Nel Nord-Est l'immigrato è imprenditore

di GUIDO BÓLAFFI

da "Il Corriere della Sera" del 16 Maggio 2000

L'immigrazione, com'è noto funziona da formidabile cartina di tornasole dei vizi e delle virtù di ciascun paese. Esalta sia gli uni che Ie altre attraverso un processo di molecolare adattamento, ancora oggi assai poco indagato, che rende ciascun caso nazionale ricco di particolarità spesso assenti nel resto del panorama internazionale.

Emblematico al riguardo risulta il caso italiano dove il persistente, strutturale dualismo deva sua economia sta producendo anche nelle forze di lavoro immigrate comportamenti difformi e talvolta persino alternativi. Non meraviglia perciò che anche per l'immigrazione esistono ormai due Italie: quella del sud che continua ad ingoiare nei meandri oscuri della sua disordinatissima e diffusissima economia sotterranea crescenti quote di lavoratori irregolari e clandestini, e quella del nord dove per i nuovi venuti cominciano invece a prendere piede i sistemi di Collocamento assai più regolari e forme di integrazione in alcuni casi sorprendentemente positive. Ed il nordest, anche in questo caso sembra voler fare da battistrada. Lo testimoniano i dati deva recentissime ricerca condotta dalla Confartigianato di Treviso su un campione di 3.600 unità produttive che operano in quella provincia. Da essi emerge che nel 1999 rispetto all'anno precedente, il numero dei lavoratori immigrati dipendenti è aumentato di quasi il 70 per cento, passando da 1.095 a 1.899, e superando la soglia del lo per cento del totale degli addetti. Ma, fatto questo ancora più significativo, che tra il 297 ed il '99 sono ben 200 gli immigrati riusciti a diventare titolari di altrettante nuove imprese artigiane. Un fenomeno straordinario soprattutto se si osserva la giovane età degli immigrati-imprenditori (tra i 30 e i 50 anni) di gran lunga più bassa di quella dei nazionali e la velocità della trasformazione spiegabile con il duro tirocinio effettuato dagli stessi negli anni precedenti come salariati. Di fronte al drammatico calo demografico ed alla sempre più introvabile forza lavoro nazionale questa parte d'Italia sembra dunque intenzionata non solo a resistere, aprendo i cancelli delle imprese ad un numero crescente di stranieri, ma anche a trasmettere ai più capaci tra loro il preziosissimo dono del suo successo fino a ieri riservato solo ai propri figli: lo spirito d'impresa. La micro e la piccola impresa, motori di una parte fondamentale del paesaggio economico nazionale, funzionano dunque anche per gli immigrati per i quali, in prospettiva, sembrano aprirsi spazi economici e sociali ben più significativi di quelli comunemente fissati dagli stereotipi correnti del lavoro dequalificato industriale e delle mansioni più basse nell'area dei servizi. Tutto bene, dunque? Fino ad un certo punto. Poiché l'economia settentrionale è ormai in condizione prossima sua piena occupazione, in assenza di rilevanti innovazioni nelle regole del mercato del lavoro nazionale e della sua mobilità interna dal sud verso il nord, è chiaro che i nuovi posti di lavoro, e non solo quelli meno qualificati, verranno occupati dagli immigrati. Con il risultato positivo di frenare l'ondata di delocalizzazione imprenditoriale

verso aree estere più favorevoli ma, contemporaneamente, con quello, negativissimo, di sconsigliare definitivamente le imprese del nord a trasferire impianti e posti di lavoro nel sud.