complessa, all'interno della quale è sempre presente una minaccia di omologazione culturale, di estraniazione da sé. In tal senso non credo possa essere del tutto condivisibile l'opinione di chi sostiene che, poiché suo compito istituzionale è proprio quello di trattare tutti gli alunni da uguali, sia dovere della scuola giocare esclusivamente su questo fronte. La verità è che, in nome di un principio universalistico sia etico che giuridico, si finisce per giustificare il fatto che la scuola non valorizza in alcun modo la diversità.

"A scuola i bambini stranieri vogliono sentirsi uguali, chiedono di essere uguali e non è giusto farli sentire diversi. Il discorso che fa lei sul valorizzare la loro cultura dovrebbe essere fatto in un lavoro interclasse dove ogni singola classe viene smembrata all'interno di vari gruppi. La classe non va bene perché loro in classe hanno bisogno di sentirsi insieme ed uguali. Parlare della loro cultura significherebbe farli sentire diversi e questo non va bene, almeno in una scuola elementare. Il problema è che questo lavoro all'interno dei gruppi non si fa e così va a finire che, poiché solo della nostra cultura si parla, questa finisce per essere la migliore di tutte."

Le conseguenze di ciò rischiano allora di essere gravi: nella realtà il confine tra il legittimo desiderio di sentirsi uguali agli altri bambini e la vergogna per una diversità che non viene in alcun modo valorizzata, è davvero sottile.

"Quasi tutti i bambini cinesi lavorano, però lo nascondono. Non so se hanno paura di denunce da parte nostra nei confronti dei genitori visto che lavorano anche di notte facendo le borse e aiutando gli adulti, oppure tacciono perché si vergognano di dover lavorare fin da piccoli mentre i loro compagni non lo fanno. Tra loro parlano cinese tranquillamente ma con noi o con gli altri bambini parlano l'italiano, magari senza proposizioni, magari senza le doppie, ma parlano l'italiano. Nemmeno se io chiedo una cosa me la dicono, nemmeno insistendo 'Come si dice in cinese albero?' 'Non me lo ricordo' 'Impossibile che non te lo ricordi, a casa la parlerai la tua lingua!' Ma loro si rifiutano di rispondere."

Ma c'è anche un altro pericolo: che a fronte di un vissuto della propria differenza in termini di inferiorità, i bambini stranieri cerchino di soddisfare il legittimo bisogno di appartenenza proprio a ciascun individuo, isolandosi da coloro che percepiscono come diversi e cercando la solidarietà dei loro simili. Così facendo non solo corrono il rischio di aumentare un divario che all'esterno di un ambiente protetto come quello della scuola, si amplifica e rafforza, ma anche il rischio, altrettanto grave, che tale comportamento possa essere frainteso.

"Spesso Senjia mi chiede il permesso di andare nell'altra classe per cercare sua cugina e anche quando giocano in cortile tendono a stare con i bambini del campo piuttosto che con i compagni di classe. E secondo me non è perché vivano l'esclusione, sono loro che non si aprono agli altri forse per timore, forse per paura di non essere accettati, magari ci sarà anche questa componente ma io noto che sono loro che non accettano. E' Senjia a dire :'Non mi voglio sedere con quella là e non viceversa' e io non credo che sia per timidezza, magari ci sarà anche quella, ma questa è una classe dove i bambini italiani sono abituati a stare con i bambini stranieri e nessuno discrimina, io credo che sia proprio una loro chiusura nei confronti degli altri: forse già da piccoli sono diversi."

O forse, già da piccoli hanno così introiettato un vissuto di esclusione da sviluppare a loro volta una forma di pregiudizio di risposta. E' possibile che bambini di sei anni non abbiano ancora imparato dagli adulti a guardare con diffidenza o ostilità un coetaneo straniero, magari con la pelle di un altro colore, ma è certo che un bambino zingaro, anche a sei anni, ha già sperimentato in prima persona cosa significhi essere oggetto del pregiudizio altrui e finisca per attribuire a chiunque sia diverso da lui propositi di esclusione nei suoi confronti.

Le testimonianze che ho raccolto non lasciano dubbi sul fatto che l'incontro con lo straniero si svolge davvero su un terreno aspro e pieno di trabocchetti. Ciò che accade nell'interazione può essere letto da punti di vista diversi e considerazioni apparentemente contraddittorie possono essere altrettanto vere.

Può aver ragione allora questa maestra quando dichiara: "I bambini nomadi non si offendono se la maestra molto tranquillamente gli dice 'Io voglio che tutti i bambini siano puliti e anche tu devi esserlo'. Si offendono se invece con disprezzo viene chiamato zingaro. Il desiderio di questi bambini è di essere considerati come tutti gli altri"; ma altrettanto autentica, da parte degli stessi bambini, è la percezione evidente della propria diversità. Ne deriva un vissuto che può essere di vergogna e insieme anche di orgoglio. E fiducia e diffidenza nei confronti dell'altro da sé, possono convivere in un unico sentimento.

"Quando Davide mi ha detto che lui sapeva benissimo come era fatto un treno perché lui sui treni ci andava a rubare, me lo ha detto ridendo. Me lo rivedo ancora: come una sorta di orgoglio o di liberazione come per dire: 'Io so fare questo...tu mi fai vedere il treno e pensi che io non lo conosca, forse io non so come si scrive ma ti assicuro che io so fare altro' . Ma l'ha detto a me, solo a me, perché si fidava. E' difficile che raccontino qualcosa: questo misto di vergogna e orgoglio scatta verso gli 11 anni: io ti mostro ciò che voglio che tu conosca di me però non ti dico altro anche se sarei orgoglioso di dirti ciò che so fare. Un'altra volta stava raccontandomi di una partita di calcio che avevano fatto al campo. Gli dico: 'Ma pensa che bello, dillo anche agli altri!' ma lui si è rifiutato di dirlo. Il messaggio è questo: io quando sono qui gioco, mi comporto come gli altri ma qual'è la mia vita fuori di qui quella non te la racconto. Secondo me sono i genitori stessi a dire ai bambini di non raccontare a scuola quello che succede al campo. Lei capisce, con i bambini che hanno difficoltà, non è giusto insistere...devo limitarmi molto nel chiedere quali esperienze loro fanno perché so che entrerei nel loro mondo nel quale loro non vogliono che io entri e questo va rispettato. Soprattutto se ci sono problemi si chiudono: è una sorta di autodifesa."

All'interno di un rapporto sbilanciato in termini di potere, come può essere quello tra bambino e maestra, tanto più quando, come nel caso che stiamo analizzando, vi si somma un rapporto di potere altrettanto asimmetrico come quello tra straniero e autoctono, spetta allora al più forte la responsabilità di trovare il modo per gestirne la complessità. In questo caso l'intuito, la solidarietà e la sensibilità, possono essere di grande aiuto.

"Con i bambini stranieri non ci sono problemi si comportano esattamente come gli altri bambini e vengono accettati come tali....Il primo disegno che ha fatto ha evidenziato questo suo essere diversa 'io uso il marrone per colorare la mia faccia poiché la mia faccia è più scura'. Questa è stata l'unica manifestazione di diversità per il resto non ha mai dato l'impressione di sentirsi particolarmente diversa, di soffrire. E' una bambina tranquilla. Anche quella frase l'aveva detta tranquillamente quasi a giustificare il fatto di aver preso un pastello diverso dai compagni. Ma era una bambina molto chiusa che manifestava poco i suoi sentimenti. Ci ha detto che tornava nelle Filippine solo quando le abbiamo chiesto se ne era contenta e ha detto solo questa frase: 'Mi dispiace lasciare i miei compagni. C'è stato poi un altro bimbo di colore molto vivace ed esuberante ma ben accettato dai compagni. Anzi la sua diversità lo portava ad esibirsi, a voler emergere. Ma era un discorso di carattere. Voleva essere al centro dell'attenzione. Faceva della sua diversità un punto di forza. Ma questo non accade mai con i bambini nomadi. I bambini nomadi o diventano aggressivi o si ritirano, si isolano un pò dal gruppo. Alla fine giocano con gli altri, ma all'inizio c'è questa difficoltà a giocare tutti insieme. Può darsi che ci sia qualche accenno di rifiuto da parte dei compagni , ma anche un loro sentirsi un pò diversi e tenersi in disparte. Secondo me hanno un vissuto di rifiuto e ne soffrono. Infatti quando l'adulto si mostra disponibile e affettuoso nei loro confronti tendono più a riferirsi all'adulto che ai compagni. Quando ricevono un gesto dall'adulto che dimostra che loro sono ben accettati gli brillano gli occhi. Quando Luca è tornato dopo una lunga assenza, ogni volta che i bambini si mettevano in fila, mi trovavo la sua mano nella mia. Cercava sempre di stare vicino a me o alla mia collega."

"Il discorso è che tutti i bambini sono uguali; quindi ognuno deve avere la possibilità di dimostrare le proprie abilità. Secondo me questo è fondamentale. Come è fondamentale la socializzazione e la socializzazione di un bambino nomade avviene particolarmente sul piano affettivo. La prima volta che ho avuto a che fare con un bambino nomade non sapevo da che parte prenderlo...tutto è cominciato quando ho capito che lui aveva bisogno che io lo toccassi, per cui quando gli parlavo gli prendevo le mani, me lo tenevo vicino ed era come se lui, a quel punto, avvertisse che potevamo parlare. Erano frequenti le volte che durante le ore di recupero, molte ore venivano dedicate a lui che aveva più bisogno sul piano scolastico, lui mi si buttasse addosso, cercasse il contatto fisico...piano piano ha capito che a lui si chiedeva lo stesso rispetto per le regole scolastiche che si chiedeva agli altri, è stato una specie di contratto: 'Io adesso lavoro con te, però quando lavoro con gli altri, tu non disturbi così come io esigo che gli altri non disturbino quando lavoro con te'."

"Con Filippo, un altro bambino nomade di 11 anni, il rapporto iniziale è nato dal fatto che entrambi suonavamo la fisarmonica: abbiamo cominciato così a comunicare tra noi. Lui inizialmente ha avuto difficoltà ad accettare gli altri: non erano gli altri ad avere questo problema nei suoi confronti, ma lui. Forse perché era più grande dei suoi compagni e anche molto orgoglioso e sensibile. Bastava un nulla ad offenderlo. Se un compagno gli si rivolgeva in modo magari meno dolce lui si offendeva subito e si chiudeva."

Quando l'estraneità diventa estraneamento

Ma ci sono anche i casi in cui per il bambino straniero il compito di conciliare uguaglianza e differenza è davvero troppo gravoso. Il confronto con la cultura maggioritaria diventa lacerante e intollerabile, il divario aumenta e allora, per ritrovare un equilibrio, per ristabilire un'appartenenza, si compie una scelta, si opera una censura. L'estraneità diventa estraneamento. Estraneamento nel senso letterale della parola: rendersi estraneo da una parte di sé, rinunciare a una parte della propria identità.

Nel caso di Sun Zu, alla propria identità di diversa.

"A livello di socializzazione Sun Zu è molto contenta e si nota da tante piccole cose. Prima non era così. Le mancava la Cina. Ne parlava sempre. Parlava di questa nonna che è rimasta lì. Adesso ne parla sempre con meno nostalgia. Io le dico: 'Mi raccomando, adesso che hai imparato bene l'italiano non dimenticare il cinese perché più avanti ti potrebbe essere utile per un lavoro' 'Sai lo parlo solo con la mamma' Qualche giorno fa le ho chiesto come si scriveva casa in cinese ma lei mi ha detto che non se lo ricordava più."

Nel caso di Mirko, alla propria identità di bambino uguale a tutti gli altri bambini della sua età.

"Si avvertiva veramente la sua sofferenza. Dormivano in cinque dentro una macchina e quando arrivava a scuola dopo un pò si addormentava perché era stanco e aveva freddo. Ha frequentato quasi un intero anno poi non è più venuto. So che adesso lui suona in mezzo alla strada. E' troppo orgoglioso per chiedere l'elemosina: in cambio suona, offre una sua prestazione. Abbiamo chiesto tante di volte di farlo tornare ma la madre dice che si vergogna a venire. Non viene perché sente di non far più parte del mondo dei bambini che, in fondo, era un mondo piuttosto spensierato. Adesso sente la responsabilità della famiglia e non vuole più tornare. Mirko ha insegnato a tutti gli altri che avere una casa, un luogo dove risiedere, un pasto e tutto il resto, se pure in una periferia difficile come questa, vuol dire poter crescere bene. I bambini hanno capito che Mirko ha lasciato la scuola perché non aveva un posto dove dormire, un posto fisso dove abitare e che quindi doveva, pur essendo un bambino, cercare un modo per guadagnarsi da vivere".


Note

1- La ricerca, che si è svolta durante l'anno scolastico 1993/94 ha coinvolto con colloqui e interviste in profondità, la direttrice della scuola, le insegnanti, un campione di genitori italiani e stranieri e le due mediatrici culturali che svolgono all'interno il compito di assistere i bambini zingari nell'inserimento scolastico, non tanto dal punto di vista didattico, poiché per ciò ci sono le insegnanti di sostegno e quelle del laboratorio linguistico, quanto, piuttosto, per facilitare la loro integrazione in un contesto culturale a loro estraneo. Sono due giovani ragazze Rom che, dopo aver conseguito la terza media, hanno frequentato un corso di formazione a cura dell'Opera Nomadi con la collaborazione dell'Università degli Studi di Milano. Si tratta della prima iniziativa italiana di questo tipo.

2- Nel corso dell'articolo userò come sinonimi i termini zingaro, nomade, Rom (Romni, nella declinazione femminile). Quest'ultima parola nella lingua Romanes significa uomo.

3- Le prime iniziative finalizzate alla scolarizzazione dei bambini zingari risalgono alla fine degli anni '50 ad opera di volontari che si recavano nei luoghi dove erano accampati i nomadi. Data l'instabilità e la precarietà dei campi nacquero le classi Lacio Drom che in un primo tempo trovarono ospitalità presso le Parrocchie e solo successivamente, a seguito di una convenzione tra Ministero della Pubblica Istruzione e Opera Nomadi, all'interno della scuola pubblica. Erano classi speciali, separate dalle altre (se i bambini partecipavano alla refezione, lo facevano in locali a parte e con stoviglie riservate a loro), condotte da insegnanti che non percepivano alcun stipendio.

Bisogna aspettare gli anni '70 perché i bambini Rom siano ammessi nelle classi comuni con l'affiancamento degli insegnanti Lacio Drom. Questi, con ruolo ad esaurimento, furono poi sostituiti da insegnanti di sostegno, a loro volta sostituiti, nell'86, a seguito della C.M. 207, da insegnanti della Dotazione Organica Aggiuntiva. La circolare sanciva inequivocabilmente il diritto dei bambini zingari ad entrare nella scuola di Stato, anche se stranieri e non residenti. Il Ministero, revocando ogni precedente delega, si assumeva tutte le responsabilità per fornire il miglior servizio possibile nel rispetto della diversità culturale. Nel frattempo gli interventi di rinnovamento dei programmi della scuola elementare, risalienti al 1985, avevano affrontato direttamente il problema dell'integrazione nella scuola dei gruppi socialmente e culturalmente minoritari attraverso la valorizzazione delle risorse individuali e l'istituzione di percorsi individualizzati di apprendimento scolastico.

Tali programmi sono stati codificati dalla legge 148/90, che ha riformato la scuola elementare e introdotto l'organizzazione modulare nelle classi (ore di compresenza, attività di recupero in particolare per bambini stranieri, introduzione dell'insegnamento della seconda lingua, progetti speciali...) In realtà la contrazione in questi anni della spesa pubblica non ha consentito, almeno per il momento, il pieno decollo della riforma e i propositi dichiarati nella C.M. 207, sono stati in gran parte disattesi.

Nel frattempo, a fronte dell'aumento progressivo di alunni extracomunitari, il Ministero della Pubblica Istruzione, con circolare n.301 dell'8/9/89, annunciava una serie di interventi intesi a garantire agli immigrati l'esercizio del diritto allo studio e la valorizzazione dell'apporto multiculturale indicando a tale proposito una serie di risorse già disponibili alle scuole sia in termini di programmazione che in termini di disponibilità del personale (Comma 6 dell'art. 14 della legge n.270/82 e artt. 2 e 3 del D.P.R. 419/74). Una successiva C.M. (n.205 del 26/7/90) precisava l'uso delle risorse possibili e introduceva, all'interno delle scuole, l'istituzione di un laboratorio linguistico per gli alunni stranieri con l'impiego di personale aggiuntivo attribuito alla scuola, il personale Doa, appunto, che però successivamente fu destinato ad altro impiego. Ulteriori tagli di risorse si sono avuti con il cosiddetto "decreto mangiaclassi" dell'agosto 1993. Nessuna applicazione ha inoltre avuto l'art.10 del D.I. 13/7/79 in cui si prevedeva un compenso incentivante per "l'attività di insegnamento prestata dal personale in eccedenza agli obblighi d'insegnamento in corsi di recupero e di sostegno o in altre attività di insegnamento extracurriculare". Attualmente i buoni propositi dell'amministrazione si esprimono nella costituzione, presso il Ministero della Pubblica Istruzione, di una Commissione per gli alunni nomadi e stranieri. Da questa commissione parte l'indicazione di introdurre all'interno della scuola dei mediatori di madre lingua che facciano da tramite tra gli alunni stranieri e l'istituzione.

4- I termini della questione sono descritti in modo appassionato in due libri di Charles Taylor: Multiculturalismo (Anabasi,1993) e Il disagio della modernità (Laterza, 1994)

5- Non mi soffermo nel corso di questo articolo sul modello organizzativo che la scuola, all'interno della quale ho svolto l'indagine, si è data per favorire l'inserimento degli alunni nomadi ed extracomunitari poiché ciò che mi interessa cogliere sono le contraddizioni in termini di comportamenti e atteggiamenti che si determinano in un contesto il cui compito istituzionale è quello di rispondere a principi contrapposti ed interdipendenti. Per chi invece sia interessato ad approfondire gli aspetti didattici e organizzativi della questione, segnalo di AA.VV., Un omnibus per i Rom, IL VENTAGLIO, Roma, 1994.

6- Per comodità di esposizione distinguo nell'articolo tra bambini stranieri e zingari anche se nella realtà molti dei bambini zingari che frequentano questa scuola non sono cittadini italiani (la maggior parte proviene dalle regioni della ex Jugoslavia).

7- Gadjo, gadjè al plurale, indica, in lingua romanes, coloro che non sono zingari.

8- Gli zingari, ad esempio: nelle condizioni in cui essi vivono (accampati in luoghi dove acqua e servizi igienici spesso mancano e anche quando ci sono, risultano insufficienti al bisogno) risulta davvero molto difficile mantenere decoro e dignità personale, ma è anche vero che, all'interno della loro cultura decoro e dignità assumono significati diversi da quelli attribuiti dalla nostra . Anche il giudizio sulle loro attività illegali conduce all'interno di un circolo vizioso se si tiene conto che il pregiudizio di cui sono fatti oggetto preclude loro qualsiasi possibilità di lavoro, che la perdita della propria identità culturale e l'isolamento dalla società civile li consegna nelle mani della criminalità organizzata...(Per approfondire questi temi, cfr. di A.R.Calabrò, Il vento non soffia più, Marsilio, 1992)

9- Cfr. A.Schizzerotto, "Disuguaglianza e diversità di fronte all'istruzione", in F. Crespi (a cura di) Azione sociale e pluralità culturale, Angeli, Milano, 1922, pp.274-287

10- La definizione è di F.Giustinelli (Cfr. F.Giustinelli, Razzismo, scuola e società, La Nuova Italia, Firenze, 1991)

11- Cfr. O.Klineberg, "Alcuni aspetti del problema del pregiudizio", in Rivista di sociologia, n.9, 1966

12- Cfr. L.Festinger, La teoria della dissonanza cognitiva, Angeli, Milano, 1973

13- Chiunque conosca un poco la cultura Rom, sa benissimo che la questua è consentita solo alle donne e ai bambini. Nessun uomo, per quanto povero e bisognoso, andrebbe mai a mangel.

14- Parlo ovviamente della scuola italiana in generale, non soltanto della scuola dove ho svolto l'indagine