Un apostata tra Islam e Occidente
«Una vita con l'Islam» di Nasr Hamid Abu Zayad, studioso del Corano colpito dall'accusa di apostasia. Una biografia all'insegna della demistificazione dei luoghi comuni occidentali sul mondo musulmano
STEFANO LIBERTI
L'esilio non è un luogo, ma un'esperienza linguistica: la condanna a usare e alla fine a pensare in una lingua diversa dalla madrelingua». Con questa frase semplice e allo stesso tempo profonda, Nasr Hamid Abu Zayd riassume nella sua autobiografia appena uscita in traduzione italiana (Una vita con l'Islam, a cura di Navid Kermani, Il Mulino, € 12,50) la sua particolare condizione: esule per forza, studioso per vocazione, ponte tra culture per un complesso di circostanze in larga parte non decise da lui. Condannato nel 1995 per apostasia in Egitto a seguito dei suoi scritti in cui si è permesso di applicare al Corano i procedimenti dell'ermeneutica classica, Abu Zayd è stato obbligato a riparare in Olanda con la moglie Ibtihal - da cui una Corte civile del Cairo l'aveva forzatamente divorziato. Da allora continua a portare avanti i suoi studi, a girare il mondo per spiegare la sua lettura del testo sacro, ma soprattutto a sfruttare la sua «posizione» di islamologo trapiantato in Europa per proporsi come osservatore informato di quello che da qualche anno è diventato uno degli argomenti più alla moda nei circoli intellettuali europei e statunitensi: la visione di un presunto scontro tra Islam e Occidente.

Una visione che lo studioso liquida come «banale, contraddittoria e basata sull'ignoranza». Da uomo a cavallo tra Oriente e Occidente, Abu Zayd si sforza di smascherare i luoghi comuni dominanti, i pregiudizi classificatori, le letture dicotomizzanti. «L'Islam di cui l'Occidente ha paura è un'entità immaginaria, una costruzione, una finzione, tanto quanto lo è quell'Occidente di cui abbiamo paura noi musulmani», scrive l'autore in uno dei capitoli più densi del suo libro, dedicato per l'appunto al rapporto esistente tra «religione e politica».

L'interazione tra questi ultimi due elementi, senz'altro forte e articolata in diverse società arabo-musulmane, non è tuttavia - come vorrebbero alcune scuole di pensiero tanto in voga dalle nostre parti - l'unico dato di lettura di una realtà assai più variegata e strutturata. In un momento in cui le discussioni sulla presunta compatibilità tra Islam e democrazia sono al centro di tutte le attenzioni, il libro di Abu Zayd ha il merito di restituire al problema una dimensione critica e di rimettere in carreggiata un dibattito che tende troppo spesso a deragliare. La demonizzazione dell'islam trae origine, secondo l'autore egiziano, da una visione unitaria e onnicomprensiva della religione, che diventa il solo elemento caratterizzante del vissuto di centinaia di milioni di persone. Così, l'Islam è responsabile del dispotismo politico, della arretratezza della condizione della donna, del sottosviluppo economico, e in ultima istanza del terrorismo.

All'idea mainstream secondo cui il fenomeno degli attentatori suicidi in Medioriente (in Palestina come in Iraq) sia strettamente interconnesso a una lettura fanatica della religione, l'autore oppone una lettura più eminentemente socio-politica. «Le bombe umane sono figli della miseria e del disincanto, di condizioni di esistenza senza vie di uscita, di una lotta contro l'occupazione che non ha più altri mezzi di espressione», ha detto Abu Zayd venerdì scorso, alla presentazione del suo libro al Pontificio istituto di studi arabi e islamistica di Roma. «Bisogna cercare di capire le ragioni di questi individui che si fanno esplodere solo perché ormai non hanno più nulla da perdere. Bisogna pensarli come persone, e non come macchine accecate dal fanatismo». In quest'ottica, la religione diventa un elemento sovrastrutturale, una giustificazione in larga parte indotta per una rivendicazione di altra natura.

Il libro di Abu Zayd non è solo una riflessione di carattere politico sul rapporto tra Islam e Occidente, tra religione e società, tra dispotismo e democrazia nei paesi musulmani. È anche l'occasione per l'autore di fare un punto sulla propria vita, sugli anni della formazione e su quelli dell'esilio. È un momento in cui il professore si spoglia dei panni dello studioso erudito e si racconta, senza indulgere sulle proprie debolezze, sulle proprie insicurezze, sui propri dubbi. Sullo sfondo di questa narrazione un po' intimista si scorgono gli ultimi cinquant'anni di storia di un paese - l'Egitto - e di un'intera regione - il Medioriente -, con tutti i cruciali rivolgimenti che essi hanno vissuto.

Da questo punto di vista, l'autobiografia di Abu Zayd somiglia a quella di un altro intellettuale arabo dal percorso per certi versi simile, per altri molto diverso dal suo: il compianto studioso palestinese Edward W. Said, rapito dalla leucemia nel settembre 2003. Nel suo eccezionale Sempre nel posto sbagliato (Feltrinelli, 2000), anche Said si raccontava senza indugi, lasciando trasparire tra le righe la grande soddisfazione per una vita intensa, brillante e ricca di esperienze, e i profondi insegnamenti che aveva saputo trarre da un'esistenza in bilico tra un Occidente che criticava aspramente e un Medioriente di cui osservava con sgomento l'involuzione socio-politica seguita agli entusiasmi della decolonizzazione.

Nel leggere entrambi questi libri, e nel rilevare l'acutezza dei ragionamenti in essi proposti, risulta difficile non condividere la frase che Ugo da San Vittore ha formulato nel XII secolo e che lo stesso Said amava citare: «L'uomo che ritiene dolce il suo paese è solo un principiante; l'uomo per il quale ogni paese è come il suo è già forte; ma solo l'uomo per il quale l'intero mondo è come un paese straniero è davvero perfetto».


da il manifesto - 01 Marzo 2005