da "La Repubblica"

del 14 Luglio 2000

L'appello del ricco Nord est

"Senza stranieri è la crisi"

Venezia, gli industriali: via ai permessi di lavoro o la produzione si ferma

di ALESSANDRA CARINI

VENEZIA

- Nelle piccole aziende della Riviera del Brenta, area nota in tutto il mondo per la produzione di calzature ricercate e rifinite a mano, non c'è più manodopera, specializzata o generica che sia. Nessuno che voglia fare l'operaio. E il presidente dell'Associazione calzaturieri, Giorgio Ballin, ha rivolto un accorato appello al governo: "Ci servono almeno mille immigrati altrimenti la produzione si ferma: 150 tagliatori, cento orlatori, 250 addetti al montaggio". E via dicendo con un dettagliato elenco. Poco lontano, a Vicenza, dove si conciano le pelli per quelle scarpe, e dove già il 10 per cento della popolazione lavorativa - livello record in Italia - è immigrata, l'appello dell'associazione industriali non è meno accorato: "Ci servono almeno il doppio degli stranieri che il ministero ci ha assegnato". Nella ricca Treviso nessuno vuole fare il postino e le Poste sono ricorse ad un rimedio estremo: le lettere si consegnano a giorni alterni. Uno sì e uno no. Si potrebbero prendere degli immigrati? Nessuno lo sa. Ma c'è l'avvertimento del direttore provinciale dell'Azienda, Marino Tiberto: "Attenzione ad usare stranieri per fare questo mestiere. Qui la gente spesso ha paura e non apre la porta di casa se a bussare è uno straniero, magari di colore. Ma possibile che non ci sia uno studente che voglia pagarsi gli studi consegnando, magari solo in estate, le lettere?". A Padova l'associazione industriali, esasperata per la mancanza di saldatori, ha fatto un corso solo per immigrati. Ma sono troppo pochi quelli che si sono presentati all'appello. Ed è solo l'ultimo, di una lunga serie che tormenta quotidianamente gli industriali. Che non sono soli. In estate alle "grida" degli imprenditori si aggiungono, con altrettanta convinzione gli albergatori della costa e gli agricoltori di tutto il Veneto: mancano facchini, lavapiatti, bagnini, per il turismo e i ristoranti. Mancano stagionali per raccogliere le fragole del veronese o le mele e l'uva del trentino. Benvenuti nel ricco Nord est dove la piena occupazione è una realtà visto che il numero dei maschi senza lavoro è a livello bassissimo, e cioè fisiologico, e il tasso di attività delle donne più alto di quattro punti di quello medio nazionale. Benvenuti qui dove i contingenti di manodopera assegnati dal ministero dell'Interno per gli immigrati sono stati già esauriti a febbraio e dove sempre più spesso sindacati o imprenditori chiedono l'abolizione di questi limiti e la piena libertà di entrare per chi abbia assicurato il lavoro. E' qui che una miscela esplosiva fatta di bassa natalità - che si traduce in poca offerta di giovani - e aumento dello sviluppo- e quindi ricchezza che spinge i pochi italiani sul mercato a rifiutare i posti di lavoro manuale - è effettivamente esplosa nella richiesta pressante di nuova immigrazione. E' qui che vengono infranti molti dei miti in voga a livello nazionale. A cominciare da quello politico, visto che comuni ad alta intensità di voti leghisti, si uniscono al coro nel chiedere immigrati per le loro fabbriche, per finire a quello economico sindacale della mobilità e flessibilità, rincorsa a gran voce dalle imprese, ma che spesso si trasforma in un incubo. Se non si trovano operai ogni uomo o donna che lascia l'azienda diventa un problema. E nel Nord est, secondo le statistiche, quelli che hanno un posto fisso cambiano lavoro ogni due anni. Ma il problema c'è anche nella pubblica amministrazione: ne sanno qualcosa non solo i postini di Treviso ma anche i dirigenti dell'Usl di Mestre. Provate a parlare a loro di part-time: metà degli infermieri dell'ospedale lo hanno chiesto, ma loro non hanno come rimpiazzarli, non c'è nessuno con il quale dividere il lavoro e l'ospedale rischia il collasso. Qualche tempo fa un brivido è corso lungo la schiena degli industriali veneti. L'ipotesi che gli immigrati scendessero in sciopero: mezza industria si sarebbe fermata, visto che, in alcuni settori, dalla concia alla meccanica per finire all'agricoltura, l'edilizia e ai servizi, un assunto su tre viene ormai dall'estero. La contesa non è nata su un problema di fabbrica né sui ritardi nelle regolarizzazioni dei permessi. Ha al centro un problema drammatico: quello della casa che oggi è deflagrato con altrettanta violenza e che ha fatto scendere la gente in piazza. Gli industriali, infatti, pur di avere manodopera e non rimandare indietro le commesse in portafoglio, sono disposti a costruire alloggi e a darli ai lavoratori che oggi vivono in baracche dormitorio ai limiti della decenza umana. Nella provincia di Treviso, ad esempio, dove lavorano 34.000 immigrati almeno 3000 sono senza tetto. L'associazione degli industriali insieme all'Ater, erede dello Iacp nell'edilizia pubblica, aveva messo a punto un progetto per costruire 80 alloggi. Ma sono scesi in campo i sindaci dei paesi interessati che avrebbero dovuto fornire le aree sulle quali costruire le case: "Così si creeranno dei ghetti, facili colture della malavita" è stata la risposta. E il progetto è stato respinto al mittente. "Ma così si blocca lo sviluppo" è stata la reazione del presidente degli industriali trevigiani, Sergio Bellato. Così è cominciata la ricerca di un'alternativa. La prefettura ha convocato per fine mese industriali, Ater e Comuni intorno ad un tavolo per valutare insieme i progetti e tentare di trovare una soluzione. Nel frattempo ci si arrangia come si può. Molte aziende hanno preso alloggi per darli in affitto ai dipedenti, altre accarezzano l'idea di trovare una via per spingere i disoccupati del Sud a riprendere la via del Nord. In alcuni casi ci sono riusciti: ma senza una casa a prezzo abbordabile ogni speranza è bruciata.