RADIOGRAFIA DEL MONDO ARABO:
Islam, Stato e società
di Samir Amin


Questo saggio risulta da una sintesi che lo stesso Samir Amin ha tratto per noi da un suo lavoro molto più ampio (Il mondo arabo: stato dei luoghi, stato delle lotte) che è in corso di pubblicazione in lingua araba e prossimamente verrà tradotto in inglese e in francese. Il risultato del lavoro di sintesi è tuttavia molto più ampio rispetto alle consuetudini di questa rivista. Per darlo integralmente, abbiamo accresciuto il numero delle pagine di questo fascicolo. Abbiamo fatto questa scelta non solo per l’intrinseco interesse del saggio e l’autorevolezza di Samir Amin. Ma anche per altre due ragioni. Anzitutto perché, pur essendo stato scritto prima dell’11 settembre, il saggio fornisce elementi preziosi di informazione, di analisi e di riflessione su un soggetto sociale, politico, culturale e su una grande regione del mondo che assumono un ruolo nella crisi internazionale oggi in corso. In secondo luogo perché queste pagine di Samir Amin offrono un esempio di come si dovrebbe affrontare il tema del Sud del mondo. Tema che, dopo una lunga parentesi, è tornato al primo posto grazie al movimento sulla globalizzazione, ma sul quale resta molto generica la conoscenza e manchevole l’iniziativa della sinistra. E che invece non può più essere visto solo come il mondo della povertà e dell’emarginazione in generale, ma nella sua complessità tra dinamismo produttivo e degrado, analizzato nella composizione di classe, nelle istituzioni, nelle culture che l’organizzano


Indagare sulla società che chiamiamo ‘civile’, sui movimenti sociali e sulle lotte che queste organizzazioni conducono nel mondo arabo, significa indagare sull’assenza della società civile e sulla mancanza di movimenti sociali all’altezza delle sfide alle quali i popoli della regione devono fra fronte.

Spesso ripetuta, questa cinica affermazione contiene una parte di verità. Ma è un’affermazione ingiusta per lo squilibrio cui si ispira sia nell’analisi delle realtà concrete sia nella valutazione delle prospettive future. Le società del mondo arabo stanno attraversando – come tutte le altre – una difficile transizione storica e la fine del tunnel non sembra ancora arrivata. Ma sono impegnate in lotte multiformi, che possono essere comprese nella loro realtà e nella loro portata solo facendo riferimento alla critica della globalizzazione liberale da cui sono sfidate, indipendentemente dal loro livello di consapevolezza e dalla natura delle forme della loro legittimazione.

Quello che ci proponiamo di fare in questo bilancio sintetico sarà proprio quello di identificare le questioni poste dai movimenti e dalle lotte, di analizzarne le ambiguità e i limiti, di misurarne la portata e, a partire dalle contraddizioni del sistema, di identificare i progressi in senso popolare e democratico che queste lotte potrebbero permettere. Si tratta di un bilancio sintetico che si basa sui numerosi lavori e dibattiti che si sono sviluppati, soprattutto sulle reti del ‘Forum du Tiers Monde’, nel corso degli ultimi anni.


II. Lo Stato autocratico di fronte alla sfida della modernità


1.
Nel mondo arabo non esiste uno Stato democratico. Ci sono solo Stati autocratici. Un giudizio probabilmente duro, ma in gran parte corretto.

Anche se questa autocrazia prende forme diverse, non è difficile identificare in ognuna un carattere comune. La sorte dei popoli arabi dipende, o è dipesa, dagli stati d’animo di un generale assassino, o di un poliziotto subalterno specializzato nella tortura, o di un monarca costruttore di prigioni in cui non entra mai la luce, di un capo di una piramide tribale o di un religioso fanatico. In altri casi invece lo Stato arabo è stato diretto da un despota illuminato o da un erede mite, più o meno tollerante.

Anche se autocratici, i regimi politici arabi non sono sempre stati, o non sono, illegittimi agli occhi della loro società. Hashem Sharaby parla di poteri statuali come poteri personali, in contrapposizione al potere della legge che definisce lo Stato moderno. Un’analisi descrittiva, alla Weber, che deve essere relativizzata, in quanto questi poteri personali (personalizzati) sono legittimi solo se si proclamano rispettosi della tradizione (e in particolare della sharia 1 religiosa) e se sono considerati tali. Più profonda è invece la relazione che Sharaby stabilisce tra l’autocrazia e il carattere ‘patriarcale’ del sistema di valori sociali, attribuendo al concetto di patriarcato un significato molto più ampio di quello che in genere si dà al termine volgarizzato di ‘maschilismo’ (affermazione e pratica di emarginazione delle donne nella società). Il patriarcato è un sistema che mette in valore a tutti i livelli il dovere dell’obbedienza: educazione scolastica e familiare che soffoca sul nascere qualunque velleità critica; sacralizzazione della gerarchia nella famiglia (con la subordinazione delle donne e dei bambini), nell’impresa (con la subordinazione del lavoratore al datore di lavoro), nell’amministrazione (con la sottomissione assoluta al capo gerarchico); divieto assoluto di libera interpretazione religiosa, e così via.

Questa constatazione – che mi sembra indiscutibile – va messa in riferimento con la definizione della modernità. Quest’ultima è basata sul principio che gli uomini, individualmente e collettivamente, fanno la loro storia e che per farla hanno diritto di innovare, di non rispettare la tradizione. Proclamare questo principio significa operare una rottura con il principio fondamentale che disciplina tutte le società premoderne, comprese quella dell’Europa feudale e cristiana. La modernità è nata con questa affermazione. Non si tratta di una ‘rinascita’, ma di una nascita vera e propria. La definizione di Rinascimento che gli europei stessi hanno dato a questo periodo della loro storia è ingannevole, in quanto è il prodotto di una costruzione ideologica secondo la quale l’antichità greco-romana avrebbe conosciuto il principio della modernità, rimasto sepolto durante il ‘Medioevo’ (tra la modernità antica e la nuova modernità) per colpa dell’oscurantismo religioso. Si tratta però di una concezione mitica dell’antichità, che sta alla base dell’eurocentrismo attraverso il quale l’Europa pretende di ereditare dal suo passato, ‘di ritornare alle fonti’ (da ciò deriverebbe il termine ‘Ri-nascimento’), mentre in realtà opera una rottura con la sua storia.

Il Rinascimento europeo è il prodotto di una dinamica sociale interna, la soluzione data alle contraddizioni specifiche dell’Europa di quei secoli con la creazione del capitalismo. Al contrario, quello che gli arabi hanno chiamato, per imitazione, la loro ‘Rinascita’ – la nahda del secolo XIX – non ha avuto queste caratteristiche. Essa è invece la reazione a un trauma esterno. L’Europa, che la modernità aveva reso potente e conquistatrice, esercitava sul mondo arabo un effetto ambiguo, al tempo stesso di attrazione (ammirazione) e di repulsione (per l’arroganza della sua conquista). La Ri-nascita araba attribuisce al nome un significato letterale e implica che, se gli arabi – come avevano fatto gli europei (secondo le loro stesse parole) – fossero ‘tornati’ alle fonti, avrebbero ritrovato la loro grandezza. La nahda non sa in che cosa consiste la modernità che fa la grandezza dell’Europa.

Non è questa la sede per analizzare i diversi aspetti e momenti dello sviluppo della nahda. Mi limiterò a affermare che essa non compie quelle rotture necessarie con la tradizione che definiscono la modernità. La nahda non sa cosa vuol dire laicità, cioè la separazione tra religione e politica, condizione necessaria per permettere alla politica di diventare il campo della libera innovazione e quindi della democrazia nel senso moderno del termine. La nahda crede di poterle sostituire una rilettura della religione purificata dai suoi eccessi più retrivi. E, ancora oggi, le società arabe hanno difficoltà ad ammettere che la laicità non è una ‘specificità’ occidentale, ma un’esigenza della modernità. La nahda non capisce che cosa significa la democrazia, intesa giustamente come il diritto di rompere con la tradizione. Essa rimane quindi prigioniera dei concetti dello Stato autocratico; fa appello a un despota ‘giusto’ (al mustabid al adel) – e non ‘illuminato’. La nahda non capisce che la modernità produce anche l’aspirazione delle donne alla loro liberazione, e, con essa, il diritto a esercitare il loro diritto di innovare, di rompere con la tradizione. In definitiva la nahda riduce la modernità all’apparenza immediata di ciò che produce: il progresso tecnico. Questa presentazione, volutamente semplificata, non vuole però ignorare le contraddizioni espresse nella nahda, né la presenza di alcuni pensatori di avanguardia consapevoli delle sfide reali della modernità, come Qassem Amin per quanto riguarda l’importanza della liberazione delle donne, Ali Abdel Razek per quella della laicità, Kawakibi per la sfida democratica. Ma nessuna di queste analisi ha avuto conseguenze pratiche. Al contrario, la società araba ha reagito rinunciando a seguire le vie indicate. La nahda non è quindi il momento della nascita della modernità nei paesi arabi, ma quello del suo aborto.


2.
Le società arabe non sono ancora entrate nella modernità, anche se ne subiscono la sfida quotidiana. Di conseguenza la maggior parte dei popoli arabi continua ad accettare i principi del potere autocratico. Un potere la cui legittimità non fa riferimento al principio della democrazia. Se è capace di resistere – o ne dà l’impressione – all’aggressione imperialista, se è capace di offrire un miglioramento visibile delle condizioni materiali di vita di molti, se non di tutti, allora il potere autocratico – divenuto dispotismo illuminato – beneficia di una popolarità che ne costituisce al tempo stesso, la garanzia di stabilità. Si deve anche al fatto che le società arabe non sono entrate nella modernità se il rozzo rifiuto retorico di quest’ultima, esibito come tema ideologico esclusivo piazzato al centro del progetto islamista, incontra il larghissimo consenso che sappiamo.

Oltre che su questo principio di non-modernità, il potere autocratico basa quindi la sua legittimità sulla tradizione. Può trattarsi in alcuni casi di una tradizione monarchica nazionale e religiosa come in Marocco (ed è caratteristico in questo senso che nessun partito marocchino rimetta in discussione il motto di questa monarchia: ‘Allah, la nazione, il re’), o di una monarchia tribale come nella penisola arabica. Ma esiste un’altra forma di tradizione, quella ereditata dall’impero ottomano che ha dominato gran parte del mondo arabo, dall’Algeria all’Iraq, e che possiamo definire il ‘potere dei mamelucchi’. Si tratta un sistema complesso che associa il potere personalizzato di guerrieri (più o meno gerarchizzati e centralizzati o, al contrario, isolati), di commercianti e di religiosi. Mi riferisco ovviamente agli uomini, poiché le donne erano escluse dall’esercizio di qualunque responsabilità. Le tre dimensioni di questa organizzazione non sono contrapposte ma fuse in una sola entità di potere.

I mamelucchi sono guerrieri che traggono la loro legittimità da una concezione dell’Islam che pone l’accento sul contrasto Dar El Salam (mondo musulmano, cioè mondo sottomesso alle regole di una gestione pacifica) / Dar El Harb (mondo extramusulmano cioè luogo dove prevale la Jihad, la ‘guerra santa’). Non è un caso se questo concetto militare della gestione politica è stato coniato dai conquistatori turchi selgiuchidi e poi ottomani, che si autodefinivano ‘ghazi’, cioè conquistatori e colonizzatori dell’Anatolia bizantina. Non è un caso neppure che il sistema mamelucco si sia costituito all’epoca di Saladino, il liberatore delle terre fino ad allora occupate dai crociati. Saladino è sempre evocato con ammirazione rispettosa dai poteri populisti nazionalisti contemporanei, omettendo sempre tutte le devastazioni di cui fu responsabile. Alla fine delle crociate, il mondo arabo (diventato turco-arabo) entra in un processo di feudalizzazione militare e di isolamento. Una regressione che mette fine alla brillante civiltà dei primi secoli del califfato, mentre l’Europa comincia la sua emancipazione dal feudalesimo, apprestandosi a entrare nella modernità e a partire alla conquista del mondo.


3.
In cambio di questa funzione di protettori dell’Islam, i mamelucchi lasciano ai religiosi il monopolio dell’interpretazione dei dogmi, della giustizia esercitata in suo nome, del controllo morale della società. Ridotta alla sua dimensione sociale puramente convenzionale – il solo rispetto dei riti importanti – la religione è perfettamente strumentalizzata dal potere autocratico dei guerrieri. La vita economica è sottoposta agli umori del potere politico-militare. Il mondo contadino è costantemente sottoposto alle esazioni di questa classe dirigente, la proprietà privata (il cui principio è indubbiamente sacralizzato dai testi fondatori dell’Islam) diventa precaria e lo stesso accade per i profitti del commercio.

La classe dirigente mamelucca aspira ovviamente alla diffusione del suo potere autocratico. Formalmente sottoposti al sultano-califfo, i mamelucchi beneficiano della distanza – all’epoca considerevole – che li separa dalla capitale (Istanbul) per esercitare a titolo personale il potere sul loro territorio. Laddove invece la tradizione di centralizzazione statale ha carattere millenario, come in Egitto, si assiste a numerosi tentativi per disciplinare l’insieme del corpo militare. Non è un caso che Mohamed Alì imponga il suo potere centralizzato massacrando i mamelucchi, per ricostruire però un’aristocrazia militare e fondiaria interamente sottomessa al suo potere personale. I bey di Tunisi, su scala più modesta, cercheranno di fare altrettanto. I dey di Algeri non ci riusciranno mai. Questa dinamica interesserà anche il sultanato ottomano, che in questo modo integrerà in un potere ‘modernizzato’ le province turche curde e armene dell’Anatolia e le province arabe della Siria storica e dell’Iraq. Modernizzazione pura e semplice? O modernizzazione della sola autocrazia? Dispotismo illuminato? O dispotismo tout court? Le distinzioni e le varianti si limitano a queste possibilità e non permettono di andare oltre.

Il modello autocratico mamelucco ha dovuto fare i conti con realtà molteplici e diverse, che di fatto ne hanno limitato i poteri reali. Le comunità contadine rifugiate sulle montagne fortificate (cabìli, maroniti, drusi, alauiti ecc.), le confraternite sufi, le tribù costringevano i poteri dominanti al compromesso e alla tolleranza nei confronti dei gruppi ribelli.

Ma le forme dell’esercizio del potere nel mondo arabo sono state innovate al punto che oggi possiamo considerare quelle finora descritte come appartenenti a un passato ormai definitivamente concluso? In realtà lo Stato autocratico e le forme della gestione politica che gli sono associate sono ancora esistenti, ma, sempre meno capaci di fronteggiare le sfide della modernità, sono entrate in una crisi profonda che ne ha ampiamente minato la legittimità. Lo testimoniano l’affermazione dell’Islam politico, la confusione dei conflitti politici ma anche la rinascita delle lotte sociali.


II. L’Islam politico


1.
Ritenere che l’affermazione di movimenti politici in grado di mobilitare le grandi masse che si rifanno all’Islam sia il prodotto inevitabile dell’irruzione sulla scena politica mondiale dei popoli culturalmente e politicamente arretrati, incapaci di comprendere una lingua diversa da quella del loro oscurantismo quasi atavico, è un errore grave. Un errore purtroppo largamente diffuso dalla volgarizzazione dei media dominanti e ripreso nei discorsi pseudoscientifici dell’eurocentrismo e di uno scorretto ‘orientalismo’. Un discorso fondato sul pregiudizio che solo l’Occidente poteva inventare la modernità, mentre i popoli musulmani sarebbero prigionieri di una ‘tradizione’ immutabile, che li rende incapaci di comprendere la portata del cambiamento necessario.

I popoli musulmani e l’Islam hanno una storia, come tutte le altre regioni del mondo, che è una storia di interpretazioni diverse dei rapporti tra la ragione e la fede, una storia delle trasformazioni e degli adattamenti reciproci della società e della sua religione. Accade che la realtà di questa storia sia negata non solo dai discorsi eurocentrici, ma anche dai movimenti contemporanei che si rifanno all’Islam. Gli uni e gli altri condividono infatti lo stesso pregiudizio ‘culturalista’ in virtù del quale le ‘specificità’ delle varie dinamiche dei popoli e delle loro religioni sarebbero intangibili, incommensurabili e trans-storiche. All’eurocentrismo degli occidentali, l’Islam contemporaneo oppone solo un eurocentrismo capovolto.

L’affermazione dei movimenti che si rifanno all’Islam è in realtà l’espressione di una rivolta violenta contro gli effetti distruttori del capitalismo esistente, contro la modernità incompiuta, mutilata e ingannevole che l’accompagna. È l’espressione di una rivolta perfettamente legittima contro un sistema che non ha nulla da offrire a questi popoli.


2.
Il discorso dell’Islam proposto in alternativa alla modernità capitalistica (alla quale sono assimilate senza alcuna distinzione le varie esperienze di modernità dei socialismi storici) è solo di natura politica e non teologica. Le determinazioni come integralismo e fondamentalismo che spesso gli vengono scorrettamente attribuite non attengono affatto a questo discorso, il quale, del resto, non vi fa quasi riferimento, se non in alcuni intellettuali musulmani contemporanei che si rivolgono in questi termini soprattutto all’opinione pubblica occidentale.

L’Islam proposto è l’avversario di ogni ideologia della liberazione. L’Islam politico invoca la sottomissione e non l’emancipazione. L’unico tentativo di interpretazione dell’Islam che andava in questo senso fu quello del sudanese Mahmud Taha. Ma l’eredità intellettuale di Taha, condannato a morte e giustiziato dal potere di Khartum, non è stata rivendicata da alcun partito islamico, né ‘radicale’ né ‘moderato’, e non è stata difesa da alcun intellettuale favorevole alla ‘rinascita islamica’ o anche semplicemente disposto a ‘dialogare’ con questi movimenti. I protagonisti di questa ‘rinascita islamica’ non si interessano alla teologia e non fanno mai riferimento ai grandi testi che la riguardano. Da questo punto di vista l’‘Islam’ sembra essere solo una versione convenzionale e sociale della religione, ridotta al rispetto formale e integrale della pratica rituale. L’Islam in questione definirebbe una ‘comunità’ alla quale si appartiene per eredità, per caratteristiche etniche, e non per una convinzione personale intima e forte. Si tratta solo di affermare un’‘identità collettiva’. Per questo motivo l’espressione di Islam politico con la quale questi movimenti sono definiti nei paesi arabi, è certamente più corretta.


3.
L’Islam politico moderno era stato inventato dagli orientalisti al servizio del potere britannico in India, prima di essere ripreso dal pachistano Mawdudi. Si voleva ‘dimostrare’ che i musulmani credenti possono vivere solo in uno Stato islamico – anticipando la divisione dell’India – perché l’Islam ignorerebbe la possibilità di una separazione tra lo Stato e la religione. È un peccato che questi orientalisti abbiano omesso di osservare che gli stessi inglesi del secolo XIII non concepivano la loro sopravvivenza al di fuori della cristianità!

Abul Ala Mawdudi riprende quindi il tema secondo il quale il potere è emanazione diretta ed esclusiva di dio (‘wilaya al faqih 2) e rifiuta il concetto di un potere legislativo da parte dell’uomo. Lo Stato quindi ha solo il potere di applicare la legge definita una volta per tutte (la ‘sharia’). Joseph de Maistre aveva scritto cose analoghe accusando la Rivoluzione del crimine di aver inventato la democrazia moderna e l’emancipazione dell’individuo.

Rifiutando il concetto della modernità emancipatrice, l’Islam politico rifiuta il principio stesso della democrazia: il diritto per la società di costruire il proprio futuro con la libertà che si dà di legiferare. L’Islam politico non è, come pretende il principio della shura, la forma islamica della democrazia, poiché è prigioniero del divieto dell’innovazione (ibda) e può accettare solo quello dell’interpretazione della tradizione (ijtihad). La shura è solo una delle numerose forme della consultazione che si trovano in tutte le società premoderne, predemocratiche. Certo, l’interpretazione è stata talvolta il veicolo di trasformazioni reali, imposte dalle nuove esigenze. Ma questa, a causa del suo stesso principio – il rifiuto del diritto di rottura con il passato – rende impossibile la lotta moderna per il cambiamento sociale e per la democrazia. Il preteso paragone tra i partiti islamici – non fa differenza tra radicali o moderati, poiché tutti aderiscono agli stessi principi ‘antimodernisti’ in nome della pretesa specificità dell’Islam – e i partiti democristiani dell’Europa moderna non ha quindi alcuna validità, anche se i media e la diplomazia degli Stati Uniti vi fanno continuamente allusione per legittimare il loro sostegno a regimi ‘islamisti’. La Democrazia cristiana infatti si inserisce nella modernità, di cui accetta i concetti fondamentale di democrazia creatrice e di laicità. L’Islam politico invece rifiuta la modernità. La proclama senza essere in grado di comprenderla.

L’Islam che viene proposto non può quindi di essere definito ‘moderno’ e gli argomenti invocati dai sostenitori del ‘dialogo’ sono estremamente banali, e vanno dall’uso di videocassette da parte dei suoi divulgatori all’osservazione che questi ultimi sono reclutati negli strati più ‘istruiti’ della popolazione – ad esempio tra gli ingegneri! Del resto, questi movimenti fanno riferimento solo all’Islam wahhabita, che – come non si stancano di ripetere gli scritti del più reazionario dei teologi del Medioevo, Ibn Taymiya – rifiuta tutto quello che l’interazione tra l’Islam storico e la filosofia greca aveva prodotto a suo tempo. Anche se alcuni dei suoi protagonisti definiscono questa interpretazione un ‘ritorno alle fonti’ (o addirittura all’Islam dei tempi del Profeta), si tratta in realtà solo di un ritorno alle concezioni in vigore duecento anni fa, quelle di una società bloccata nel suo sviluppo da diversi secoli.


4.
L’Islam politico contemporaneo non è, come purtroppo si dice molto spesso, il prodotto di una reazione ai pretesi abusi della laicità.

Di fatto,nessuna società musulmana dei tempi moderni – se si escludono le comunità appartenenti alla defunta Unione Sovietica – è stata veramente laica, o caratterizzata dal coraggio di un qualunque potere ‘ateo’. Lo Stato semimoderno della Turchia kemalista, dell’Egitto nasseriano, della Siria e dell’Iraq baathista 3 si era limitato a controllare gli uomini di religione (come era spesso successo in passato) per imporre loro un discorso destinato esclusivamente a legittimare le sue scelte politiche. Il concetto di laicismo esisteva solo presso alcuni ambienti intellettuali critici. Non aveva molto influenza sullo Stato e questo, tutto preso dal suo progetto nazionalista, ha addirittura fatto registrare passi indietro, come testimonia l’evoluzione inaugurata da Nasser, che ha operato una rottura netta con la politica che il Wafd 4 aveva adottato dopo il 1919. La spiegazione di questo atteggiamento è evidente: rifiutando la democrazia, questi regimi le sostituivano ‘l’omogeneità della comunità’, di cui è facile constatare la crescente pericolosità nella regressione della democrazia nello stesso Occidente contemporaneo.

L’Islam politico propone di portare a termine un’evoluzione già largamente iniziata in questi paesi, diretta a ristabilire un ordine teocratico conservatore, associato a un potere politico di tipo ‘mamelucco’. A chiunque osservi i degradati regimi postnazionalisti della regione e i nuovi regimi cosiddetti islamici viene naturale l’analogia con quella casta militare al potere ancora due secoli fa, che si poneva al di sopra di ogni legge (fingendo di riconoscere in questo campo solo la ‘sharia’) e si appropriava delle ricchezze economiche, accettando – in nome del ‘realismo’ – di collocarsi in posizione subalterna nella globalizzazione capitalistica dell’epoca.


5.
Da questo punto di vista non c’è molta differenza tra le correnti dette ‘radicali’ dell’Islam politico e quelle che si vorrebbero dare un volto ‘moderato’. Entrambe hanno lo stesso progetto.

Anche il caso dell’Iran non sfugge alla regola generale, nonostante alcuni equivoci che sono stati all’origine del suo successo, dovuti alla concomitanza tra lo sviluppo del movimento islamico e la lotta condotta contro la dittatura dello scià, socialmente retrograda e politicamente filoamericana. In un primo momento le stravaganze estremiste del potere teocratico erano compensate dalle sue posizioni antimperialiste, da cui traeva la sua legittimità e grande popolarità all’estero. Ma con il passare del tempo, il regime avrebbe dimostrato di essere incapace di affrontare la sfida di uno sviluppo economico e sociale innovatore. La ‘dittatura dei turbanti’ (i religiosi) che aveva preso il posto dei ‘berretti’ (dei militari e dei tecnocrati), come si diceva in Iran, porta a un incredibile degrado degli apparati economici del paese. L’Iran, che si vantava di ‘fare come la Corea’, si colloca oggi nel gruppo dei paesi del ‘quarto mondo’. L’insensibilità dell’ala dura del potere ai problemi sociali che affliggono le classi popolari del paese è all’origine della sua sostituzione da parte di chi si è autodefinito ‘riformatore’. Oggi infatti si assiste al rafforzamento dell’ala riformista, portatrice di un progetto capace di attenuare i rigori della dittatura teocratica, anche se non rinuncia al suo principio – inserito nella Costituzione (wilaya al-faqih’) – sul quale si basa il monopolio di un potere che progressivamente ha rinunciato ai suoi atteggiamenti ‘antimperialisti’ per integrarsi nel mondo ‘compradoro’ del capitalismo delle periferie. In Iran il sistema dell’Islam politico è alle corde. Le lotte politiche e sociali nelle quali il popolo iraniano è ormai apertamente impegnato porteranno prima o poi al rifiuto del principio stesso della ‘wilaya al-faqih’, che colloca il collegio dei religiosi al di sopra di tutte le istituzioni della società politica e civile. È la condizione fondamentale del loro successo.

In definitiva l’Islam politico non è altro che un adattamento allo statuto subalterno del capitalismo ‘compradoro’. Per questa ragione la sua forma cosiddetta ‘moderata’ costituisce probabilmente il pericolo principale per questi popoli, mentre la violenza dei ‘radicali’ non ha altra funzione da quella di destabilizzare lo Stato per permettere l’affermazione del nuovo potere ‘compradoro’. Il lucido sostegno che le diplomazie dei paesi della ‘triade’ 5, in linea con gli Stati Uniti, danno a questa ‘soluzione’ è perfettamente coerente con la loro volontà di imporre l’ordine liberale globalizzato al servizio del capitale dominante.


6.
Invece di essere conflittuali, i discorsi del capitalismo globalizzato e dell’Islam politico sono perfettamente complementari.

Le diplomazie delle potenze del G7 e quella degli Stati Uniti sanno quello che fanno quando scelgono di sostenere l’Islam politico. Lo sapevano in Afghanistan, quando definivano i fondamentalisti islamici "combattenti per libertà" (!) contro l’orribile dittatura del comunismo, che in realtà non era altro che un progetto di dispotismo illuminato, modernista, nazional-populista che aveva avuto il coraggio di aprire le scuole alle donne. Sanno che il potere dell’Islam politico ha il ‘pregio’ di ridurre all’impotenza la popolazione e quindi di assicurare senza difficoltà la sua passività.

Con il cinismo che lo caratterizza, l’establishment americano approfitta dell’Islam politico anche in un’altra maniera. Gli ‘eccessi’ dei regimi che ne traggono ispirazione – i Taleban ad esempio (che non sono affatto delle schegge impazzite, ma regimi perfettamente coerenti con la logica dei loro programmi) – possono essere sfruttati ogni volta che l’imperialismo ritenga utile intervenire, se necessario in maniera brutale. Il carattere ‘selvaggio’ attribuito ai popoli che sono le prime vittime dell’Islam politico permette di alimentare l’‘islamofobia’. Ciò fa accettare più facilmente la prospettiva di un ‘apartheid su scala mondiale’, che non è altro che la conseguenza logica e necessaria di un’espansione capitalistica sempre più radicale.

Gli unici movimenti politici che dichiarano di ispirarsi all’Islam, e che sono stati fin dall’inizio condannati senza mezzi termini dalle potenze del G7, sono quelli che – data la particolare situazione locale – si inseriscono nelle lotte antimperialiste: gli hezbollah in Libano, Hamas in Palestina. E non a caso.


III. Conflitti politici e lotte sociali


1.
Una rapida analisi della situazione attuale permette di capire che la situazione è rimasta invariata: il potere mamelucco continua a dominare.

La prima analogia evidente con il passato è il ruolo dell’esercito, che in Algeria, in Egitto, in Siria e in Iraq ha il potere supremo. Si tratta di un’istituzione militare che può essere disciplinata e sottoposta a una gerarchia rispettata (Egitto) o caratterizzata da numerosi generali in lotta più o meno aperta tra loro (Algeria). Certo, questa istituzione può anche non essere quel solido garante della stabilità che ci si aspetterebbe. Ma anche se influenzata dall’islamismo politico, non immunizzata dalle forze centrifughe che la diversità etnica o confessionale può alimentare, l’istituzione militare rimane comunque l’unico erede del nazionalismo populista degli anni Cinquanta, Sessanta e Settanta. Conserva quindi una tradizione nazionalista che non è completamente scomparsa. Le elezioni farsa non sono prese sul serio da nessuno, e men che meno dalle classi popolari, che se ne disinteressano. Un presidente succede a un altro attraverso elezioni, nei periodi di calma, o con un ‘colpo di Stato’, come ai tempi dei sultani, dei pascià e dei mamelucchi, sempre pronti a uccidersi tra loro. In Marocco, in Arabia Saudita e negli Emirati arabi del Golfo Persico l’istituzione monarchica, fusa con l’istituzione religiosa tanto marocchina che wahhabita, assicura direttamente la trasmissione del potere supremo.

La seconda analogia con l’autocrazia mamelucca riguarda gli stretti rapporti esistenti tra il mondo degli affari e quello del potere. In realtà non esiste un vero e proprio ‘settore privato’; non ci sono molti capitalisti indipendenti che siano garantiti nella gestione delle loro imprese. La lingua egiziana ha creato un termine per indicare i nuovi ricchi dell’‘apertura economica’ (infitah) arrivata con la nuova globalizzazione liberale. Si fa distinzione tra il settore ‘privato’ (khas) – cioè le vere e proprie attività capitalistiche – e il settore ‘personale’ (firdani), cioè gli affari che esistono solo con la complicità del potere. Il settore privato, quando esiste, è rappresentato da imprese di medie dimensioni piuttosto malmesse a causa della congiuntura e della globalizzazione liberista. Al contrario , il fatturato del settore ‘personale’ cresce di anno in anno, accentuando la disuguaglianza nella distribuzione dei redditi. Un esempio fra tutti: gli Imprenditori arabi (al Muawilin Al Arab), un’‘impresa’ egiziana diretta dal supermiliardario Osman Ahmad Osman. Questa organizzazione ha assunto il controllo di tutte le attività commerciali dello Stato, che poi subappalta, anche se le leggi in teoria vieterebbero questa pratica. Di conseguenza, la maggior parte dei profitti della cosiddetta economia privata nel mondo arabo degli ultimi vent’anni rappresenta di fatto una vera e propria rendita politica.

Terza analogia: la strumentalizzazione della legittimità religiosa convenzionale e conservatrice. Infatti più il potere mamelucco-compradoro è subordinato agli interessi imperialistici dominanti, più si adegua alle esigenze della globalizzazione liberale e più cerca di compensare la perdita di legittimità nazionale che questa sottomissione comporta con l’irrigidimento delle pretese ‘religiose’ del suo discorso, entrando da questo punto di vista in competizione con la corrente fondamentalista. Esattamente come facevano gli antenati ottomani e mamelucchi, via via che cedevano ai diktat degli imperialisti dei secoli passati!

Il lettore potrebbe obiettare che i fenomeni descritti non sono specifici del mondo arabo. L’Indonesia offre un evidente esempio di dittatura militare-mercantile accompagnata da un’identica retorica religiosa. Anche in questo caso si può parlare di un effetto della ‘cultura islamica’? Ma allora perché la Cina dei ‘signori della guerra’ e del Kuomintang di ieri o le Filippine di oggi rientrano per molti aspetti in questa casistica? In definitiva, mi pare più appropriato vedere nel modello ‘autocratico militare, mercantile (mamelucco-compradoro/rentier), conservatore, culturale e religioso’ il prodotto del ‘sottosviluppo’ inteso non come ‘ritardo’, non come una ‘fase’ dello sviluppo, ma come uno degli aspetti della polarizzazione propria dell’espansione mondiale del capitale. Questa non produce la modernizzazione (e la democrazia potenziale), ma il suo contrario – la modernizzazione dell’autocrazia, la modernizzazione della povertà. L’autentica modernizzazione e democratizzazione si conquistano contrapponendosi alle forze dominanti del sistema mondiale, non inserendosi nella loro scia.


2.
La specificità del mondo arabo è che questa rinascita contemporanea dell’autocrazia mamelucca non sarebbe stata pensabile solo cento o cinquanta anni fa. Allora quel capitolo sembrava definitivamente chiuso.

In un primo tempo il mondo arabo – almeno i suoi centri egiziani e siriani – sembrava impegnati in un’autentica modernizzazione borghese. Mohamed Ali 6 e poi la nahda del secolo XIX sembravano aver gettato le basi per questo superamento. La rivoluzione egiziana del 1919 ne rappresentava la prima espressione. E non è un caso che questa rivoluzione si sia fatta nel segno di una grande laicità, secondo il principio che ‘la religione è di dio, la patria di tutti’ e scegliendo una bandiera che univa la mezzaluna alla croce. Nell’impero ottomano i tanzimat 7 davano il via a un’evoluzione simile di cui avrebbero beneficiato le province arabe, che a loro volta si sarebbero emancipate dopo la divisione dell’impero. Costituzioni, codici civili, partiti borghesi ‘liberali’, elezioni parlamentari lasciavano sperare che, nonostante tutte le debolezze e le insufficienze, la società si fosse avviata sulla strada giusta. I magri risultati ottenuti in termini di sviluppo economico e sociale reale – che si spiegano con la debolezza delle borghesie locali di fronte agli imperialisti dell’epoca e ai loro alleati reazionari locali – e quindi l’aggravamento della crisi sociale avrebbero messo fine a questa prima fase della modernizzazione mancata del mondo arabo.

Il secondo momento fu quello del nazionalismo populista degli anni cinquanta, sessanta e settanta. Nasserismo, baathismo, rivoluzione algerina sembravano in grado di contrastare la crisi sociale con l’utilizzo di una strategia di confronto più energico contro l’imperialismo (grazie anche al sostegno sovietico) e con attive politiche di sviluppo economico e sociale. Ma anche questo capitolo si è chiuso, per motivi che non possiamo analizzare in questa sede e che combinano le contraddizioni e i limiti interni del sistema e la trasformazione delle congiunture economiche e politiche mondiali

È in questo momento che si riafferma lo Stato autocratico premoderno. Ma a questo ritorno si accompagna una società che non è più paragonabile con quella di cento o di cinquanta anni fa. Oggi la crisi sociale è molto più acuta rispetto al passato. Non che la società sia complessivamente più ‘povera’. Al contrario, in termini di reddito reale medio, il progresso è evidente. Né la ricchezza vi è distribuita in misura più diseguale. Al contrario, in questo settore le trasformazioni riguardano soprattutto l’espansione delle classi medie, passate in Egitto nello spazio di cinquant’anni dal 5 al 30% della popolazione relativamente ai suoi strati superiori e dal 10 al 50% per l’insieme delle categorie che li compongono (secondo Galal Amin). Tuttavia la modernizzazione ha riguardato anche la povertà.

La gravità della crisi è proporzionale al grado di urbanizzazione del mondo arabo. Oggi più della metà della popolazione araba è urbanizzata. Ma questo trasferimento di massa non è il risultato di una duplice rivoluzione agricola e industriale, più o meno analoga a quella che ha caratterizzato l’Occidente capitalista o il mondo sovietico e la Cina contemporanea da circa mezzo secolo. Al contrario, esso è il risultato dell’assenza tanto della rivoluzione agricola quanto di quella industriale. La crescente miseria rurale, che le industrie e le attività moderne sono incapaci di assorbire, si è semplicemente trasferita nelle città. La struttura delle classi e dei ceti sociali popolari nella quale questa crisi si manifesta non ha più nulla a che vedere con quella del mondo arabo di cento o di cinquant’anni fa. La crisi si svolge nelle nuove strutture della vita politica, delle ideologie, delle organizzazioni e delle forme di lotta sociale.

Dopo aver voltato anche la pagina del nazionalismo, il sistema del partito unico ha ceduto il posto allo sviluppo incontrollato del multipartitismo, che i media mondiali dominanti si sono affrettati a salutare come l’avvio di uno sviluppo democratico, prodotto ovviamente – come proclama la vulgata oggi tanto di moda – dall’apertura ai mercati. Il paradosso è che questa esplosione del multipartitismo è stata accompagnata da un ritorno all’autocrazia di tipo mamelucco.


3.
In Egitto il nasserismo aveva ‘nazionalizzato (in realtà statalizzato) la politica’, cioè aveva soppresso attraverso la repressione violenta i due poli intorno ai quali si erano riunite le forze politiche attive e l’opinione pubblica – il polo liberale borghese e il polo comunista. In questo modo ha creato un vuoto ideologico che l’Islam avrebbe colmato, progressivamente durante il periodo nasseriano, molto più rapidamente a partire dal 1970. L’influenza dell’istituzione religiosa, incoraggiata dalla modernizzazione di Al Azhar 8 8 intrapresa da Nasser, penetrava nelle classi medie in espansione, principali beneficiarie delle politiche populistiche di sviluppo dell’educazione e dell’occupazione. Apparentemente sotto controllo, Al Azhar non costituiva una preoccupazione per il regime; era l’epoca in cui le sue ‘fatwa 9 giustificavano il ‘socialismo’. I Fratelli musulmani 10, che per qualche tempo avevano pensato di imporre la loro presenza all’interno del regime, resistevano a una repressione che nei loro riguardi era sempre stata più debole (non si dimentichi che ne facevano parte molti "Ufficiali liberi" 11). Dopo la formale messa fuori legge del movimento, i Fratelli musulmani hanno continuarono a essere tollerati attraverso le ‘associazioni religiose’ che progressivamente penetrarono negli apparati amministrativi, dell’educazione, della giustizia e dei media.

Quando Sadat, dopo la morte di Nasser (1970), decideva la svolta a destra, tutto era pronto per permettere all’Islam politico di arrivare brutalmente alla ribalta, con il sostegno finanziario del Golfo Persico e quello – pubblico – della diplomazia americana. Il prezzo da pagare era ‘l’apertura’ (infitah), avviata da Nasser dopo la sconfitta del 1967, che avrebbe permesso la reintegrazione nel capitalismo mondiale, la rottura dell’alleanza sovietica, il viaggio a Gerusalemme (1977) e, infine, il processo di pace che avrebbe portato a Madrid e a Oslo (1993).

Ci sono voluti dieci anni prima che la legge istituisse un multipartitismo ‘octroyé’ (nel 1979), limitato in primo tempo alle tre cosiddette ‘tribune’ della defunta Unione socialista di sinistra, di centro e di destra. La costituzione, immutata, affida al presidente poteri che lo pongono al di sopra della sfera legislativa, esecutiva e giudiziaria. La nuova democrazia concessa e controllata (le ‘elezioni’ devono garantire la stabilità del potere del presidente scelto dall’istituzione militare) è stata negoziata con gli Stati Uniti (con l’accordo del 1991 tra il governo e l’UsAid! 12), permettendo cosi a Washington di conferire al potere egiziano un attestato di democrazia.

Non bisogna quindi farsi illusioni sui ‘partiti politici’ provenienti da tali combinazioni. L’Unione nazionale democratica non è molto più attiva dell’Unione socialista, di cui è l’erede. Questa non aveva neanche la legittimità storica dei veri partiti comunisti (dell’Urss, della Cina o del Vietnam), di cui in realtà era solo la brutta copia. Infatti questi partiti, prima di subire l’effetto degenerativo dell’esercizio solitario del potere, avevano guidato vere rivoluzioni. L’Unione socialista invece è stata istituita per decreto presidenziale, in assenza di una storia precedente. Di conseguenza, ha messo insieme solo un’accolita di opportunisti senza convinzioni, cosa del resto che assecondava il volere del despota illuminato. L’autoscioglimento dell’organizzazione comunista egiziana nel 1965, ottenuta non senza la resistenza di molti militanti, non avrebbe dato nuova linfa a questa organizzazione, poiché il potere aveva rigorosamente impedito che questo ‘pericolo’ si concretizzasse.

Tra i nuovi partiti politici il Tagammu 13, dopo aver tentato di riunire la sinistra nasseriana e gli eredi del comunismo egiziano, ha dovuto registrare l’abbandono dei militanti della prima formazione. Nostalgici del passato, evidentemente incapaci di comprendere la natura delle nuove sfide, i vecchi nasseriani si sono accontentati della retorica nazionalista araba (qawmi) e si sono avvicinati agli islamici, anch’essi attratti da un progetto piuttosto semplicistico. Tuttavia il Tagammu, se riuscirà a mobilitare le tradizioni militanti finora accuratamente messe da parte, resta una speranza di rinnovamento del dibattito politico. Il ‘Partito del lavoro’, animato da Adel Hussein (morto nel 2001), e al quale è succeduto un membro della sua famiglia (!), ha praticato in forma estrema il programma islamista, ponendosi in diretta concorrenza con i dirigenti tradizionali dei Fratelli musulmani.

Finora la democrazia politica dei partiti egiziani rimane molto limitata. Rinunciando a qualsiasi forma di azione concreta – che il regime vieta formalmente – limitandosi quindi alla semplice propaganda, questi partiti non si pongono in alternativa reale al potere. Non sviluppano programmi alternativi credibili, ma si limitano a criticare di volta in volta questo o quell’elemento dell’azione governativa.

Le conseguenze di questo vuoto politico hanno avuto un ruolo importante nella riaffermazione della tradizione autocratica mamelucca. La manifestazione più preoccupante di questa deriva ha trovato un’espressione inattesa nel corso delle ultime elezioni parlamentari (1999): una folla di candidati ‘indipendenti’ ha sfruttato le possibilità che la situazione offriva. Non si tratta di oppositori, neanche mascherati, ma di candidati di quella classe ‘di imprenditori-beneficiari di rendite statali’ (tipica del sistema mamelucco) che spesso hanno saputo creare una loro clientela capace di ‘vincere’ le elezioni nell’indifferenza della maggior parte della popolazione. La definizione di ‘baltagui’ che il popolo egiziano ha dato di loro traduce bene quello che sono – il termine significa all’incirca ‘mascalzoni, capibanda’. I vari ‘professori universitari’ liberali – anche americani – che descrivono il fenomeno come espressione della ‘nascita di una borghesia imprenditoriale’, possono forse ingannare l’opinione pubblica internazionale, ma non il popolo egiziano!

In queste condizioni la sola forza alternativa al potere reale – costituito dall’istituzione militare – è rappresentata dai Fratelli musulmani. Ma questi hanno soltanto un progetto: quello di un potere autocratico della stessa natura, nel quale l’istituzione religiosa prenderebbe il posto dell’esercito. Da questo punto di vista i Fratelli musulmani rassomigliano ai partiti della democrazia cristiana, anche se a volte si cerca di farli passare per tali. Per il resto – inserimento nel liberalismo globalizzato ed economia locale ‘compradora’ di rendita – non c’è alcuna differenza. Per questo motivo la diplomazia di Washington vede in loro un’eventuale soluzione di ricambio.

Il regime nasseriano era un progetto di dispotismo illuminato. Il suo programma sociale ed economico era reale e veniva applicato con determinazione. Per questo motivo, anche se dittatoriale e poliziesco, il regime doveva tener conto – e così fece – di forze sociali reali le cui forme di espressione erano i sindacati operai, i movimenti studenteschi, le associazioni professionali, le cooperative rurali, la stampa e gli intellettuali. Del resto il linguaggio politico nasseriano aveva dato loro un nome – marakez quwa (centri di potere) – che ne riconosceva di fatto l’ importanza.

Ci sono oggi in Egitto quasi 25.000 comitati sindacali integrati in 23 sindacati, unificati all’epoca nasseriana in una centrale unica (l’Unione generale dei lavoratori d’Egitto) che raccoglie tra i 3 e 4 milioni di iscritti reali (può sembrare poco rispetto ai 15-17 milioni di lavoratori dipendenti, ma è già molto e interessa la quasi totalità dei lavoratori delle imprese moderne). Il nasserismo aveva dato loro poteri reali, non di partecipazione alla direzione delle imprese (questi poteri erano solo di facciata) ma di gestione della manodopera (garanzia dell’occupazione, ecc.) e della vita quotidiana (alloggio, cooperative di consumo, ecc.). Avendo rinunciato alla ‘lotta di classe’, la classe operaia era ricompensata in termini di miglioramento delle sue condizioni materiali. E, sebbene il regime si fosse assicurato il controllo dei sindacati attraverso la nomina ai posti direttivi nazionali di personale fedele, alla base (nei 25.000 comitati locali) lo spirito militante e l’influenza comunista non hanno mai cessato di esercitarsi. Ciò spiega la scarsa attrazione che l’Islam politico ha avuto sulla classe operaia.

Qual è la situazione attuale? L’emigrazione, autorizzata dal 1970, ha certamente indebolito lo spirito militante. Perché battersi per ottenere qualche punto in percentuale di aumento del salario quando si può guadagnare il doppio, o di più, in pochi mesi di lavoro nel Golfo Persico, in Libia o in Iraq? Come sempre, l’emigrazione incoraggia le soluzioni individuali e indebolisce la lotta collettiva. Ma una volta esaurita l’ondata migratoria assisteremo al ritorno alla tradizione egiziana di soluzioni collettive? Le nuove leggi che deregolamentano il mercato del lavoro hanno a loro volta indebolito i sindacati, favorendo il ritorno della disoccupazione di massa. Generatrice di quella stessa povertà che si pretende di combattere, questa politica non sembra però turbare i sostenitori della difesa della democrazia nelle istituzioni del sistema globalizzato!

Molti indizi indicano una ripresa delle lotte. Ormai si calcolano non più a centinaia ma a migliaia le azioni di lotta, spesso violente e disorganizzate. Nel 1998 ci sono stati settanta scioperi nelle più grandi imprese del paese, e non si è riusciti a nascondere l’intervento brutale delle forze speciali di sicurezza. In alcuni casi si sono registrati dei successi, se pur modesti. Ma se ne parla poco. Sull’argomento i partiti politici mantengono il silenzio. Nessuno – neanche gli islamisti, naturalmente – vogliono prendersi il rischio di assumersi la responsabilità di queste lotte. Le lotte operaie rimangono isolate, ma non sono né ignorate né impopolari.

Nel mondo rurale il nasserismo operava attraverso 15.000 cooperative che si occupavano dell’acquisto di fattori produttivi e della vendita di prodotti finiti. Sebbene basate sulla classe rurale media e largamente influenzate dalle sue componenti ricche, queste cooperative non erano semplici istituzioni di subalterne alle decisioni del ministro dell’Agricoltura, come si è detto fin troppo spesso, ma partner di cui si teneva conto. Ciò permetteva di evitare i conflitti e di salvaguardare le classi povere del mondo contadino.

La nuova politica liberale – soppressione delle sovvenzioni, liberalizzazione del credito e aumento dei suoi tassi medi dal 5 al 14%, triplicazione dei tassi di rendita fondiaria e infine la liberalizzazione dei rapporti tra i proprietari e i contadini (garantiti fino ad allora dal rinnovo dei contratti di locazione) – ha distrutto il movimento cooperativo, ha permesso alla classe dei contadini ricchi di arricchirsi ancora di più, impoverendo le classi medie. Le violenze frequenti ma isolate che hanno accompagnato questo cambiamento di linea non hanno però bloccato il processo di liberalizzazione. Nel 1983 il Tagammu ha cercato di dare vita a una nuova ‘Unione contadina’. Ma ha dovuto rinunciarvi di fronte agli ostacoli amministrativi. Ciò non ha impedito però lo sviluppo nel 1998 di un grande movimento di protesta degli agricoltori. Il potere è comunque riuscito a superare queste difficoltà e quindi a neutralizzare (provvisoriamente?) il movimento.

Ci si può chiedere se i Fratelli musulmani, prendendo apertamente posizione in favore dei proprietari in nome del diritto della proprietà, hanno ‘perso’ un’occasione di mobilitare in loro favore questo mondo rurale sempre sensibile al discorso religioso. In realtà i Fratelli musulmani sapevano quello che facevano. Hanno deliberatamente scelto di schierarsi con gli agricoltori più ricchi e con i compradores urbani, preoccupati soprattutto di mantenere la loro immagine di interlocutori validi per il capitale dominante e per la diplomazia americana. Il loro discorso si rivolge solo alle classi medie (come si vede dall’impegno con cui sono intervenuti nelle associazioni professionali), lasciando alle organizzazioni islamiche ‘radicali’ (la jihad islamica e altre) il compito di reclutare i loro uomini nelle classi medie impoverite e nel proletariato. Evitando di difendere o di condannare queste organizzazioni, i Fratelli musulmani sono consapevoli che le operazioni di destabilizzazione dello Stato che queste organizzazioni conducono non fanno altro che rafforzare la loro posizione di candidati alternativi. I Fratelli musulmani continuano a ripetere ai loro interlocutori di essere gli unici in grado di mettere fine alle degenerazioni ‘terroristiche’.

La propaganda e l’azione dell’Islam politico si rivolge quindi in primo luogo alle classi medie. La loro espansione quantitativa ha conferito alle loro organizzazioni un peso politico eccezionale nella vita del paese. Si contano ventitré grandi associazioni professionali (avvocati, medici, giornalisti, ingegneri, farmacisti, insegnanti ecc.) con centinaia di migliaia di iscritti e migliaia di agenzie locali. Il nasserismo controllava senza grande difficoltà questi settori della società, che di fatto costituivano i principali beneficiari dell’espansione economica e sociale populista.

La crisi sociale provocata dalla scelta economica liberale ha permesso all’Islam politico di impadronirsi della leadership di molte di queste associazioni. Tanto più che il discorso politico, in mancanza di un vero e proprio dibattito all’interno dei partiti, ha assunto un carattere radicale proprio in queste associazioni. Nel 1993 lo Stato ha reagito approvando delle leggi che gli permettono di assumere il controllo delle associazioni considerate ostili. La posizione ufficiale – più o meno demagogico – insiste sul fatto che la ‘politicizzazione’ delle associazioni va a danno del loro impegno nella difesa degli interessi reali delle professioni. Una denuncia non del tutto infondata, a meno che la tutela effettiva di questi interessi non entri a sua volta in conflitto con le politiche liberali dello Stato, il che rappresenterebbe un’occasione favorevole per un intervento militante della sinistra egiziana.

Lo sviluppo tumultuoso della vita associativa, sulla quale torneremo più avanti, ha portato alla costituzione di un nuovo tipo di associazione che riunisce gli ‘uomini d’affari’. Poiché la vecchia "società dell’industria e del commercio" era stata sciolta da Nasser e le Camere di commercio, all’epoca della pianificazione , avevano perduto la loro funzione, le nuove associazioni di uomini d’affari colmano un vuoto evidente. Se ne parla molto, sono presentate come la prova della vitalità del capitalismo. Ma la realtà è ben diversa. Si tratta solo di ‘procacciatori di rendite politico-economiche’, che tuttavia hanno un peso tutt’altro che trascurabile nella vita del paese. I membri di queste associazioni sono visti come dei ‘saggi’ e a volte sono addirittura riusciti a far adottare il loro punto di vista (cioè politiche che garantiscono le loro rendite) ai danni di qualche ministro recalcitrante…

Nel mondo arabo, come in tutto il Terzo mondo, il movimento studentesco ha tradizionalmente svolto un ruolo di avanguardia. Per decenni è stato dominato dall’influenza comunista. Anche nel periodo migliore del nasserismo, quando il regime godeva di prestigio e rispetto, gli studenti nasseriani si ponevano a sinistra del regime. Furono loro che, all’indomani della sconfitta del 1967, si mobilitarono per chiedere la radicalizzazione del regime, mentre Nasser sceglieva al contrario la strada delle concessioni alla destra, aprendo la strada alla ‘infitah’.

Oggi il movimento studentesco non esiste più. Questa evoluzione, che si ritrova in quasi tutto il Terzo mondo contemporaneo, ha probabilmente ragioni complesse e non ancora analizzate a fondo. La straordinaria espansione delle classi medie prodotta dall’ondata di emancipazioni nazionali del dopoguerra, unita alla diffusione delle istituzioni universitarie, ha probabilmente svolto un ruolo importante in questo processo di spoliticizzazione. Ma questo fenomeno è stato spesso favorito dalla sistematica scelta repressiva del potere. È il caso dell’Egitto. Prima e dopo Nasser, il potere ha deliberatamente sostenuto, grazie anche a considerevoli finanziamenti esteri (provenienti dal Golfo Persico), la presenza nell’università dei Fratelli musulmani per contrastare il comunismo. Inoltre la ‘modernizzazione’ di Al Azhar, avviata da Nasser, ha ampliato la sfera di diffusione degli insegnamenti oscurantisti, che hanno favorito questa tendenza. Tuttavia il mondo universitario continua di tanto in tanto ad agitarsi, sebbene ormai quasi esclusivamente sulla questione palestinese (sostegno alle due intifada), mentre la critica delle politiche economiche e sociali liberali non rappresenta più un fattore di mobilitazione. L’aggravamento della crisi sociale, il degrado della situazione delle classi medie e la mancanza di sbocchi per i laureati hanno rafforzato questi atteggiamenti di riflusso, tanto più che l’abbassamento della qualità degli insegnamenti priva ormai i giovani di quella capacità critica di cui erano dotati in passato. La penetrazione islamica è il risultato e non la causa di questa situazione.

Il mondo della stampa, gli intellettuali, gli artisti (in particolare i registi) e gli scrittori (poeti e narratori) sono sempre stati presenti e attivi sulla scena politica egiziana. In epoca nasseriana un’istituzione come "Al Ahram" 14, diretta da Hassanein Heykal, era considerata uno di questi ‘centri di potere’ e beneficiava quindi di una certa tolleranza da parte del despota illuminato. Ma se la fondazione, il suo giornale (fondato 125 anni fa e paragonabile per qualità ai migliori giornali del mondo) e i suoi centri di ricerca hanno conservato un’alta qualità, la loro influenza sulla società è trascurabile. I grandi media – in particolare la televisione – sono ormai monopolizzati dalla banalità della cultura ufficiale e da una mediocre e reazionaria propaganda religiosa. Le televisioni ‘private’ (Nil Tv) praticano un’autocensura che ne annulla l’influenza potenziale, e quelle degli altri paesi arabi non sono molto migliori, con la sola eccezione delle numerose televisioni politiche del Libano. La nuova televisione del Qatar deve il suo successo alla sua apertura a dibattiti vivaci, ma è chiusa a qualunque critica radicale da sinistra. Inoltre si sospetta che essa sia lo strumento di forze non bene identificate. In Egitto continua a operare un cinema di qualità, anche se la grande produzione commerciale lo relega spesso in secondo piano. La letteratura – l’Egitto è un paese di scrittori di alto livello – esercita un’influenza culturale e politica considerevole. Cinema e narrativa sono i veicoli principali attraverso i quali sopravvive una cultura politica critica.

Il deficit democratico nella gestione di quasi tutte le forme di organizzazione politica e sociale – partiti, sindacati, organizzazioni professionali (e, si vedrà più avanti, nella nuova vita associativa in espansione) è una rilevante caratteristica negativa dell’Egitto e forse di altri paesi arabi. Nei gruppi dirigenti vi sono più ‘capi storici’ inamovibili che militanti.

Per completare questa descrizione delle lotte, dobbiamo segnalare l’affermazione delle nuove forme di lotta delle classi più povere, poco analizzate perché si svolgono al di fuori delle organizzazioni ufficiali. Venditori ambulanti, guardiani di automobili, squatters non rappresentano solo un settore ‘informale disorganizzato’. Combattuti in un primo tempo, perché trasgrediscono la legge e le regole formali, finiscono spesso per imporsi – con azioni collettive – e per dare voce alle loro rivendicazioni. Lo Stato ad esempio ha rinunciato alla distruzione programmata delle bidonville del Cairo e adesso prevede progetti di recupero (approvvigionamento di acqua, strade ecc.).


4.
Questo quadro della politica e delle lotte sociali in Egitto non può essere generalizzato all’insieme del mondo arabo, dove si deve tener conto delle condizioni concrete e delle radici storiche dei vari paesi. Si possono però identificare alcune tendenze di carattere generale.

Nel corso degli anni cinquanta, sessanta e settanta Egitto, Siria, Iraq e Algeria hanno condotto esperienze nazionalistiche politiche molto simili tra di loro.

In Siria e in Iraq il Partito Baath è all’origine di queste esperienze. A differenza dell’Egitto, la cui evoluzione in questa direzione era il frutto del colpo di Stato militare degli Ufficiali liberi che non aveva a sostegno una struttura di partito, il Baath è rimasto l’elemento centrale dell’organizzazione politica della Siria e dell’Iraq (mentre l’Unione socialista dell’Egitto non ha mai avuto un potere effettivo). La struttura militare dei regimi della Siria e dell’Iraq è stata il prodotto di un’infiltrazione degli eserciti da parte del Baath. In Egitto la scelta populista è stata progressivamente imposta da Nasser con il parere contrario della maggioranza dei dirigenti provenienti dagli Ufficiali liberi – piuttosto reazionari – anche se i relativi conflitti non si sono mai trasferiti nell’esercito, rimasto disciplinato. In Egitto c’è un solo faraone, così come in Cina c’è un solo imperatore. Il sistema dominante nel modello baathista è quindi quella di un complesso autocratico baathista-militare-mercantile, nel quale la retorica del baathismo (in primo luogo l’arabismo) svolge funzioni analoghe a quelle del discorso religioso. Il conflitto tra questo modello di potere autocratico e l’Islam politico è quindi più violento, poiché l’integrazione fra le due forze nella versione post-nasseriana è più difficile.

Il modello baathista, proprio perché almeno all’inizio disponeva di una reale struttura partitica, è ‘più efficiente’ nell’esercizio della sua dittatura: normalizzazione delle organizzazioni politiche dissidenti (come alcune correnti del comunismo siriano e iracheno), annientamento degli avversari (borghesi liberali, comunisti refrattari, Fratelli musulmani), controllo assoluto delle organizzazioni sociali (con la soppressione di qualunque attività di base, ad esempio nei sindacati, mentre in Egitto il regime è sempre stato costretto a scendere a patti con queste organizzazioni). Le debolezze del sistema riguardano altri fattori, non meno obiettivi, in particolari attinenti ai particolarismi regionali e alla diversità etnica e confessionale dei due paesi. Una diversità che è stata gestita in modo discutibile – ed è il meno che si possa dire – e in ogni caso nel disprezzo assoluto dei principi della democrazia. Le qualità e i difetti personali dei capi supremi hanno avuto un peso determinante: un leader intelligente, paziente, diplomatico – Hafez El Assad – in Siria, che ha dovuto fare i conti con l’espansionismo israeliano, di cui ha saputo limitare le ambizioni strategiche con una scelta di resistenza tenace e senza cadere nelle illusioni della ‘soluzione negoziata’ sotto l’egida della diplomazia americana. Una serie di militari assassini – da Abdel Salaem Aref a Saddam Hussein – in Iraq, che hanno portato il paese alla tragica situazione in cui si trova oggi.

Il populismo originario non esiste più. Il complesso militare-mercantile si è avviato sulla strada di una ‘infitah’ inconfessata ma visibile agli occhi dell’opinione pubblica. La legittimità e la credibilità del progetto sociale originario, e del discorso panarabo che lo accompagnava, sono di fatto largamente superate. Le lotte politiche e sociali riprendono vita. La firma da parte di mille intellettuali siriani di una petizione, che non è stata seguita da repressioni (fatto del tutto nuovo), in favore della democrazia indica forse un nuovo punto di partenza.

L’Algeria invece ha conosciuto una storia del tutto diversa. La lotta di liberazione nazionale ha preso qui un’altra dimensione in quanto condotta dal Fronte di liberazione nazionale (Fln), un partito autentico, forte, sotto questo punto di vista simile ai partiti comunisti della Cina o del Vietnam, pur distinguendosene quanto all’ideologia (ridotta, di fatto, alla rivendicazione nazionale), al progetto sociale (o piuttosto alla sua assenza) e quindi al contenuto sociale del potere che ne sarebbe derivato. Si può dire inoltre che la coscienza nazionale è stata in questo caso il prodotto di questa lotta, e che di conseguenza nazione algerina e Fln sono diventati sinonimi.

Il dramma trova la sua origine nella rapida sostituzione – dal luglio 1962, forse anche prima, e poi all’epoca di Boumedienne – del Fln con l’Aln (l’esercito, un esercito di frontiera che non aveva rappresentato l’asse centrale della lotta dell’Fln). Posto al vertice del potere, centro esclusivo delle decisioni finali, l’esercito ha privato l’Fln della sua legittimità e credibilità. Il populismo algerino non è sopravvissuto a Boumedienne. Scegliendo Chadli come successore, l’esercito cessava di essere unito e disciplinato, e ognuno dei suoi generali si impadroniva – sull’esempio del modello mamelucco – di una parte dei poteri militari-mercantili. L’Algeria entrava in un periodo di disordini, di acuti conflitti politici e di lotte sociali, che avrebbero avuto conseguenze terribili (questa è la realtà fino a oggi) anche se non mancano i segni positivi (e non si tratta di semplice ottimismo).

Il popolo algerino, infatti, aspira alla democrazia politica e sociale più di qualunque altro popolo arabo. Un’aspirazione che risale probabilmente all’epoca coloniale, all’ambiguità della sua cultura dominante, alle forme di resistenza che ha prodotto. Un’aspirazione che il populismo dell’Fln dei momenti migliori durante il potere di Boumedienne non ha potuto realmente controllare. Del resto la carta costituzionale algerina del 1964 (copia conforme di quella nasseriana del 1961), rivista nel 1976, afferma alcuni grandi principi che mirano a riconoscere determinati grandi interessi sociali di cui non si voleva ammettere il carattere conflittuale.

Si dovevano quindi riconoscere altre ‘centrali del potere’ (all’egiziana). I sindacati operai in primo luogo, importanti, attivi e rivendicativi (almeno alla base), frequentati da militanti ribelli alle direttive imposte dall’alto. Queste istituzioni, poco disposte a sottomettersi all’Fln, hanno ripreso vita nel corso degli ultimi anni: si contano ormai ogni anno diverse migliaia di scioperi e di ‘agitazioni’. Al contrario, il mondo contadino, oppresso e distrutto dalla colonizzazione e dalla guerra di liberazione, non è riuscito a imporsi come forza autonoma, nonostante le speranze riposte negli anni Sessanta nell’‘autogestione’ dei patrimoni ripresi ai coloni. La ‘rivoluzione agraria’ proclamata da Boumedienne è stata un processo dall’alto, che non si è basato su alcun movimento contadino. Questo ha permesso di ‘cancellarla’ allo stesso modo in cui era stata ‘promossa’, senza alcun clamore. In mancanza di una vera rivoluzione, la questione contadina si esprime attraverso la diversità etnica – con la presenza costante del problema berbero. Ma anche in questo caso la gestione deplorevole di questa diversità reale con una politica di arabizzazione mal concepita e con la negazione permanente del problema (nella tipica tradizione dei poteri autocratici), ha avuto solo il risultato di far esplodere il problema.

Un altro segnale di crisi è stata l’esplosione del 1988, provocata dalle popolo minuto delle città e in particolare dai giovani emarginati, senza speranze, le cui condizioni peggioravano via via che le nuove politiche ‘liberali’ abolivano le eredità del populismo sociale. Non si è trattato quindi di una rivolta della ‘classe operaia’ né di una ‘rivolta contadina’ né, tanto meno, di un movimento di rivendicazione di democrazia politica delle classi medie e degli intellettuali, ma di un’esplosione delle nuove vittime del capitalismo contemporaneo, che non avevano alle spalle una tradizione organizzativa né un patrimonio ideologico.

Si capisce allora perché questa esplosione, che ha imposto il ritorno alle elezioni (quelle del 1992), abbia prodotto una situazione senza vie di uscita. Di fatto i responsabili della ‘corrente islamista’ hanno capito che tutte le loro possibilità risiedevano in questo elemento: un elettorato infuriato, che sceglie di dire ‘no’ al potere dicendo ‘sì’ ai fondamentalisti islamici. Questi ultimi rappresentavano un’alternativa – l’unica visibile. Ma il potere che, fortunatamente, aveva scelto di contrastare questa situazione, si è rivelato, purtroppo, incapace di riformarsi o non ha avuto alcuna intenzione di farlo. Così l’Algeria è entrata nella spirale infernale di due avversari che lasciavano al popolo un’unica scelta: ‘o loro o noi’. Non è necessario parlare degli omicidi, rivendicati dai fondamentalisti, delle personalità che avrebbero potuto incarnare la terza e unica scelta valida – giornalisti, professori e artisti democratici. Inutile ricordare che gli abitanti massacrati dei villaggi della Mitidja permettono agli speculatori dell’agro-business di ‘ricomprare’ – a prezzi bassissimi – le loro terre migliori. Meglio di molte analisi di esperti stranieri, la lettura dei romanzi di Yasmina Khadra 15 permetterà di capire la natura della logica dettata dalle scelte dell’Islam politico.

L’esplosione del 1988 aveva però provocato un tale trauma che già nel 1989 la legge autorizzava la ricostituzione della vita politica. Ciò ha portato alla nascita di cinquanta partiti politici e di 55.000 associazioni. Ciò significa, al di là delle cifre che possono disorientare l’osservatore, che la volontà di democrazia politica e sociale e la possibilità oggettiva della creazione di una ‘terza forza’ è potenzialmente molto forte e non si è realizzata fino a oggi per ragioni difficili da accettare: a causa dei conflitti personali tra i vecchi ‘leader storici’ tornati alla ribalta. Le numerose associazioni che lottano effettivamente sul terreno delle rivendicazioni democratiche e sociali – per la difesa dei diritti dell’uomo, contro la tortura e i sequestri, per la revisione del diritto di famiglia, per i diritti culturali dei popoli berberi, ecc. – non costituiscono un’alternativa alle carenze strutturali dei dirigenti. E altrettanto si può dire per quanto riguarda lo sviluppo di quelle lotte operaie cui abbiamo accennato in precedenza.

Quello che manca, purtroppo, è una tribuna unificata dalla quale si possa elaborare un’alternativa in tutte le sue dimensioni: definizione di un’autentica politica economica e sociale di sviluppo (che non sia semplice retorica o espressione di una nostalgia populista); di una idea moderna di nazione, al tempo stesso araba e rispettosa della realtà berbera; dei termini di compromesso tra gli interessi conflittuali delle classi e dei gruppi sociali; del ruolo dello Stato, definizione dei rapporti con il sistema mondiale. Insomma, gli argomenti non mancano!

Il Sudan è caratterizzato da due contraddizioni di fondo che non hanno ancora trovato una soluzione – e non la troveranno – attraverso la politica della violenza cui si è fatto ricorso nell’ultimo mezzo secolo. Del resto l’Islam politico – al potere in questo paese – ha dimostrato di non riuscire a venirne a capo da solo.

La prima di queste contraddizioni contrappone il mondo rurale del Nord arabo-islamico al mondo urbano. Le campagne sudanesi sono fortemente inquadrate all’interno di due confraternite – gli ansar e i khatmia – sulla base di un modello che dal Senegal al Mar Rosso domina tutto il Sahel africano. I due grandi partiti politici (i mahdisti e il Partito nazionale democratico), che si sovrappongono alle due confraternite (e costituiscono l’Islam storico esistente in Sudan) sono di conseguenza sicuri della loro vittoria in ogni competizione elettorale, anche se non hanno altro programma da quello della gestione della società così com’è. La città al contrario è estremamente progredita: potenti sindacati operai (in particolare quello delle ferrovie, un settore vitale in questo grande paese), movimenti studenteschi di avanguardia, organizzazioni professionali della classe media attive e democratiche (un’eccezione, o quasi, nel mondo arabo), un grande sviluppo della vita associativa e democratica, movimenti di donne, una forte influenza del Partito comunista. Si tratta di una contraddizione insolubile, che provoca l’alternarsi di dittature militari, accettate dalle due confraternite, e di movimenti democratici popolari.

La seconda contraddizione contrappone, in questo paese di 30 milioni di abitanti, il Nord arabo-musulmano al sud che non lo è (tra un quarto e un terzo della popolazione). Contraddizione che i governi riescono a gestire solo attraverso un clima di guerra permanente. Eppure non sarebbe difficile offrire a questa contraddizione una soluzione basata sulla democrazia, sull’autonomia locale e sul riconoscimento delle diversità. Soluzioni del resto raccomandate da tutte le forze democratiche del Nord, in particolare dal Partito comunista, e applicate da queste organizzazioni nei brevi momenti (mai più di pochi mesi) in cui sono state al potere, per essere poi rimesse in discussione con il ritorno delle forze reazionarie. Soluzione raccomandata anche dalle forze politiche del Sud, il cui esercito diretto da John Garang si chiama – non a caso – Sudan People Liberation.

L’ascesa dell’Islam politico è risultata dal lassismo prodotto dalla ripetizione dei fallimenti, dall’arrivo massiccio di fondi di origine saudita (attraverso una potente classe mercantile legata alle confraternite) e dal genio tattico di un folle dalle ambizioni smisurate e avido di potere, Hassan Tourabi. Stringendo alleanza direttamente con la dittatura militare (di Numeiri e poi di Beshir), scavalcando le confraternite, Tourabi sognava (o faceva finta di sognare, volendo in realtà solo il potere) di ‘purificare’ l’Islam storico del paese per ‘wahhabizzarlo’ (da ciò il sostegno saudita).

I mezzi adoperati dalla dittatura militare islamica si consideravano quindi ‘moderni’ e volevano farla finita con la ‘tolleranza’ dell’Islam storico delle confraternite. Da ciò la serie di leggi scellerate che hanno vietato la libera attività sindacale (1992), controllano la vita associativa (legge del 1995, in particolare riguardanti le associazioni incaricate di interventi umanitari in questo paese devastato dalla guerra e dalla carestia), istituiscono la censura della stampa (1996), ecc. Ma tutti questi tentativi di sostituire alle organizzazioni democratiche una rete di nuove istituzioni, di carattere ‘moderno’ – in realtà controllate dal potere personale di Tourabi – non hanno dato alcun risultato. Le poche Ong (organizzazioni non governative) che sembrano sopravvivere al massacro sono ormai completamente controllate dalle confraternite!

A quanto pare, l’azione economica e sociale del regime non poteva non terminare con un disastro: completamente sottoposto alle logiche del liberalismo globalizzato ed esasperando fino al grottesco l’affarismo dei clan militari islamici, l’Islam politico al potere non ha prodotto altro che un terribile aggravamento di tutti i problemi.

Il regime ha risposto a questa deriva con una politica del ‘laisser aller’, non facendo nulla per impedire la guerra nel Sud, lasciando che tutte le province – a maggioranza musulmana – dell’Ovest (Kordofan, Dar Four) e dell’Est (Kassala) si governassero da sole in una situazione di semi-secessione. Il regime ormai si preoccupa solo di salvare le apparenze, conservando il potere nella capitale e nelle campagne vicine. Per questo motivo la sua realizzazione principale è la creazione di reti di ‘difesa popolare’ e di ‘sicurezza studentesca’ reclutate nel proletariato – sull’esempio dei pasdaran iraniani – incaricate di terrorizzare la popolazione. Tutto ciò comporta un’applicazione rigida della sharia nelle sue disposizioni più discutibili (amputazione per i ‘ladri’ – quelli di poco conto ovviamente), condanna a morte del teologo musulmano della liberazione Sheikh Mohamad Mahmud Taha (nel 1977) e così via. Il tallone di Achille del sistema è la sua assoluta mancanza di una qualunque forma di legittimità in grado di assicurare la sua successione politica. Al contrario dell’Iran dove la ‘wilaya al-faqih’ è sostenuta da una vera e propria chiesa nazionale (in questo caso sciita) che rappresenta l’istituzione dominante dello Stato, al contrario dell’Arabia Saudita la cui monarchia unisce la legittimità tribale e quella della versione wahhabita dell’Islam (o del Marocco la cui monarchia è al tempo stesso nazionale e religiosa), in Sudan un potere islamico diverso da quello delle confraternite avrebbe molta difficoltà ad attecchire.

Tuttavia l’opposizione democratica non è morta. È sopravvissuta a tutte le brutalità dell’Islam politico. Ma i suoi responsabili hanno dovuto prendere la strada dell’esilio. L’Egitto – che non ha mai considerato i sudanesi come stranieri e che quindi ha sul suo territorio almeno due milioni di sudanesi (per lo più sono semplici lavoratori che fuggono dal crollo della vita economica nel loro paese) – ospita l’Alleanza democratica nazionale sudanese, costituita all’Asmara nel 1995 e che raggruppa tutti i partiti e le organizzazioni vietati a Khartum. Tuttavia questo fronte, potenzialmente molto forte, non ha un programma in grado di coordinare le varie lotte – disorganizzate ma continue nel paese – e di fornire loro la capacità di creare un’alternativa credibile.

La monarchia del Marocco, fondata su una duplice legittimità, nazionale e religiosa, ha consentito grandi progressi democratici, che saranno garantiti finché saranno sostenuti dal re. Progressi che hanno soprattutto il vantaggio di non essere una minaccia né per le classi dominanti locali né per il sistema mondiale. Tuttavia, la crescente contraddizione fra le speranze alimentate da questi progressi e le manifestazioni della crisi sociale – che le scelte politiche compiute in questo regime democratico non permettono di attenuare – è destinata prima o poi a scoppiare.

Mentre altrove – in Egitto, in Tunisia, in Iraq – le lotte di liberazione nazionale erano costrette a prendere le distanze o a entrare in conflitto con le monarchie locali, in Marocco le cose sono andate diversamente. Da un lato c’è l’Istiqlal, l’ala conservatrice del movimento a lungo al potere e mai del tutto emarginata, che si è sempre limitata a rafforzare la sovranità del Marocco e della sua monarchia. Dall’altro lato, l’ala modernista – che non ha mai criticato apertamente la monarchia – ha una forte base nel paese, rappresentata: dai sindacati operai rimasti molto attivi nonostante la liberalizzazione economica e la disoccupazione, e capaci di conservare la loro autonomia nei confronti dello Stato (che non ha mai cercato di controllarli, non essendo uno Stato populista) e dei loro alleati e sostenitori politici (l’Unfp diventato Usfp e il Partito comunista diventato Pps); da una classe media in espansione, che aspira di arrivare ad avere una parte del potere monopolizzato dal Maghzen (la ‘Corte’), e dalla borghesia commerciale periferica, anch’essa esclusa dal Maghzen.

Le fasi delle concessioni fatte dalla monarchia a queste forze sono note: dalle prime elezioni parlamentari del 1963 alle revisioni costituzionali del 1992 e del 1996; dalle prime esperienze ‘democratiche’ (cioè un governo formato sulla base di elezioni più o meno regolari) a quella che ha portato l’Usfp e il suo leader Abdel Rahman Youssofi al governo nel 1998, si ritiene che il sistema sia ormai diretto sulla strada di una monarchia parlamentare, che conserverà però il potere religioso. Del resto la stessa regina d’Inghilterra non è forse il capo della chiesa anglicana?

Il potere marocchino non deve quindi fare i conti con gravi problemi politici. Le classi medie marocchine non hanno ‘problemi di identità’, come accade nella vicina Algeria. La diversità culturale-etnica è stata gestita dal sistema marocchino senza provocare rotture nette nella nazione, secondo il principio tradizionale della dualità Maghzen (città e campagne limitrofe) / Bled Siba (campagne lontane dai centri abitati, per lo più di lingua berbera). Il re ha rinnovato i vincoli tribali nel rispetto dell’autonomia dei notabili locali. Promuovendo la cultura e la lingua amazigi, il sistema marocchino non ha mai concepito l’arabità, l’Islam e la realtà berbera come elementi contraddittori. In questo caso l’Islam politico si scontra con la legittimità religiosa del Maghzen, che finora non ha potuto mettere in discussione.

Ma il potere è confrontato da problemi sociali sempre più gravi, poiché nessun governo, anche quelli che possono definirsi democratici, ha mai cercato di uscire dagli schemi del liberalismo globalizzato. Non è quindi un caso che anche qui le numerosi agitazioni interessino le masse povere urbane, la nuova classe delle vittime del capitalismo moderno. Tumulti contenuti o repressi con la violenza, nel silenzio delle principali forze democratiche; ma fino a quando?

Lo sviluppo tumultuoso delle forme della vita associativa porta in sé i germi di un rinnovamento della dinamica democratica? È una questione che affrontiamo qui di seguito.


IV. Il ‘terzo settore’ della realtà sociale


1.
Anche in questo caso si tratta di una di quelle espressioni messe in circolazione dalle mode che dominano il dibattito contemporaneo. Ma come tutte le altre espressioni – per le quali i sinonimi (come ad esempio quello di ‘società civile’) si succedono gli uni agli altri – anche questa è vaga, ambigua; fa riferimento ad aspetti della realtà che non sono nuovi e ad altri che lo sono, senza avere l’accortezza di distinguere gli uni dagli altri.

Sappiamo grosso modo cosa vuol dire Stato e potere statale, e le relative istituzioni possono essere individuate con precisione. Queste comprendono non solo gli strumenti centrali e locali del potere legislativo, esecutivo e giudiziario, ma anche i mezzi della riproduzione della loro legittimità ideologica e culturale (fra l’altro le strutture educative e i media che dipendono dai poteri pubblici). Questo sarebbe, secondo la suddetta terminologia il ‘primo settore’ (la realtà sociale?). Si sa anche che cosa vuol dire, nel nostro sistema capitalistico, ‘mondo degli affari’, cioè l’insieme delle unità di produzione di beni e di servizi mercantili comandati dalla logica della produttività e del profitto e fondati sui principi dell’economia capitalistica (la proprietà privata, il diritto di impresa, la concorrenza sui mercati). La contabilità nazionale definisce le frontiere di questo ‘secondo settore’ (la realtà economica?), ne misura il volume e ne descrive l’evoluzione. Ma è evidente che la realtà sociale non può essere ridotta ai due poli che costituiscono lo Stato e il settore privato (se questo è il nome che diamo alle unità che compongono l’economia capitalistica). La vita politica e sociale degli individui e dei gruppi si esprime anche con altri mezzi, attraverso altri modi di organizzazione, formali e informali.

Questa constatazione – valida in tutti i tempi e in tutti i luoghi – non meriterebbe neppure di essere definita come la ‘scoperta’ di una nuova realtà cui si dà il nome di ‘terzo settore’, – come se si trattasse di un insieme omogeneo e coerente al pari delle altre due – se dietro questa innovazione del linguaggio non si profilasse una strumentalizzazione e un’ideologia che bisogna individuare e decostruire.

La contabilità nazionale permette infatti di dividere il prodotto nazionale (e la spesa) tra lo Stato, l’impresa privata e un terzo settore, quello della ‘vita associativa’. Si scopre così che in tutti i paesi capitalistici sviluppati (la ‘triade’: Stati Uniti/Canada, Unione europea e Giappone) questo settore associativo rappresenta all’incirca il 5% del Pil. Una media che inganna perché questo settore associativo – almeno in parte – è in concorrenza con attività simili condotte dai servizi pubblici. L’insegnamento o la sanità ad esempio, che in un paese possono essere di competenza esclusiva o principale del servizio pubblico, altrove possono dipendere dal settore privato di mercato o associativo. Tuttavia non sempre è facile fare la distinzione tra il settore privato di mercato – retto dal profitto – e il settore associativo (‘charity’ in inglese), che risponde a questo criterio.

Infatti per i paesi della ‘triade’ il finanziamento delle attività associative è garantito solo per il 7% dai contributi dei membri delle organizzazioni interessate e dalle donazioni dei benefattori privati, e per il 45% dalle sovvenzioni dello Stato e per il 47% dal prodotto delle vendite di servizi offerti dalle associazioni in questione (Lester Salamon).

L’ampiezza delle attività di questo ‘terzo settore’ dipende quindi dalle idee che si attribuiscono alla natura dei servizi – che possono essere resi dal servizio pubblico, dalle organizzazioni associative o dall’impresa commerciale – dai ‘pro’ e dai ‘contro’ relativi a ciascuna delle tre scelte possibili.


2.
Da questo punto di vista, uno sguardo alla storia passata e recente è più istruttivo della lettura della retorica ideologica ‘antistatale’ di cui si alimenta la cultura dominante.

Nelle società premoderne europee e nel mondo islamico le chiese o le istituzioni islamiche avevano grandi responsabilità nel campo dell’istruzione e della sanità. Le istituzioni religiose disponevano infatti di proprie risorse (semifiscali). Lo stesso si poteva dire per le corporazioni di mestieri, attraverso le quali si trasmettevano le conoscenze tecniche. La laicizzazione del moderno Stato europeo e l’espansione di servizi commerciali non hanno cancellato questo ruolo delle chiese. Nei paesi in cui la riforma protestante ha trionfato le chiese sono state ‘nazionalizzate’ – quasi ‘statalizzate’ – conservando in questo modo parte delle loro funzioni, finanziate però con le sovvenzioni pubbliche che si sono sostituite alle precedenti risorse proprie (anche a quelle provenienti dallo sfruttamento dei possedimenti agricoli di cui la chiesa fu espropriata). Nella stessa Francia, dove la rivoluzione laica fu più radicale, la chiesa ha conservato fino agli inizi del secolo XX il quasi monopolio sull’istruzione elementare e conserva ancora la gestione di una parte dell’insegnamento, ormai sovvenzionato dallo Stato. Divisa tra il servizio pubblico e l’esercizio mercantile della libera professione medica, la sanità è diventata un servizio pubblico solo con la generalizzazione del Welfare State, dopo la seconda guerra mondiale. A sua volta, la forma puramente mercantile della fornitura di questi servizi era rimasta del tutto marginale fino all’offensiva neoliberale degli ultimi vent’anni.

La situazione era diversa negli Stati Uniti, dove le ‘comunità locali’ (anch’esse spesso confuse con le varie comunità religiose) e il settore privato di mercato hanno sempre assicurato la maggior parte dei servizi in questione.

Il mondo arabo e islamico ha conosciuto una storia del tutto analoga e l’eredità di questi antichi sistemi si fa sentire fino ai giorni nostri. L’istituzione religiosa – in mancanza di organizzazioni proprie simili a quella delle chiese cattolica od ortodossa – era ampiamente subordinata al potere dello Stato, del califfo o dei sultani locali. Laddove questa istituzione si è data una forma simile a quella della chiesa – ad esempio nell’Iran sciita – questa è stata posta sotto lo stretto controllo dello Stato (a partire dai sefevidi nel secolo XVIII). La rivoluzione islamica iraniana ha semplicemente rovesciato i rapporti sottomettendo lo Stato all’istituzione religiosa.

Nel mondo sunnita l’assenza di un’autonoma organizzazione caratteristica dell’istituzione religiosa ha favorito la moltiplicazione di ‘confraternite’ – sufi o altro – che hanno cercato di rendersi autonome rispetto al potere dello Stato, il quale le ha sempre combattute o neutralizzate. Anche nella laica Turchia kemalista l’istituzione islamica è stata statalizzata e non soppressa o ‘ignorata’ come spesso si scrive. In questo senso il kemalismo perseguiva gli stessi obiettivi del sultanato ottomano: strumentalizzare la religione e sottometterla ai suoi obiettivi.

Nulla di tutto ciò è scomparso nel mondo arabo e islamico contemporaneo, né in seguito alla colonizzazione in Africa del Nord né per opera dei regimi ‘borghesi’ del periodo tra le due guerre in Egitto e in Mashrek 16 o dei successivi regimi populisti della seconda metà del XX secolo. In Marocco ci sono ancora più di cinquemila habou (l’equivalente dei waqf del Mashrek) – grandi proprietà di manomorta – i cui redditi costituiscono la fonte principale del finanziamento dei servizi al di fuori della sfera statale. Ribattezzate Ong, le ‘associazioni’ in questione non sono altro che le eredi degli antichi habou. Anche in Sudan dietro la maggior parte delle Ong, che distribuiscono i servizi sociali, si distinguono le due grandi confraternite (gli ansar e i khatmia), ridefinite ‘partiti politici’. I tentativi del potere ‘islamico’ fondamentalista e la volontà di ignorare le confraternite non hanno dato grandi risultati. Nei paesi del Mashrek i regimi del nazionalismo populista hanno soppresso i waqf (come era avvenuto nella Turchia kemalista) ma hanno anche statalizzato l’istituzione islamica. I regimi di questo nazionalismo populista avevano ovviamente dato allo Stato il monopolio del finanziamento dei servizi sociali, ma lo Stato stesso si integrava nell’istituzione religiosa, che all’epoca appariva sotto controllo.


3.
Il momento attuale è caratterizzato da un’offensiva del capitale, che cerca di trovare nuovi spazi per la sua espansione, in particolare tra quelli gestiti finora ‘fuori dal mercato’, dallo Stato o dalle istituzioni religiose e comunitarie, che rispondono solo molto imperfettamente ai criteri della ‘vita associativa’. Quale rapporto fra lo sviluppo di questa vita associativa (le ‘Ong’) – anch’essa integrata, dentro o fuori l’istituzione religiosa – e l’espansione dei valori e dei criteri dell’economia di mercato? Come si intrecciano o si contrappongono i concetti di servizio pubblico e quelli che definiscono la razionalità del mercato? Questi sono gli interrogativi che la retorica ‘antistatale’ maschera e che invece si devono affrontare apertamente.

Su questo argomento i propagandisti della teoria liberale hanno idee semplici – e questo ne costituisce la forza – e tuttavia senza fondamento scientifico né base empirica. Secondo questo discorso le comunità (che definiscono il ‘mondo associazionistico’) e il settore privato di mercato sarebbero capaci, meglio delle strutture pubbliche, di fornire i servizi sociali richiesti dalla società. Lo Stato sarebbe infatti solo sinonimo di burocrazia irrazionale, spesso di tirannide, sempre fonte di sprechi indecifrabili poiché i costi dei servizi che gestisce sono diluiti nel bilancio nazionale. Al contrario, le comunità e, a maggior ragione, il settore privato di mercato saprebbero gestirsi meglio, visto che spendono denaro proprio. Saprebbero meglio adattarsi quindi alla varietà dei bisogni, essendo flessibili per natura. Il settore associativo e quello privato sarebbero perciò, al contrario dello Stato, un’espressione superiore dell’esercizio democratico, della trasparenza e della responsabilità (accountability). La democrazia di cui si parla è quella della libertà nel senso che Von Hayek dà a questo valore esclusivo; la libertà dei più forti, che ignora l’altro valore – quello dell’uguaglianza – senza il quale non c’è democrazia 17. Ma Von Hayek è un libertario di destra e non un democratico.

La realtà dimostra al contrario la superiorità incontestabile del servizio pubblico rispetto al settore associativo e soprattutto a quello privato (il confronto ha senso solo se i termini a confronto riguardano sono compresi nella stessa società o in società simili per quanto riguarda lo sviluppo generale e la ricchezza). Le spese sanitarie, largamente privatizzate negli Stati Uniti, assorbono il 14% del Pil rispetto al 7% dell’Europa, i cui risultati misurati, in termini di mortalità infantile e di aspettativa di vita, sono molto superiori. E questo risultato si spiega proprio col fatto che in Europa la salute è soprattutto nelle mani del servizio pubblico. Senza contare le disuguaglianze, molto più evidenti negli Stati Uniti, i cui cittadini beneficiano di un diritto alla salute direttamente proporzionale al loro portafoglio. Viceversa, la privatizzazione della sanità garantisce alle industrie farmaceutiche e mediche e alle assicurazioni americane profitti molto più alti rispetto ai loro equivalenti europei. Si tratta di uno spreco la cui portata supera di gran lunga quella che si può attribuire alle burocrazie e agli abusi dei beneficiari della sicurezza sociale pubblica.

Quanto alla trasparenza e alla responsabilità finanziaria, esse si possono garantire molto più facilmente dal servizio pubblico – che, per principio, in una democrazia effettiva può essere oggetto di indagini del Parlamento e di inchieste – rispetto al settore privato che si muove nel segreto del mondo degli affari.

La cosiddetta teoria liberale in questo settore non è quindi né una teoria né il frutto di una constatazione empirica. È pura e semplice propaganda, nel senso più rozzo del termine. Le istituzioni che se ne fanno portavoce, come la Banca mondiale, non sono in realtà che una sorta di ministero della propaganda del grande capitale dominante.

Dietro questa propaganda si profila il conflitto tra due concetti di gestione dei servizi sociali. Da un lato abbiamo il concetto britannico – che ignora il servizio pubblico – esportato e portato ai suoi eccessi negli Stati Uniti. Dall’altro quello del servizio pubblico, largamente dominante nella cultura moderna non solo in Francia ma anche nella maggior parte dei paesi dell’Europa continentale. Il concetto anglosassone subordina tutti gli aspetti della vita sociale alle esigenze prioritarie ed esclusive dell’espansione del settore gestito dal capitale. Il concetto franco-europeo ne limita i danni.

L’insistenza con cui finora ho descritto il sistema di valori, le concezioni relative ai rapporti tra economia (capitalistica) e società, le realtà empiriche attraverso le quali le diverse scelte si traducono in questi settori non è superflua: al contrario nei paesi arabi questi temi sono al centro di accese discussioni e dello scontro fra diversi progetti politici.


V. Il mondo delle associazioni.
Autentico sviluppo o apparenza?


1.
Lo sviluppo improvviso e tumultuoso del mondo associazionistico negli ultimi vent’anni è in sé un fatto indiscutibile, sia nel mondo arabo che in qualsiasi altro paese. I dati quantitativi – molto approssimativi e sempre molto sottovalutati – avanzano la cifra di 55.000 associazioni (Ong) registrate in Algeria, 15.000 in Egitto, 18.000 in Marocco, probabilmente più di 100.000 in tutto il mondo arabo. Secondo i paesi, negli ultimi anni, queste cifre sono state moltiplicate per un coefficiente fra 5 e 10.

È chiaro che, tanto nel mondo arabo che altrove, la vita associativa non è un fenomeno nuovo. Nel mondo musulmano, i waqf18 (habou in Nord Africa) hanno rappresentato la principale forma di organizzazione collettiva, basata essa stessa su attività caritatevoli e servizi sociali (educazione, sanità). In Marocco, 5000 habou forniscono tuttora una quantità impressionante di servizi sociali. In un paese come il Sudan, le forme tradizionali di cooperazione del mondo agricolo, analoghe a quelle che troviamo in tutto il mondo africano, sono ancora correnti, per esempio, tra l’altro, il nafir (aiuto reciproco per il raccolto), il faza (lavori collettivi in caso di calamità naturali), l’ajawid (consigli collettivi che amministrano il diritto consuetudinario), il khalawy (educazione religiosa). La maggior parte di queste forme di vita associativa che ancora sopravvivono non sono mai state registrate in vista di un calcolo quantitativo del loro impatto sulla realtà.

Un certo numero di queste antiche realtà sono impegnate in un processo di ‘modernizzazione’ e assumono la forma di ‘Ong’ dotate di statuto, bilancio, personale responsabile, ecc. Il movimento islamico, tra l’altro, ha scelto spesso di agire in tal modo nell’ambiente degli habou (Marocco) o delle Confraternite (Sudan in particolare). Inoltre, molte attività sociali – comprese quelle di natura politica – vengono condotte con modi organizzativi informali. In molti paesi arabi ci si può riunire senza che la polizia politica (presente in ogni paese) lo proibisca o lo reprima (accontentandosi di raccogliere informazioni). In Egitto in particolare (e sono davvero numerosi) sono di questo tipo informale la maggior parte dei ‘comitati di lotta contro la normalizzazione delle relazioni con Israele’, Ma non è così dappertutto: l’occhio vigile della polizia ne rende la pratica rischiosa in Tunisia, in Siria (è in corso un ammorbidimento), e chiaramente in Iraq.

Come vedremo, c’è comunque qualcosa di qualitativamente nuovo e un certo numero di buoni studi sul campo forniscono valutazioni e analisi preziose su questo mondo di ‘Ong’.


2.
Il ‘pubblico’ interessato dalle reti di Ong in questione è davvero così vasto come a volte si dice? Di che genere di ‘pubblico’ si tratta: sono autentici soci (più o meno attivi) o semplicemente ‘clienti’ (paganti) o ‘beneficiari’ (non paganti) dei servizi offerti dalle Ong? Valutazioni e giudizi variano moltissimo. Le Ong ‘intervistate’, danno chiaramente l’immagine più favorevole delle loro attività e del loro impatto. A sentir loro – sommando le cifre fornite dai responsabili ed estrapolandole – in Egitto, le attività delle Ong (organizzazioni che non siano partiti politici, sindacati, cooperative e le associazioni professionali di cui si è detto sopra), riguarderebbero tre milioni di cittadini. La cifra di dieci milioni per tutto il mondo arabo sembra plausibile. E questo non è di certo un fatto trascurabile.


3.
Il volume di risorse finanziarie trattato dalle reti di Ong è poco conosciuto. Sebbene le Ong siano sotto stretta sorveglianza da parte delle autorità in tutti i paesi arabi, siano generalmente registrate da qualche parte (al ministero degli Affari Sociali o dell’Interno secondo il paese) e siano tenute a fornire informazioni sulle loro risorse e spese, non conosciamo le cifre statistiche globali rappresentate dalle attività in questione. O, per lo meno, coloro che ne sono probabilmente a conoscenza (i servizi di sicurezza) le mantengono riservate.

Qui, dunque, faremo soltanto valutazioni molto approssimative, partendo dai dati parziali forniti dai campioni intervistati qua e là.

Considerando il mondo arabo nel suo insieme, esclusi Tunisia, Siria e Iraq (paesi in cui è praticamente impossibile condurre un’indagine sull’argomento), costatiamo una notevole dispersione del ventaglio delle Ong. La maggior parte di loro (tra il 60 e il 70%) sono molto piccole se non addirittura minuscole, considerato il volume finanziario che trattano (circa mille dollari l’anno). Ma per il 10%, le più importanti denunciano ‘cifre di affari’ di 200.000 dollari e molto più. L’estrapolazione in scala delle 100.000 Ong arabe darebbe un volume finanziario dell’ordine di due miliardi di dollari, cifra sicuramente molto al di sotto della realtà.


4.
Il finanziamento di queste attività è anch’esso poco conosciuto (senz’altro tranne che dai servizi di sicurezza). Ci sono però indicatori sufficienti per potersene fare un’idea d’insieme corretta.

Metà delle Ong ricevono sovvenzioni da parte dei propri paesi, sia sotto forma di contributi annuali e di finanziamenti per progetti, che con la messa a loro disposizione di personale dei servizi pubblici e di locali (un quinto dei casi studiati, considerando il mondo arabo nel suo insieme). Queste sovvenzioni non sono mai trascurabili rispetto alle risorse totali e possono arrivare a rappresentare la metà delle spese di alcune tra le più grandi Ong attive nella fornitura di servizi sociali (aiuti alle famiglie, educazione, sanità) o di ‘progetti di sviluppo’ urbani e rurali.

La maggior parte delle Ong (la quasi totalità di quelle intervistate) ricevono sovvenzioni ‘private’ di origine domestica (cioè non straniera). Queste sovvenzioni raggiungono volumi considerevoli per quelle organizzazioni più grandi che operano nel campo dell’educazione, della sanità e di altri servizi ‘sociali’ o riconosciuti come tali. Queste sovvenzioni provengono sia dagli habou (è il caso del Marocco), sia dalla rete delle istituzioni economiche islamiche (la Banca Islamica per esempio), sia da ‘benefattori’ che in realtà sono i miliardari della rete Stato-affari-movimento islamico. Flussi provenienti dal Golfo petrolifero si inseriscono in questo insieme di sostegni di cui godono esclusivamente le organizzazioni connesse al movimento islamico.

La terza fonte di finanziamento è costituita dalla vendita di servizi, da cui traggono profitti un terzo delle Ong, in particolare quelle più importanti che si occupano di educazione e sanità. Molte Ong, in realtà, portano avanti attività puramente mercantili, pur presentandosi come ‘benefattrici dell’umanità’. Anche in questo caso, a dominare la scena è la confusione con le attività politico-ideologiche del movimento islamico.

Infine ci sono gli aiuti esterni, sia da parte di governi stranieri (o di istituzioni straniere) che da parte di istituzioni che rientrano nelle organizzazioni internazionali (Banca Mondiale, Programma di sviluppo delle Nazioni Unite e Cooperazioni europee in particolare). Queste fonti non sono censiti meglio delle altre forme di finanziamento anche se gli organismi donatori potrebbero farlo facilmente. Ne beneficiano un terzo delle Ong. Quali di loro si collocano nella rete della vita associativa? Nei paesi arabi i controlli delle autorità statali sono minuziosi e in linea di principio, quasi dappertutto, le sovvenzioni straniere vengono sottoposte ad autorizzazione preliminare. I servizi di sicurezza quindi potrebbero – ma non vogliono – fornire questi dati significativi. Ma sembra proprio che il donatore principale, almeno per quanto riguarda l’Egitto, sia UsAid che gode di un regime ‘speciale’ con l’Egitto. Le sue sovvenzioni, sembra, vadano a un bel gruppo di Ong di media grandezza che si occupano della fornitura di servizi e di progetti di sviluppo, e sono ben viste dalle autorità (beneficiano anche di sovvenzioni pubbliche) e dal movimento islamico (cui un buon numero si riferisce apertamente). Sembra che i donatori che rientrano nella Comunità europea (in particolare i Paesi Bassi) siano più attivi in Nord Africa, Libano e Palestina.

‘Trasparenza’ e ‘responsabilità’ (accountability) non caratterizzano i finanziamenti delle Ong! Contrariamente a quanto sostiene la propaganda ufficiale, si tratta di un insieme di istituzioni e di attività notevolmente più oscure di quanto non lo siano le organizzazioni e le attività dei settori pubblici, i cui bilanci sono quantomeno pubblicati e disponibili.


5.
Salvo qualche sfumatura per quel che riguarda Libano e Palestina, le Ong operano in tutti i casi sotto la stretta sorveglianza dello Stato. Nel mondo arabo non è in vigore il principio democratico secondo cui la creazione di associazioni è libera, con lo Stato che si riserva il diritto di intervento (che può arrivare fino al divieto) solo per motivi definiti per legge e sotto il controllo della giustizia. Qui al contrario, come regola generale, vige il principio dell’autorizzazione preliminare. Questo permette all’amministrazione di essere padrona del gioco attraverso i suoi cavilli burocratici (e alla polizia con metodi più brutali). Questi ‘cavilli’ – nel caso della Tunisia, della Siria e dell’Iraq – possono arrivare a rendere praticamente impossibile qualsiasi attività che non rientri nella linea di azione dello Stato. In Algeria, nello stato attuale di disorganizzazione del paese, le Ong sembrano bloccate. In Sudan, sebbene la dittatura ‘islamica’ sostenga di vietare tutto quel che non proviene direttamente da iniziative interne al proprio sistema, la rivolta latente si manifesta con la comparsa di organizzazioni – ‘illegali’ – che riescono a imporsi nonostante le violenze cui vengono sottoposti i loro militanti. Nei paesi in cui il potere sembra essere forte e stabile – Egitto e Marocco per esempio, o i paesi del Golfo –a dominare la scena è il compromesso: la maggior parte delle Ong infatti sono quelle che con una bella espressione inglese si chiamano: ‘Government sponsored Ngo’s’. O, quanto meno, si tratta di Ong tollerate, se non addirittura amiche – in Egitto quelle del movimento islamico –che in realtà non patiscono le vessazioni che affliggono quelle associazioni che cercano di essere indipendenti, critiche o addirittura militanti. Queste ultime però esistono, e il loro impatto sulla società non è trascurabile, almeno in Libano, Giordania ed Egitto; in misura minore in Marocco e in una situazione molto più drammatica in Tunisia.

La legge – a dispetto della pretesa ‘democratizzazione’ – si è evoluta in senso negativo, restringendo sempre più le libertà. Anche quando non viene applicata rigorosamente, la legge è sempre sospesa come una spada di Damocle sulle teste di quelle attività che sembrano poter diventare ‘pericolose’. Per chi contravviene alle leggi e ai regolamenti sulle associazioni, sono previste pene severe – carcere incluso – anche per trasgressioni minori (un ritardo nel fornire informazioni, ecc.).

A questo proposito, l’esempio dell’Egitto è molto eloquente. La legge del 1945, sottoponeva le attività associative al diritto civile, permettendo in tal modo l’esercizio più o meno normale del diritto di associazione; questo in teoria più che in pratica poiché la legge marziale e le leggi eccezionali adottate con il pretesto dello Stato di guerra con Israele permettevano di fatto il controllo (‘anticomunista’) della polizia. Il regime nasseriano abolì la legge del 1945 e, con la legge del 1956, sottomise tutte le attività collettive e le associazioni all’autorizzazione preliminare, assicurandosi il loro controllo (da parte del ministero degli Affari Sociali e dell’Interno) grazie a una clausola che la dice lunga,: "queste attività devono rientrare nel quadro della pianificazione dell’azione sociale da parte dello Stato". La legge del 1964 aggravava la situazione, precisando le modalità del controllo diretto da parte dell’amministrazione, i cui rappresentanti era stabilito che sedessero negli organismi decisionali delle associazioni. La legge del 1994 ha ripreso e aggravato le disposizioni della legge precedente. Il nuovo progetto, elaborato dai servizi dello Stato nel 1999, è ancora in discussione ed è vivamente contrastato da molte associazioni.

Se in Marocco, alla vigilia dell’indipendenza, la legge (del 1958) autorizzava in linea di massima la libera costituzione di partiti politici e associazioni, quella del 1973 mise le associazioni sotto controllo. Un controllo che è rimasto effettivo nonostante gli emendamenti costituzionali del 1992 e del 1996, che, quanto meno in linea di principio, rafforzano le libertà. Il Consiglio dei Diritti dell’Uomo, collocato direttamente sotto la responsabilità del re, consente, se necessario, un’interpretazione dei testi.


6.
I campi di intervento delle reti di Ong sono vari; ma senza difficoltà possiamo classificarli sotto cinque voci generali:

La prima categoria riguarda diversi interventi in campi che normalmente sono di competenza dei servizi statali (educazione, sanità, servizi sociali); essa assorbe la maggior parte dei mezzi finanziari del settore associativo nel suo complesso (più di due terzi). Le ricerche condotte sull’insieme dei paesi arabi permettono di quantificare approssimativamente l’entità relativa dei vari servizi sociali forniti da questo ‘terzo settore’ della vita sociale. In testa si trovano educazione e formazione, dalle elementari all’Università, e le varie formazioni professionali; subito seguite da tutti i servizi che riguardano sanità, cura dell’infanzia, pianificazione familiare e altri servizi sociali simili.

Resta il fatto che non sempre è facile valutare la vera natura dei servizi forniti. Nella maggior parte dei casi – trattandosi in particolare di scuole, se non di università private il cui numero cresce di giorno in giorno (oppure di sedicenti istituti di formazione), di ospedali o centri di cura – risulta chiaro il carattere mercantile dell’operazione. Il motivo per cui queste attività vengono considerate rientranti nel ‘terzo settore’, e non nel semplice settore di mercato, è che esse sono portate avanti da associazioni che nel mondo arabo dipendono ampiamente da interventi del movimento islamico, mentre le altre – in Egitto e in Libano –vengono portate avanti da associazioni religiose cristiane.

In compenso, un certo numero di attività raggruppate sotto questa categoria rientrano più nel campo dell’assistenza, per non dire della carità: interventi in favore della ‘famiglia’, pianificazione e igiene familiare, protezione materna e infantile, sostegno per gli handicappati e per i vecchi, bambini di strada, ecc. Le sovvenzioni pubbliche e quelle dei donatori stranieri intervengono più spesso in questi casi che nei campi propriamente detti dell’educazione e della sanità. Il fatto è che questi programmi vengono spesso concepiti – se non proprio per attirare i finanziamenti in questione – nei termini stabiliti dalle modalità per la ‘lotta alla povertà’. L’apporto dei movimenti fondamentalisti islamici – e spesso il loro controllo – risulta in questo caso ugualmente evidente; non viene del resto nascosto ma rivendicato.

La seconda categoria, che riguarda le attività delle Ong associate a progetti specifici di sviluppo, interessa circa il 15% delle associazioni attive registrate. Per metà si tratta di progetti urbani (piccole imprese artigianali e cooperative, corsi di formazione professionale), per l’altra di progetti agricoli. Anche qui sembrano decisivi gli apporti pubblici ed esterni, mentre pare siano marginali quelli riferibili ai movimenti fondamentalisti islamici.

La terza categoria riguarda le organizzazioni impegnate nella difesa dei diritti: diritti umani in generale, diritti dei lavoratori in particolare o diritti e rivendicazioni delle donne. Nel caso dell’Egitto, bisogna segnalare che oltre alle classiche associazioni per i diritti umani, esiste una rete non trascurabile di associazioni che sostengono (anche giuridicamente) sia i sindacati operai che le cooperative agricole. Si tratta in questo caso di un bell’esempio, coraggioso, di comportamenti che assicurano un legame tra i professionisti intellettuali e le classi lavoratrici. Essendo impegnate in lotte vere, spesso difficili, sono queste le associazioni che più attirano su di sé gli sguardi inquieti del potere. Allo stesso tempo, sono quelle che possiedono minori mezzi finanziari, sia perché i contributi provenienti dall’estero vengono distribuiti con il contagocce, sia perché le stesse organizzazioni possono essere reticenti nel richiederli. Le autorità – quando non ne hanno create di proprie – hanno spesso tentato di rispondere alla sfida appoggiando la creazione di associazioni ‘moderate’. Queste ultime dispongono chiaramente di più mezzi, compresi quelli provenienti dall’estero. Il movimento islamico, che a lungo ha avuto atteggiamenti di condanna verso questi diritti, e ancor più verso i diritti delle donne (accusati entrambi di essere stati ‘importati’ dall’Occidente), in una seconda fase ha ritenuto utile dare luogo a interventi più sistematici in questi campi. Infine metteremo in questa categoria anche alcuni centri di studio, di riflessione e dibattito, importanti in una congiuntura come quella attuale segnata dalla povertà intellettuale, da un controllo sulle università e dalla restrizione delle loro libertà e dei loro mezzi.

La quarta categoria di intervento si occupa più in particolare della difesa dei diritti – culturali se non proprio politici – di quelle che nel linguaggio internazionale vengono chiamate ‘comunità’, e talvolta ‘minoranze’, termini che le associazioni e le istituzioni in questione rifiutano di usare perché – giustamente – si considerano parte integrante dei segmenti di un’unica società nazionale. È il caso delle associazioni locali marocchine, molto numerose, e di quelle create per la promozione della cultura amazigi. Anche le chiese – quella copta per esempio – che si ritrovano in questo spirito, hanno cominciato a creare numerose associazioni che rafforzano i loro legami con i propri popoli.

La quinta categoria, quella delle ‘associazioni di uomini d’affari’, costituisce un’autentica novità e in qualche paese arabo si sta sviluppando con successo. Si tratta di organizzazioni potenti.


7.
Conosciamo le argomentazioni avanzate dai difensori e dai critici del mondo delle associazioni in generale e di quello che si sta sviluppando in questi anni nei paesi arabi e altrove. Molte di queste argomentazioni vengono formulate in termini troppo generali perché possano servire alla discussione sulle prospettive che queste attività possono aprire, sui loro limiti nella situazione attuale delle società arabe contemporanee, sulle forze politiche che vi si sviluppano, sui margini di libertà consentiti dallo Stato autocratico, sui mezzi proposti per superare questi limiti. Avendo presenti questi problemi, farò alcune osservazioni di vario ordine, che mi sembra emergano dall’insieme degli studi e delle discussioni di cui sono a conoscenza.

a. L’innesto dei temi ecologisti non ha attecchito nel mondo arabo. In nessun paese arabo di mia conoscenza, si riesce a trovare un solo ‘movimento ecologista’ che sia degno di questo nome. A eccezione forse di qualche organizzazione, conventicole prive di capacità d’azione reale, nate dal sostegno estero, e talora strumentalizzate da qualcuno.

Questo non significa che la preoccupazione per l’ambiente sia completamente assente. Essa compare in alcuni progetti di sviluppo, ma – bisogna dirlo – solo grazie al sostegno estero, tanto in alcuni progetti statali che in un pugno di mini-progetti di associazioni cui viene tributato un apprezzamento assolutamente sproporzionato. In ogni caso, sia nelle grandi scelte dello Stato, dei privati e del settore associativo, le preoccupazioni per l’ambiente restano all’ultimo posto.

b. Il femminismo non è diventato una forza all’altezza della tragica sfida da cui le società arabe sono confrontate.

Più di un secolo fa, Qassem Amin 19 osava pensare e scrivere in Egitto che il grado di liberazione e progresso di una società, si misurava dalle norme riguardanti le sue donne; osava proporre riforme radicali della legge che sancisce queste norme (la sharia), criticare le interpretazioni religiose tradizionali che dominavano in questo campo. Idee che oggi vengono considerate ‘blasfeme’, vengono censurate dal sempre più potente Al Azhar e perseguite dalla giustizia. Questi dati ci dicono che i movimenti di protesta delle donne arabe si trovano attualmente in una congiuntura ideologica e culturale che ha fatto grossi passi indietro.

Detto ciò, è importante non confondere gli autentici movimenti di lotta delle donne (vale a dire quei movimenti che si propongono di cambiare la realtà) con la "partecipazione delle donne allo sviluppo". A questo proposito, chi difende il sistema attuale, mette in evidenza ‘cifre’ che non significano nulla. Infatti, sia gli uomini che le donne ‘beneficiano’ degli interventi che riguardano l’educazione e la salute. Nel mondo arabo non siamo allo stadio afgano per cui alle donne vengono rifiutate le cure ospedaliere! Inoltre, gli interventi che riguardano la ‘famiglia’ in generale, i bambini, l’igiene, la pianificazione familiare si rivolgono soprattutto alle donne. Questi interventi però non mettono affatto in questione lo statuto subalterno della donna, le leggi che lo consacrano, i pregiudizi e le pratiche.

L’intervento dei movimenti islamici in questi campi non ha fatto altro che peggiorare le cose. Gli studi condotti in Egitto su questo argomento dimostrano che questi interventi mirano a promuovere l’obbedienza delle donne alle leggi attuali in cambio di un piccolo miglioramento delle condizioni materiali: ‘carità’ e non diritti. Il paradosso si spinge fino a concepire che alla direzione dei movimenti femminili debbano esserci… gli uomini (e generalmente dei religiosi)! Allo stesso tempo, il movimento islamico predica severità nell’interpretazione reazionaria della religione e della legge. E, purtroppo, in questo campo è riuscito a ottenere qualche risultato imponendo arretramenti sui precari progressi realizzati nel codice della famiglia. È riuscito a far ammettere il principio della ‘hisba’, ovvero il diritto di un qualsiasi individuo di denunciare un cittadino o una cittadina qualsiasi con l’accusa di apostasia ottenere che il tribunale imponga il divorzio alla coppia. È successo e continua a succedere! Negli ultimi quattordici secoli l’applicazione di questa interpretazione della legge religiosa non conosce precedenti!

Esistono diverse categorie di ‘movimenti femminili’. Vi sono veri movimenti di lotta che conducono la loro battaglia nelle attuali condizioni particolarmente difficili, e ve ne sono altri che non ci provano neanche. È il caso di quelle ‘grandi’ organizzazioni presiedute generalmente dalla moglie del capo dello Stato. Esistono solo sulla carta, ma dotate di abbondanti risorse (sovvenzioni dello Stato, di UsAid e di altri donatori stranieri), queste organizzazioni perpetuano la tradizione di carità le cui manifestazioni sono quotidianamente magnificate da parte dei media.

c. Si dice spesso che le iniziative delle associazioni si rivolgono a un pubblico ignorato dalle forme che dominano la vita e l’azione sociale: Stato, partiti politici, sindacati.

Non c’è dubbio che le società arabe di oggi siano molto diverse da quelle di mezzo secolo fa. La crisi sociale – cioè la polarizzazione interna contemporanea a quella prodotta su scala globale dall’espansione del capitalismo e aggravata nell’attuale congiuntura liberista – si manifesta con il fatto che una parte, misurabile fra un terzo e metà della popolazione urbana non è integrato in quello che si definisce il settore ‘informale’. Inoltre, questa crisi produce un aumento della ‘povertà’, sia pure moderna, che colpisce – secondo i criteri della Banca Mondiale – più di un terzo della popolazione araba urbana,. Questa povertà urbana moderna si aggiunge alla povertà rurale ‘tradizionale’ (ma che tradizionale non è, essendo anch’essa il prodotto della modernizzazione capitalista, in particolare delle sue scelte liberiste) che colpisce una porzione forse ancora più grande della popolazione delle campagne.

Questo stato di cose pone il problema seguente: si deve porre l’accento sull’esigenza di un’altra strategia economica, sociale e politica, mirante a riassorbire questa emarginazione, o si può accettarla, cercando solo di regolarla e gestirla?

Il pensiero dominante lascia intendere che l’unica opzione ‘realistica’ sia la seconda. Al tempo stesso, questo pensiero trae da questa constatazione la seguente importante conclusione pratica: le forme ‘tradizionali’ di lotta sociale – che si sviluppavano nell’ambito di luoghi di lavoro identificabili e spesso circoscritti (la fabbrica, l’amministrazione, gli ordini professionali, le cooperative…) coinvolgono, a dir molto, solo metà della popolazione attiva. Per questa ragione avrebbero perso la loro efficacia, quindi la loro credibilità. Vero, ma solo in parte. Si aggiunge che le nuove strutture sociali mettono invece il luogo di abitazione – il vicinato – al centro delle esigenze della mobilitazione e dell’azione. Cosa non del tutto esatta.

L’analisi di quel che avviene nella attuale sfera ‘informale’ si presta a commenti critici. Buona parte dell’azione delle associazioni si rivolge a queste aree sociali, è vero. Ma le ricerche condotte sulle loro attività dimostrano purtroppo che la partecipazione attiva dei beneficiari dei progetti non viene realmente ricercata. Nei casi esaminati in Egitto e in altri paesi, metà dei responsabili confessa di non cercarla nemmeno, mentre l’altra metà sostiene che la ‘consultazione’ (quasi in nessun caso la partecipazione diretta) degli interessati è difficile. A giustificazione di questi comportamenti vengono date spiegazioni molto banali: i destinatari sono ignoranti, non sanno cosa sia giusto per loro, ecc. È senz’altro per questo che i ‘movimenti spontanei’ che si sviluppano in quest’area, sono estranei alle associazioni e vengono accusati – a buon diritto – di essere ‘illegali’.

L’idea della ‘azione dal basso’ (grass-roots) rimane solo un idea. Non ci si deve quindi stupire se gli interessati si comportino da ‘clienti’, e rafforzino in questo modo i comportamenti di nepotismo dei dirigenti. Tali comportamenti portano alla ‘spoliticizzazione’ delle masse interessate e alla loro ostilità nei confronti della politica (così come è praticata nei rapporti tra le associazioni, o lo Stato, e le masse), riallacciandosi così alla tradizione del populismo autoritario di cui l’Islam politico ha preso il testimone.

d. La maggioranza delle attività svolte in ognuna delle cinque categorie di intervento esaminate non sono indipendenti dallo Stato. La vita associativa è dunque ampiamente apparente. E dico non a caso la maggioranza perché, chiaramente, fanno eccezione alla regola le organizzazioni di lotta per i diritti umani, i diritti sociali e i diritti delle donne.

Le ricerche quindi rivelano che la maggior parte delle associazioni della ‘società civile’ non si lamentano dello Stato. Fino al 70% di loro si ritengono soddisfatte del suo ‘liberismo’, e del livello del suo intervento di sostegno. A loro non interessa valutare – o quantomeno conoscere – il quadro politico in cui si inscrive la loro azione. Non criticano né il liberismo economico né la globalizzazione che ne costituisce l’orizzonte.

Relazioni di autentica cooperazione tra diverse associazioni e lo Stato esistono, e non implicano solo il sostegno finanziario pubblico, ma anche la progettazione delle azioni, elaborate di comune accordo con quelle amministrazioni che vengono ritenute competenti in materia. Questa perdita di autonomia non è sentita, in realtà, con fastidio, giacché forse è il prodotto dell’assenza di idee da parte dei dirigenti delle associazioni in questione, o anche dell’assenza, fin dal principio, di un’idea di autonomia. Le critiche rivolte allo Stato sono di importanza minore, riguardano essenzialmente la farragine delle procedure amministrative. Dietro a queste difficoltà che molti non esitano a chiamare ‘fastidi’, si profila l’autocrazia dello Stato che ben conosciamo. Non possiamo farci niente e ce lo dobbiamo tenere – dice la maggior parte degli intervistati. Anche i fondamentalisti islamici se ne rendono conto e sanno bene che lo Stato continua a non fidarsi di loro, pur rinunciando a impedire la loro espansione. Da parte loro, i fondamentalisti islamici non criticano né le scelte economiche liberiste, né l’autocrazia, parola di cui, peraltro, non intendono il senso.

Si può parlare di complicità tra Stato e Islam politico? Il nasserismo aveva soppresso i Fratelli musulmani, ma aveva tollerato la loro esistenza di fatto sotto forma di una rete di associazioni religiose che assunse il nome di ‘Jamaia Al Charia Li Taawun Al Amilin bil Kutab wal Sunna Al Mohamadia’ (Associazione per il sostegno della sharia e della Sunna). Associazione più grande di qualsiasi partito politico, con 3.864 sezioni in Egitto, riconosciuta e sostenuta finanziariamente tra l’altro da UsAid e presentata come la faccia ‘dell’Islam moderato’ (e quindi partner e alternativa eventuale.) Questa organizzazione dirige un numero inverosimile di moschee (in Egitto ne sono state costruite più in vent’anni che in quattordici secoli), ne nomina gli imam (il che permette loro quindi di influenzare il pensiero più diffuso nel paese), gestisce scuole, asili nido, centri di cura, ospedali e confessa anche di continuare a dare il proprio sostegno morale e finanziario ai ‘combattenti afgani’ (i Taleban). Quest’ultimo punto, però, non viene molto pubblicizzato all’estero!

e. In molti dei casi che riguardano i servizi di educazione e sanità, l’indipendenza del mondo delle associazioni rispetto al capitale privato è decisamente dubbia. È anche vero che classificare questi servizi come associazioni è senz’altro improprio.

f. I rapporti con gli organismi stranieri sono fondamentalmente paralleli a quelli che intercorrono tra le associazioni in questione e lo Stato. Essere più vicine allo Stato significa anche essere più vicine ai donatori, soprattutto ai più importanti (Banca mondiale, Undp e sistema delle Nazioni Unite, Comunità europea). Entrare in conflitto con lo Stato significa anche limitare i rapporti a qualche sovvenzione da parte di donatori stranieri più disponibili al senso critico.

La dipendenza dall’estero di un folto numero di organizzazioni della società civile è un dato di fatto. Ma non si tratta esclusivamente, né principalmente, di dipendenza finanziaria, sebbene per alcune, essa non sia affatto trascurabile; si tratta prima di tutto di un ‘allineamento’ sulle strategie caldeggiate dalle grandi ‘agenzie’ straniere.

Queste strategie vengono esposte secondo i multiformi e potenti mezzi che sono propri della globalizzazione liberista. Conferenze mondiali e vertici in campi tanto diversi quanto lo sviluppo sociale, l’ambiente, i diritti umani, i diritti delle donne, la popolazione, il razzismo, fanno da cassa di risonanza a temi ideologici e formulazioni politiche (‘policies’) elaborate altrove, nei centri di pensiero del capitale dominante. Sono temi formulati in ‘pillole di pozione magica’ (lotta alla povertà, liberalizzazione dello Stato, deregulation del mercato, ecc.), miseri e vuoti clichés, se li si giudica dal punto di vista scientifico, ma efficaci nella diffusione delle politiche che si cerca di imporre. La Banca mondiale, responsabile della diffusione di questi temi, agisce come una specie di ministero mondiale per la propaganda del capitale transnazionale dominante. Naturalmente, poi, le ricette riescono solo a produrre il contrario di ciò per cui vengono raccomandate (non fermano l’avanzata della povertà e della crisi economica e sociale), e benché producano quel che il capitale si aspetta da loro, cioè la crescita dei profitti (ma non si deve dire), devono essere rinnovate al ritmo delle mode, che, come si sa, invecchiano presto.

Quelle organizzazioni della società civile che accettano di schierarsi dalla parte di queste strategie – nel mondo arabo e altrove – possono essere definite come strumenti ‘dell’esterno’, se si accetta l’idea che il capitale dominante a livello mondiale sia ‘esterno’. Questa forza esterna però agisce solo grazie ai suoi contatti interni, tra cui c’è lo Stato allineato con la globalizzazione liberista.

L’accusa formulata dal potere, secondo cui le Ong costituiscono il cavallo di Troia dell’imperialismo è a dir poco farsesca. Perché il principale cavallo di Troia non è altro che lo stesso Stato autoritario mamelucco. In questo modo i ‘mamelucchi’ pretendono di riservarsi l’esclusiva di denunciare il tradimento nazionale. In realtà, le affermazioni dell’Islam politico che rivolgono questa critica agli organismi della società civile – essere cioè gli ‘alfieri dell’Occidente’– sono ugualmente farseschi perché nella pratica i fondamentalisti islamici accettano il liberismo globale. Quelli che rifiutano di schierarsi con queste strategie – gli organismi di resistenza e lotta della società civile – si inimicano contemporaneamente lo Stato, l’Islam politico e le suddette istituzioni straniere!

Vero è che molti tra i responsabili delle Ong – in realtà una maggioranza – che trattano con queste istituzioni straniere non mancano di lamentarsi, chi della loro arroganza, o della loro incompetenza, poiché soffrono per i rapporti diseguali a cui porta la dipendenza finanziaria. Sono banali ovvietà. Questi motivi di irritazione non toccano il problema di fondo. La vera questione è: vengono accettate o criticate le strategie del capitale dominante espresse dalle scelte del liberismo globale? Vengono accettati o respinti i discorsi di propaganda in cui esso è impacchettato (l’inefficienza dello Stato, l’elogio incontrollato dell’efficacia della vita associativa come portatrice di democrazia, ecc.)? Vengono accettate o criticate le prescrizioni che esso propone (come la lotta alla povertà)?

g. I problemi che riguardano la democrazia e l’efficacia della gestione si pongono allo stesso modo sia all’interno delle organizzazioni della vita associativa che all’interno dello Stato o delle organizzazioni di lotta politica e sociale (partiti, sindacati e altro). Esattamente nello stesso, identico modo.

L’analisi dell’esperienza reale della maggioranza delle Ong arabe – ma anche delle altre – non autorizza certo conclusioni entusiasmanti.

Chi dirige le Ong arabe?

Innanzitutto gli uomini – fino all’85% – mentre le posizioni esecutive sono occupate al 50% da donne. Le donne che rivestono posizioni di comando si trovano esclusivamente nelle organizzazioni di lotta femminili. Altrove – le organizzazioni di ‘azione sociale’ e quelle sotto il controllo del movimento islamico – le rare donne vengono messe in mostra solo per far colpo sugli osservatori.

I suddetti uomini, poi, sono pressoché inamovibili, visto che, certo, rivestono la loro posizione perché, a volte, ne hanno la competenza ma soprattutto e più spesso, perché – nonostante gli statuti prevedano sempre formalmente la loro elezione – hanno conoscenze (il potere, i donatori).

I responsabili intervistati – quantomeno la maggior parte di loro – invocano come circostanze attenuanti le reali difficoltà con cui hanno dovuto confrontarsi: la difficoltà di trovare quadri nazionali competenti, e ancora di più da reclutarli, assistenza ‘tecnica’ straniera spesso deludente, (competenze discutibili sostenute solo dalla loro arroganza e dai vantaggi materiali di cui dispongono), volontariato inesistente (le condizioni di vita troppo difficili non lo permettono). È tutto vero: ma lo si può applicare tanto ai servizi pubblici quanto alle Ong. Dunque, signori, siate severi con voi stessi quanto lo siete con lo Stato che mettete sotto processo. Stesse cause, stessi effetti. Le stesse ragioni che nei servizi pubblici sono alla base delle pratiche di nepotismo, quando non della corruzione, sono anche alla base di quegli stessi mali che ritroviamo tali e quali nelle organizzazioni della società cosiddetta civile.

h. Su questo argomento, Libano e Palestina meritano un trattamento particolare.

La società civile libanese è, ed è sempre stata, più attiva rispetto agli altri paesi arabi. Il motivo risiede semplicemente nel fatto che il paese è amministrato da un sistema decisamente meno dispotico che altrove, per ragioni, storiche e non, che qui non possiamo analizzare in dettaglio.

Nel complesso delle organizzazioni formali e informali della vita politica e sociale di questo paese, si possono distinguere due sottoinsiemi ben riconoscibili. Una consistente maggioranza di quei servizi sociali che non rientrano in quelli garantiti dallo Stato (che sono estremamente poveri) o in quelli offerti dal privato commerciale (che sono relativamente più importanti che altrove) vengono forniti da organizzazioni confessionali (maronite, sciite, sunnite, ortodosse, druse ecc.). In compenso però, la vita politica, nel senso ampio della parola, quella cioè che muove i partiti politici, i sindacati e le associazioni professionali, le associazioni per la difesa della democrazia (diritti umani), le organizzazioni femminili e i gruppi formali e informali del mondo artistico e letterario, è assai lontana dall’essere monopolizzata dalle forze che dominano ciascun gruppo confessionale. Ciò non è sempre vero; esistono comunque anche alcuni partiti e alcune organizzazioni chiaramente e apertamente legati (anche nei loro programmi) al diversificato panorama confessionale. Ma a sinistra esistono forze reali che superano le barriere confessionali e, in più, sono mosse da una profonda consapevolezza di questa esigenza. Un esempio, che io sappia senza eguali nel resto del mondo arabo, è l’esistenza di un fronte organizzato comune dei movimenti democratici. Quali che siano i limiti e gli handicap del suo potere e della sua influenza tra il popolo libanese, questo esempio è comunque un potenziale portatore di sviluppi promettenti.

La convergenza transconfessionale necessaria venne minacciata durante la guerra civile (1975-1985). A quel tempo le ‘milizie’ confessionali si erano erette a padrone assolute dei destini dei popoli per la cui difesa so erano formate. Per di più, la congiuntura lasciava che tutte le forze esterne al Libano operanti nella regione potessero intervenire in questo gioco complesso, a beneficio di interessi arabi, israeliani, occidentali. Il disastro fu parzialmente attenuato, però, dall’intervento della società civile, nonostante, per forza di cose, essa si fosse frammentata per la diversità delle confessioni. Vennero costituite comunità di vicinato che in breve tempo si dimostrarono efficaci di fronte alle necessità più urgenti: interruzione della distribuzione di acqua ed elettricità, chiusura delle scuole e dei centri di cura; smantellamento dei circuiti alimentari di base, sistemazione dei rifugiati. Il successo di queste azioni merita una riflessione, tanto più che questa nuova vita collettiva seppe distinguersi dalle milizie confessionali, preparando così la riconciliazione e la ricostruzione.

Senza questa democrazia libanese, non capiremmo neanche come abbia potuto organizzarsi la resistenza all’invasore israeliano nel sud del Libano. Che Hezbollah ne sia stato il motore, dando il cambio ad altri soggetti che erano stati eliminati dai calcoli di potere di Damasco (la sinistra libanese), non cambia le cose. Come non le cambia il fatto che Hezbollah abbia goduto di sostegno esterno – siriano e iraniano. Tutti i movimenti di liberazione sono stati accusati dagli imperialisti di essere ‘agenti’ delle potenze straniere. Tutti, in realtà, hanno beneficiato del sostegno esterno, di cui del resto è il caso di rallegrarsi. Nessuno, però, ce l’avrebbe fatta senza l’aiuto vero del suo popolo. La resistenza nel Sud del Libano e l’ampio sostegno ottenuto in tutto il paese hanno dimostrato ai popoli arabi che la strategia del fermo rifiuto di accettare ‘il fatto compiuto’ e di partecipare ai ‘negoziati’ in posizione svantaggiata costituiva l’unica scelta efficace. Certo, in questo caso si tratta di una lotta di liberazione nazionale, ma per questa ragione non c’è motivo di escluderla dal quadro delle lotte in corso nel mondo arabo contemporaneo.

Le lotte portate avanti dal popolo palestinese – la prima intifada (1987-1991) e poi la seconda (iniziata dal 1998) – costituiscono chiaramente il quadro di analisi di tutte le lotte politiche e sociali in corso in Palestina. Il ruolo della società civile palestinese nell’organizzazione della sopravvivenza e dei suoi rapporti con l’Anp (Autorità nazionale palestinese) è definito dai caratteri della seconda intifada (cfr. il saggio di Perry Anderson nel numero 21 della rivista del manifesto e l’edizione integrale di questo scritto di prossima pubblicazione nel sito www. larivistadelmanifesto.it).


8.
Il bilancio dell’azione della società civile araba che qui proponiamo, riflette in larga parte le conclusioni delle discussioni svolte dalle reti del Forum du Tiers monde e dei suoi partner, nonché la lettura di altri lavori sull’argomento.

a. La società civile araba è, come altrove, il riflesso di ciò che sono lo Stato e la società politica nell’area. Contrapporre lo Stato e i partiti politici – decretati ‘cattivi’– alla società cosiddetta civile – che si suppone dotata di tutte le qualità che le attribuisce il pensiero dominante – è nel migliore dei casi un’ingenuità.

Nel complesso, le azioni della società civile non si sono rivelate né più efficaci né meglio gestite di quelle offerte dai servizi pubblici. Esaminandoli caso per caso, si scopre che la maggior parte dei ‘progetti’ concepiti qua e là dagli uffici ispirati dai ‘finanziatori’ (la Banca mondiale in particolare) sono elaborati male, inadatti alle condizioni locali e non rispondono a problemi reali. I fallimenti non si contano più. Il paragone tra questi progetti e l’azione dei servizi dello Stato – a dispetto di tutto quello che in proposito si è potuto scrivere e dire di critico – risulta piuttosto favorevole a quest’ultimo.

I risultati di questi progetti sono mediocri anche se si assumono gli stessi criteri di riferimento che ispirano la maggioranza di queste azioni. La povertà avanza. La parte di popolazione beneficiaria delle politiche messe in atto rimane minoritaria. E per quanto riguarda il loro ‘empowerment’, esso esiste solo nelle menti di coloro che ne parlano.

Queste attività dunque, non sono nel loro insieme in alcun modo ‘più efficaci’ di quelle dello Stato, e neanche meno costose. Inoltre, non sono né trasparenti, né più ‘responsabilizzate’ (accountability). Anzi, lo sono meno di quelle del settore pubblico. Infine, non sono gestite né meglio, né più democraticamente. Non v’è dubbio che la critica di smodata ‘burocrazia’ rivolta allo Stato ha un fondamento. Dovrebbe però far sorridere conoscendo la burocrazia della Banca mondiale o dello Undp, con le loro tonnellate di formulari mal fatti, ideati da burocrati la cui arroganza è pari alla loro mediocre competenza.

b. Questa situazione si spiega con il fatto che le strategie fondamentali su cui si basano queste azioni – che sono le stesse dello Stato – sono in definitiva le strategie del capitale che domina su scala mondiale e locale, e non vengono in nessun modo in risposta ai problemi dei popoli.

Queste strategie perseguono obiettivi ben precisi.

Innanzitutto allargare la sfera dei rapporti commerciali per fornire al capitale più occasioni di ‘profitto’. La privatizzazione dell’educazione e della sanità risponde a questo scopo. Non diversa è la natura di quei progetti di ‘modernizzazione dell’informale’ che mirano ad accentuare la sua sottomissione articolata al settore ‘moderno’, per dare la possibilità a quest’ultimo di estrarre maggior plusvalore dal prodotto del lavoro che si presta nell’informale. Si tratta, in questo caso, dell’esatto contrario di quel che dovrebbe essere il rafforzamento di un’economia popolare. Perché esso dovrebbe prevedere preliminarmente il rafforzamento del potere contrattuale dei lavoratori in questione, e non cero il suo indebolimento con il pretesto della ‘deregulation’ in generale, e di quella del mercato del lavoro in particolare.

Queste strategie si propongono, inoltre, di indebolire la società – in questo caso quella araba – riducendone così la capacità di negoziare i termini del suo inserimento nella globalità. Il mezzo più sicuro per farlo è indebolire la legittimità dello Stato. Se è vero che gli Stati autocratici tendono (almeno all’inizio) a essere ipercentralistici, e quindi avrebbero bisogno di decentramento, tuttavia essi non possono dare i buoni risultati che ci si aspetta da loro se questo decentramento non si situa nella prospettiva del rafforzamento dello Stato (decentralizzato) e non del suo indebolimento.

Infine si mira a dare ‘all’esterno’ – ovvero all’imperialismo – le possibilità di penetrare più a fondo nella società locale. Il finanziamento esterno (che promette sempre più di quanto veramente non dia) trova qui il suo spazio, facendo sì che gli agenti della società civile si trasformino in corrieri per la trasmissione diretta delle strategie del capitale dominante, saltando il passaggio obbligato per lo Stato. Mentre lo Stato democratico può essere un luogo di accumulazione di conoscenze e di esperienze, il puro e semplice trasferimento delle responsabilità alla società cosiddetta civile senza uno Stato, demolisce la costruzione di capacità locali durature. Ed è probabilmente questo che si cerca di ottenere.

c. Quel che abbiamo appena detto riguarda soltanto l’insieme delle attività della società cosiddetta civile (e dello Stato) fondate sul (falso) principio cosiddetto consensuale, che si iscrive nella logica del liberismo dominante.

Al contrario, le lotte politiche e sociali condotte con, contro o nei partiti, sindacati, associazioni professionali, organizzazioni di lotta per la democrazia, per i diritti dell’uomo, dei lavoratori, delle donne, aprono le prospettive di un’alternativa possibile. Questo lato creativo della società politica e civile impegnata nella lotta per la trasformazione dei rapporti sociali di forza, costituisce la base su cui può essere costruito un futuro diverso, più equo, che dia più libertà agli individui, ai popoli e alle nazioni.

La congiuntura attuale, secondo un’opinione largamente condivisa, è caratterizzata dalla polverizzazione delle lotte politiche e sociali. Il vuoto ideologico prodotto dall’erosione e poi dal crollo dei progetti di partecipazione sociale del nazionalismo populista e dei socialismi ancora esistenti, toglie a queste lotte – nello stato attuale del loro sviluppo – la prospettiva di porsi come alternativa credibile. Del resto, il pensiero dominante le spinge a rinunciarvi del tutto e ad accontentarsi di ‘occuparsi del quotidiano’. Il pensiero postmoderno dà di questa ideologia della capitolazione una versione ‘dotta’, mentre quello del ‘buon governo’ (good governance), che ne è la versione volgare ‘in stile Banca Mondiale’, mischia proposte inconsistenti e moralizzanti a proposito di pezzi parziali di problemi che riguardano la gestione amministrativa (denunciare l’irresponsabilità, il nepotismo, la corruzione… niente di più facile!) all’analisi del problema del potere reale nello Stato e nella società (la natura sociale dello stato autocratico).

L’alternativa può essere costruita solo partendo dalle lotte concrete, la riflessione teorica non può sostituire l’assenza di discussione alla base. Sono indispensabili entrambe, ma acquistano efficacia solo insieme. ‘Ricomporre le lotte sociali (di classe)’ – che è l’obiettivo di questa dialettica – vuol dire riunire sulla base degli autentici interessi comuni scelti dai gruppi coinvolti, definire obiettivi graduali che permettano progressi e miglioramenti delle condizioni materiali e morali di questi gruppi e portare avanti la lotta con questa prospettiva. Cammin facendo, le lotte condotte in questo modo riusciranno a diffondere i comportamenti democratici necessari e daranno luogo a nuovi e autentici movimenti popolari.

Nel mondo rurale, la visione strategica che qui viene suggerita parte dalla presa di coscienza degli effetti distruttivi che avrà, su tutta la società, la liberalizzazione dell’agricoltura messa all’ordine del giorno nel prossimo ‘Round’ del Wto (Organizzazione mondiale del commericio), la cui riunione è prevista a Doha nel Qatar (novembre 2001). La difesa del reddito dei contadini non interessa soltanto le classi rurali, perché essa soltanto può impedire il massiccio trasferimento della povertà delle campagne nelle città, i bassi salari e la sottomissione a una divisione internazionale del lavoro che riprodurrebbe e aggraverebbe la polarizzazione mondiale. Nella regione araba, in cui l’agricoltura esige il controllo dell’irrigazione, la ripartizione su scala nazionale dei suoi costi (si tratta quindi di macro-economia e macro-politica statale) è ineludibile. Qualsiasi ‘progetto rurale di sviluppo’ che ignorasse la dimensione macro-economica nazionale della gestione dell’acqua non ha la minima possibilità di progredire nella direzione necessaria.

Nelle città, questa visione strategica implica il dare la priorità alla costruzione di un fronte che metta insieme i lavoratori dei settori moderni, più o meno organizzati o organizzabili, e quelli dell’informale. La nuova questione operaia non può essere definita in altro modo, considerando l’obiettiva e gigantesca trasformazione delle strutture del mondo del lavoro prodotta negli ultimi decenni dall’espansione del capitalismo polarizzatore.

La rivendicazione democratica, in ogni suo aspetto, è al centro di qualsiasi strategia di trasformazione dei rapporti sociali di forza. Cancellarne la valenza politica, i diritti del cittadino, con il pretesto che sia prioritaria la soddisfazione dei bisogni materiali, vuol dire rimanere prigionieri dell’ideologia populista e dello Stato autocratico, infine autocondannarsi all’impotenza. È invece associando la battaglia democratica alla lotta sociale, che si può dare a queste due componenti di rinnovamento della vita sociale la loro autentica potenza creatrice.

L’emancipazione femminile non è più un ‘lusso’ superfluo. Essa, al contrario, si trova al centro della trasformazione culturale e politica senza cui non è possibile nessun cambiamento economico e sociale. Come Qassem Amin diceva più di un secolo fa, "il progresso della società egiziana passa per la liberazione della donna".

Le lotte politiche e sociali in atto nel mondo arabo, hanno già dato inizio a cambiamenti positivi nell’equilibrio (in realtà, nello squilibrio) dei rapporti tra potere e società. Il potere si trova ormai sulla difensiva in campi sempre più numerosi. L’esempio più tangibile è l’Algeria.

Per perpetuare il proprio dominio sulla società, il potere cerca di nascondere la propria effettiva capitolazione di fronte alla sfida della dittatura ‘liberista’ del capitale dominante, attraverso una retorica vuota, che sia quella del ‘nazionalismo’ (puramente verbale) o quella dell’autenticità dei valori e delle proprie specificità (idea dell’Islam politico). Il cammino verso il consolidamento di un'alternativa efficace esige la critica di queste idee.


VI. Geostrategia, unità araba e Intifada palestinesi.


Nella geopolitica mondiale e nella geostrategia militare egemonica degli Stati Uniti, il Medio Oriente ha sempre occupato, e continua a occupare, una posizione particolare a causa della sua straordinaria ricchezza petrolifera, vitale per l’economia della triade dominante (Stati Uniti, Europa, Giappone). Per di più, all’epoca della guerra fredda, la sua importanza veniva esaltata dalla collocazione geografica sul versante sud dell’Urss. Dopo il crollo del regime sovietico, questo posto è stato preso dal Caucaso e dall’Asia centrale ex sovietica, regioni ricchissime di petrolio costituite in maggioranza da paesi musulmani, in cui le diplomazie di Washington e Mosca continuano ad affrontarsi.

Il Medio Oriente costituiva, e costituisce ancora, una zona di primaria importanza (come i Caraibi) nella suddivisione geomilitare americana che ricopre l’intero pianeta, il che significa che è una zona per la quale gli Stati Uniti si sono arrogati il ‘diritto’ di intervento militare. Come hanno fatto del resto durante la Guerra del Golfo (1990), approfittandone poi per mettere sotto un protettorato militare permanente i paesi interessati.

In Medio Oriente, gli Stati Uniti agiscono in stretta collaborazione con i loro due fedeli e incondizionati alleati: Turchia e Israele. L’Europa si è tenuta lontana dalla regione lasciando che siano gli Stati Uniti da soli a difendere i vitali e globali interessi della triade, cioè i rifornimenti di petrolio. Nonostante alcuni segni di irritazione, in Medio Oriente gli europei continuano a navigare nella scia di Washington.

Il populismo nazionale arabo non accettava questo stato di cose e ambiva a imporre alle potenze il riconoscimento dell’indipendenza del mondo arabo. Era questo il senso del ‘non-allineamento’ sostenuto dai sovietici. Finita quell’epoca, il mondo arabo si ritrova senza una visione propria di quale sia il suo posto nel nuovo sistema mondiale. Questo è il motivo per cui i ‘progetti’ che riguardano l’organizzazione della regione vengono fatti altrove.

Gli Stati Uniti avevano preso di nuovo l’iniziativa avanzando l’idea di uno strano ‘mercato comune medio orientale’ in cui i paesi del Golfo avrebbero fornito i capitali, gli altri paesi arabi la manodopera a basso costo, mentre Israele si sarebbe occupata del controllo tecnologico e delle funzioni di intermediario obbligato. L’Europa, allora, ha tentato di reagire, proponendo a sua volta l’idea di una ‘partnership euro-mediterranea’, che comprendeva sempre Israele, ma escludeva i paesi del Golfo, riconoscendo in tal modo che la loro ‘gestione’ dipendesse esclusivamente da Washington. Questi aspetti di geopolitica non possono essere ignorati dalla discussione sulle lotte politiche e sociali.

L’espansionismo coloniale di Israele è una sfida reale e non il frutto della fantasia araba. Israele è l’unico paese al mondo che rifiuta il riconoscimento definitivo delle proprie frontiere (e a questo titolo non avrebbe diritto di far parte dell’Onu). Come gli Stati Uniti nel XIX secolo, Israele pensa di avere il ‘diritto’ di conquistare nuovi spazi per espandere la propria colonizzazione, trattando i popoli che vi abitano da mille e più anni, come Pellerossa da scacciare o sterminare. Israele è l’unico paese a dichiarare apertamente di non sentirsi obbligato dalle risoluzioni dell’Onu.

La guerra del 1967, pianificata d’accordo con Washington dal 1965, aveva diversi obiettivi: innescare il crollo dei regimi nazionalisti populisti, rompere la loro alleanza con l’Unione Sovietica, costringerli a ricollocarsi nella scia americana e aprire nuove terre alla colonizzazione sionista. Nei territori conquistati nel 1967, Israele metteva dunque in atto un sistema di apartheid ispirato a quello Sudafricano. All’accusa di razzismo, il sionismo, come sappiamo, risponde con il sistematico ricatto dell’antisemitismo e dello sfruttamento della ‘industria dell’Olocausto’. Israele quindi, per perseguire il suo progetto ha bisogno che il mondo arabo rimanga su tutti i piani il più debole possibile.

Ed è qui che gli interessi del capitale dominante a livello mondiale si allacciano a quelli del sionismo. Perché la logica del progetto del capitalismo reale ha sempre prodotto, e continua a produrre, la polarizzazione su scala mondiale. Lo sviluppo di una regione qualsiasi del Terzo mondo – in questo caso la regione araba – entra in conflitto con l’espansione mondiale del capitalismo reale. D’altronde, un mondo arabo ricco, moderno e potente rimetterebbe in questione il saccheggio da parte dei paesi occidentali delle sue risorse petrolifere, necessario all’indefinito proseguimento dello spreco tipico dell’accumulazione capitalista. Nei paesi della triade, i poteri politici, così come sono – ovvero servi fedeli del capitale transnazionale dominante – non vogliono un mondo arabo moderno e potente.

L’alleanza tra le potenze occidentali e Israele è dunque fondata sulla solida base dei loro interessi comuni. Questa alleanza non è né il risultato del senso di colpa degli europei, responsabili dell’antisemitismo e del crimine nazista, né il risultato dell’abilità della ‘lobby ebraica’ di sfruttarlo. Se le potenze occidentali pensassero che i propri interessi sono danneggiati dall’espansionismo coloniale sionista, troverebbero immediatamente i mezzi per ovviare al loro ‘complesso di colpa’ e per neutralizzare la ‘lobby ebraica’. Poiché non sono tra coloro che credono ingenuamente che l’opinione pubblica dei paesi democratici così come sono attualmente riesca a imporre i suoi punti di vista al potere. Sappiamo che anche l’opinione pubblica si può manipolare. Israele non potrebbe resistere più di qualche giorno all’imposizione di un (anche moderato) embargo come quello inflitto alla Jugoslavia, all’Iraq o a Cuba dalle potenze occidentali. Quindi, se solo si volesse, non sarebbe difficile rimettere Israele al suo posto, creando le condizioni per una pace vera. Ma non è questo che si vuole.

L’opinione pubblica araba non è in grado di capire la natura del rapporto di complementarità tra il progetto sionista e quello dell’espansione generale del capitalismo, che sta a fondamento della loro convergenza. L’opinione pubblica araba è in questo caso vittima dei limiti del pensiero nazionalista populista che essa non è stata ancora capace di criticare alla base, né, tanto meno, di superare.

In seguito alla sconfitta del 1967, Sadat dichiarava che, avendo gli Stati Uniti il "90% delle carte" (fu proprio questa la sua espressione) bisognava rompere con l’Urss e integrarsi nel campo occidentale, e che, in tal modo, Washington avrebbe fatto una sufficiente pressione perché Israele tornasse alla ragione. Al di là di questa ‘idea strategica’ propria di Sadat – di cui il seguito degli avvenimenti ha provato l’inconsistenza – l’opinione pubblica araba rimane largamente incapace di capire la dinamica dell’espansione capitalistica mondiale, e ancor più di identificarne le vere contraddizioni e debolezze. Non sentiamo forse dire e ripetere che "gli occidentali alla lunga capiranno che è nel loro stesso interesse intrattenere buone relazioni con i duecento milioni di arabi – loro immediati vicini – e non sacrificarle in nome del loro sostegno incondizionato a Israele"? Questo implicitamente significa pensare che gli occidentali (cioè il capitale dominante) desiderino un mondo arabo moderno e sviluppato, e non capire che invece essi vogliono mantenerli nell’impotenza, e che per questo il sostegno a Israele è loro indispensabile.

La scelta che ha portato i governi arabi – eccetto Siria e Libano – a sottoscrivere attraverso i negoziati di Madrid e Oslo (1993) un piano americano per una ‘pretesa’ pace definitiva, non poteva dare risultati diversi da quelli che ha dato: incoraggiare Israele a spingere avanti le pedine del suo progetto di espansionismo. Oggi, rifiutando apertamente i termini del ‘contratto di Oslo’, Ariel Sharon dimostra soltanto ciò che si sarebbe dovuto capire prima e cioè che non si trattava di un progetto di ‘pace definitiva’ ma dell’apertura di una nuova fase dell’espansione coloniale sionista.

Lo stato permanente di guerra che Israele impone alla regione insieme alle potenze occidentali che sostengono il suo progetto, costituisce a sua volta il valido motivo per cui i sistemi autocratici arabi continuano a reggersi in piedi. Questo blocco di una possibile evoluzione democratica indebolisce le possibilità di una rinascita araba e fa il gioco dell’espansione del capitale dominante e della strategia egemonica degli Stati Uniti. Il cerchio si chiude: l’alleanza israelo-americana si presta perfettamente agli interessi dei due partner.

La lotta per la democrazia e il progresso sociale nel mondo arabo non passa per l’approvazione di pretesi, ma in realtà inesistenti, piani di pace. La condotta efficace di questa lotta esige invece la critica di questi progetti e il disvelamento dei loro veri obiettivi. Mi sembrava necessario riprendere il filo dei ragionamenti che mi hanno portato a questa conclusione, secondo me, fondamentale.

I ragionamenti in termini di geostrategia che ho fin qui svolto hanno i loro limiti. Essi, infatti, inquadrano solo i protagonisti che occupano le prime file: le forze dominanti, cioè il capitale transnazionale, e i poteri al suo servizio. Quando diciamo ‘le potenze occidentali, gli interessi occidentali’ vogliamo dire ‘gli interessi del capitale dominante’. Quest’ultimo però non costituisce la totalità della realtà sociale. Esistono anche le sue vittime – i popoli, tutti i popoli. Una strategia di lotta efficace contro questa logica ‘geopolitica’ implica l’acutizzazione delle contraddizioni tra gli interessi delle vittime e gli interessi delle forze che dominano i poteri. È una strategia che non risulta più facile né in Occidente – dove la democrazia le permetterebbe un rapido svolgimento – né in Oriente – dove la violenza degli effetti distruttivi dell’espansione capitalista è più palese. Anche se per ragioni specifiche diverse, questa operazione è difficile in entrambi i casi. Ma intraprendere questo cammino è l’unica scelta. Perché, alla conclusione del dispiegamento del progetto capitalista liberista globale c’è l’apartheid su scala mondiale e, su quella locale, l’apartheid imposto dal sionismo ai palestinesi. Costituire su scala mondiale un fronte a sostegno del popolo palestinese in lotta contro l’apartheid non è solo un dovere morale, ma anche un aspetto importante di una strategia di lotta efficace contro la dittatura del capitale, e anche un contributo reale alla lotta dei popoli arabi per la democrazia e il progresso sociale.


2.
Il panarabismo è una realtà e un fenomeno positivo. Se, di fronte alle distruzioni culturali e non della globalizzazione, la francofonia, la lusofonia, il senso della famiglia latino-americana costituiscono legittimi fronti di resistenza (e secondo me è così), perché disprezzare il panafricanismo o il panarabismo? Perché il legame fraterno tra i popoli che occupano uno spazio continuo che va dall’Atlantico al Golfo, e condividono la stessa lingua (nonostante le varianti dei dialetti locali), dovrebbe essere priva di valore e interesse?

Da qui a dire che non esiste altro che ‘una nazione araba’ smembrata contro la sua volontà, c’è un passo che bisogna stare attenti a non compiere. Il problema nazionale arabo infatti, è infinitamente più complicato di quanto non possa immaginare l’ideologia del ‘nazionalismo arabo’ (qawmi, in opposizione a qutri, relativo allo spazio definito dalle frontiere degli Stati arabi). La realtà nazionale dei popoli arabi si manifesta come i piani sovrapposti di una piramide. La dimensione panaraba (qawmi) è reale come lo sono le dimensioni ‘locali’ (qutri). Se è vero, infatti, che la divisione della Siria storica (gli attuali territori di Siria, Libano, Palestina e Giordania) è recente (1919), artificiale e realmente il risultato di una spartizione imperialista, come quella della Mezzaluna Fertile (Siria storica e Iraq), sostenere che l’Egitto, il Marocco e lo Yemen siano costruzioni artificiali e recenti è ridicolo. Antica o moderna, la ‘piccola nazione’ (qutri) si fonda su interessi e percezioni reali della propria specificità.

I movimenti di liberazione nazionale e i nazionalismi populisti che essi hanno prodotto, sono partiti da queste realtà locali necessariamente nell’ambito degli Stati così come sono. Le strategie di sviluppo che essi hanno voluto costruire su fondamenta autocentrate, guardando alla modernizzazione della loro società, alla loro trasformazione progressista e all’affermazione della loro autonomia nei confronti dell’imperialismo, non potevano che essere come furono: concepite e messe in atto nell’ambito degli Stati (qutri).

La dimensione panaraba avrebbe potuto chiedere l’attuazione di strategie complementari che mirassero a rafforzare la costruzione autocentrata di ogni partner, non a sostituirvisi. Così non è stato perché i responsabili dei nazionalismi populisti non furono capaci di concepire questa complementarità in maniera efficace, in quanto la loro percezione dell’autentica natura della sfida del capitalismo moderno era, quanto meno, insufficiente. Ecco perché tutto quel che i ‘tecnocrati’ al loro servizio potevano concepire erano solo dei ‘mercati comuni’, cioè una formula capitalistica perfettamente inadeguata.

Sul piano politico, proprio i limiti del populismo e dello Stato autocratico sono alla base dei fallimenti. Il Baath che si pone come ideologo dell’arabità (ourouba) non è stato in grado di andare al di là della ripetizione suggestiva, e delle analogie con l’esperienza dell’unità tedesca e di quella italiana portate fino a una forma caricaturale, senza la minima coscienza del fatto che le condizioni alla periferia del sistema nel XX secolo non sono le stesse dell’Europa nel XIX!

Per un momento, il panarabismo ufficiale dei governi populisti è stato scavalcato a sinistra dal movimento dei qawmiyin, un raggruppamento di giovani rivoluzionari impregnati di marxismo, maoismo e guevarismo, che fu all’origine della costituzione dei partiti radicali della Palestina (Fronte democratico di Naief Hawatmeh e Fronte Popolare di George Habash), della rivoluzione popolare nello Yemen del Sud e della guerra del Dhofar 20. Meglio di molte analisi quasi sempre troppo teorico-ideologiche (ossessionate dalla ricerca degli errori e delle ‘deviazioni’), il romanzo di Sanallah Ibrahim (Warda), ripercorre le tappe della morte lenta di questo movimento, la sua profonda aspirazione alla liberazione sociale, collettiva e personale (delle donne in particolare) e dell’illusione che il kalashnikov – popolare fino all’estremo in quel momento della storia araba moderna – potesse diventare un efficace rimedio all’inerzia delle classi popolari. Questo fuochismo’ 21 arabo si è spento come quello dell’America Latina.

Il panarabismo ha dato luogo a diverse organizzazioni che operano in tutto il mondo arabo.

Per ognuna delle professioni che riguardano in particolare le classi medie, esistono organizzazioni di questo genere, a volte attive ("Arab Lawyers", "Arab Engineers", "Arab Doctors", "Arab Writers" ecc.), ed esiste anche, almeno sulla carta, una centrale sindacale panaraba ("Arab Workers Union"). L’intensificazione dell’immigrazione intra-araba, negli anni settanta e ottanta (verso i paesi petroliferi) ha sicuramente contribuito a divulgare la mutua conoscenza dei popoli arabi. Questa però è avvenuta in un’atmosfera generale di spoliticizzazione e in uno scenario dominato dalle pratiche super-reazionarie dei paesi del Golfo. I suoi effetti sono molto dubbi, come quelli determinati dal flusso di capitali in senso inverso, che ha, in buona sostanza, aiutato gli affaristi del movimento islamico ad arricchirsi.

Il panarabismo autocratico è morto. Per convincersene, basta aver partecipato (come è capitato all’autore di questo scritto) a una delle sue ‘cerimonie’ (funebri) che riuniscono ogni anno la schiera dei suoi ‘dirigenti storici’ (uomini in giacca e cravatta la cui età media supera ormai i sessant’anni; non ce n’è uno più giovane né c’è una donna), nostalgici nient’altro che dell’epoca populista. Il suo tentativo di avvicinamento al movimento islamico non avrà sicuramente il dono di riportarlo in vita; al contrario contribuisce alla sua diluizione in una nuova e vuota illusione: la Nazione Islamica (al Umma al islamiya).

È un capitolo di storia chiuso. Il mondo arabo non ha più un proprio progetto, né per quanto riguarda i singoli Stati, né in senso panarabo. Ecco la ragione per cui i progetti che vengono ideati all’estero (negli Stati Uniti e in Europa) sembrano imporre i propri programmi.

Questo non significa affatto che l’oggettivo bisogno di un’alternativa complessa, sia a livello nazionale che panarabo, sia scomparsa. Non significa nemmeno che la dimensione panaraba sia scomparsa dalla coscienza dei popoli. Lo testimonia la varietà di iniziative a sostegno delle intifada palestinesi (i Ligan did al Tatbi: comitati di opposizione alla normalizzazione delle relazioni con Israele). Questa solidarietà però non costituisce, da sola, un’alternativa all’assenza di una visione di insieme del ruolo degli arabi nel mondo di oggi.

 

1 Shariah, il Codice di leggi coraniche (NdR).

2 Baath, in arabo ‘rinascita’, nome corrente del Partito della rinascita socialista araba, sorto nel 1953 con un programma laico di modernizzazione e di unificazione dei popoli arabi (NdR).

3 Wafd, il partito nazionalista fondato nel 1917 con il programma dell’indipendenza dell’Egitto dal dominio coloniale inglese (NdR).

4 Vilaya al-faqih, il principio che attribuisce ai religiosi una vasta serie di poteri statuali, giuridici e giurisdizionali (NdR).

5 Con il termine di ‘triade’ si intende i tre protagonisti fondamentali dell’economia mondiale: Usa/Canada, Giappone, Unione europea (NdR).

6 Mehmet (o Muhamad o Mohamed) Ali (1769-1849), fondatore dello Stato egiziano, autore di numerose riforme laiche e modernizzatrici nell’ordinamento giuridico, nell’istruzione, nella economia (NdR).

7 Tanzimat (plurale dell’arabo tanzim: rigenerazione), nome attribuito al periodo storico (1839-1876) dell’impero ottomano caratterizzato da una serie di riforme modenizzatrici e occidentaleggianti degli apparati statuali, degli ordinamenti giuridici e amministrativi (NdR).

8 Al Azhar, al-Djami al-Azhar, "la moschea splendida", università fondata al Cairo nel 973, la più antica e prestigiosa istituzione religiosa e culturale del mondo arabo e musulmano. Da sempre riservata agli studi teologici e scritturali, dal 1961 affianca l’insegnamento di discipline secolari (NdR).

9 Inappellabile decreto dell’autorità religiosa (NdR).

10 "Fratelli musulmani", movimento islamista, fondato a Ismailia (Egitto) nel 1928, di forte caratterizzazione popolare. Antioccidentale, anticapitalista, antisocialista, proclamava l’obiettivo della fondazione di uno Stato islamico. Adottò metodi terroristici e si rese responsabile di attentati a Nasser e dell’assassinio del suo successore, il presidente egiziano Anwar el Sadat (NdR).

11 "Ufficiali liberi", organizzazione segreta fondata da Nasser nell’ambito dell’esercito, che depose nel 1952 con un colpo di Stato re Faruk, dando vita alla repubblica.

12 UsAid (United States Agency for International Development) organizzazione governativa statunitense che, accanto e sotto la copertura di interventi per lo sviluppo, svolge intensa attività diplomatica, propagandistica e politica a tutela degli interessi americani.

13 Tagammu, partito nazionalista progressista, fondato nel 1976 con il motto "Libertà, socialismo, unità".

14 "Al Ahram", periodico fondato al Cairo nel 1876, uno dei più antichi del mondo arabo. Attualmente è un imponente complesso mediatico e culturale che unisce al quotidiano, un settimanale, varie edizioni on-line in lingue europee, una fondazione, un centro di ricerca.

15 Yasmina Khadra, pseudonimo di Mohammed Mulessul, ufficiale superiore dello Stato maggiore dell’esercito algerino, autore di numerosi romanzi di successo ambientati nell’Algeria della recente guerra civile. Tradotti in italiano: Cosa sognano i lupi, Feltrinelli 2001; Doppio bianco, E/O editore, 1998.

16 Area del Medio Oriente comprendente Egitto, Siria, Iraq.

17 Cfr. S. Amin, Marx et la démocratie.

18 Istituzioni sociali originate da lasciti religiosi, assai diffuse nel mondo musulmano prima della fondazione degli Stati arabi moderni.

19 Qassem Amin, (1863-1908) uno dei pionieri del movimento nazionalista egiziano, noto per le sue idee riformatrici, in particolare sull’emancipazione femminile (scrisse nel 1899 L’emancipazione delle donne).

20 Dhofar, regione meridionale del Sultanato di Oman: nel 1965 vi si svolse l’insurrezione armata contro il regime dittatoriale del sultano Sai bin Taimur.

21 Fuochismo, teoria rivoluzionaria basata sulla diffusione dei ‘fuochi’ di insurrezione armata elaborata nell’ambito del guevarismo.


Da "La rivista del Manifesto"  n. 22 di novembre 2001