le dinamiche del disordine mondiale
Lo smarrimento degli islamisti moderati


WENDY KRISTIANASEN
L'Occidente si mostra preoccupato per lo «scontro di civiltà». Eppure ciò che designa con il termine «fondamentalismo islamico» è tutt'altro che omogeneo. Nell'area musulmana, le credenze religiose si fondono con una aspirazione al cambiamento politico e sociale per dare vita a movimenti molto diversi, che rimandano spesso a correnti riformiste nate tra il XIX e il XX secolo. La corrente salafista - in riferimento agli «antenati», alla prima generazione di discepoli di Maometto - invoca un ritorno alle origini. I salafisti, oggi molto influenzati dal wahhabismo saudita, non sono un movimento organizzato. Spesso preoccupati soprattutto di ciò che è «islamicamente autorizzato», e di ciò che non lo è, hanno esteso la loro influenza in particolare tra le giovani generazioni di musulmani in Occidente, che temono di perdere le loro radici e le loro tradizioni. Quanti hanno aderito alle reti di al Qaeda provengono da questa sfera d'influenza salafista nel Medioriente o in Europa. Alla loro guida si ritrovano spesso uomini che hanno combattuto a fianco dei mujhaeddin contro i sovietici in Afghanistan. Sono segnati dalla loro ostilità verso l'Occidente e verso la compiacenza filo-occidentale dei regimi sotto i quali vivono. Legati a questa corrente salafista, i Fratelli musulmani sono nati in Egitto nel 1928 e si sono allargati a tutto il mondo arabo. Ma, spesso in rottura con i gruppi precedenti, hanno dato vita a organizzazioni che si schierano dalla parte della legalità e che si sono «nazionalizzate», vale a dire integrate nel gioco politico nazionale, dove fanno spesso prevalere gli interessi locali su ogni prospettiva «panislamica».
Come si è visto con la rivoluzione iraniana, il progetto islamista riguarda anzitutto il potere politico. Per pervenirvi, gli islamisti di vari paesi (Algeria, Tunisia, Marocco, Egitto, Giordania, Libano, Suddan, Kuwait, Turchia) si sono impegnati nella vita politica del proprio paese, con esiti diversi a seconda delle situazioni. Essi hanno approfittato del fallimento del nazionalismo arabo dopo la guerra arabo-israeliana del giugno 1967, della rivoluzione iraniana e del crollo del socialismo, ma ne hanno recuperato molti temi, al punto che si può parlare di un «islamo-nazionalismo». Il passaggio a metodi legali e a obiettivi riformisti è avviato da decenni. Alcuni, come il partito Al-Wasat (il Centro), uscito dai Fratelli musulmani egiziani, hanno persino iniziato a rimettere in questione le interpretazioni tradizionali dell'islam e addirittura del diritto islamico (fiqh). È questa evoluzione dei moderati che si è inceppata per gli eventi dell'11 settembre. «La maggior parte degli islamisti non era d'accordo con gli attacchi contro New York e Washington», afferma Leith Shbeilat, islamista giordano indipendente, ex deputato, molto noto nel proprio paese.
«Ma la reazione degli Stati uniti ha radicalizzato la piazza. È stato l'Occidente a ridurre al silenzio moderati come noi». Per la gente comune nel mondo arabo, grazie al colpo inferto agli Stati uniti, Osama bin Laden è diventato un eroe mitico, un potente simbolo per i musulmani, una specie di Che Guevara. Gli islamisti moderati sono stati colti in contropiede da questo sentimento popolare e radicale che non potevano né osavano seguire. Perciò vengono ora accusati di elitarismo. In Giordania, dove gli islamisti sono considerati da tempo una opposizione democratica che svolge un ruolo importante nel parlamento, l'11 settembre ha avuto conseguenze deleterie. Per Ibrahim Gharaibeh, 42 anni, ricercatore al centro Umma di Amman, «la Confraternita si è venuta a trovare in una posizione insostenibile: i suoi membri erano al 100% contrari agli attentati di settembre, ma dirlo significava alienarsi le simpatie della popolazione... Come ha dichiarato Bush: "O con noi, o contro di noi". Ma i Fratelli non erano con nessuno».
Questo dilemma ha scatenato vivaci dibattiti. Il dottor Abdel Mejid Thuneibat, capo (muraqab al-am) della Confraternita in Giordania, lo ammette senza difficoltà: «Anche se abbiamo dichiarato apertamente che eravamo contro gli attentati, abbiamo sentito le conseguenze delle forti pressioni americane sui paesi musulmani e arabi affinché si liberassero degli islamisti, acuendo il presunto scontro tra le civiltà». Dopo l'11 settembre le pressioni sono più forti. Nei mesi di marzo e aprile scorsi, si sono svolte manifestazioni di protesta contro la politica israeliana, in particolare contro l'attacco a Jenin, alle quali ha partecipato, con l'autorizzazione delle autorità, il Fronte di azione islamico (Fai), braccio politico dei Fratelli musulmani.
Ma quando il governo ha ritirato l'autorizzazione per una marcia sull'ambasciata d'Israele, il 12 aprile, il Fai ha annullato la sua partecipazione, due ore prima della manifestazione. Taher Al-Maari, ex primo ministro, osserva: «Dopo settembre, gli islamisti hanno saputo gestire la situazione molto bene».
Il dottor Abdel Latif Arabiyyat, presidente del consiglio majlis al-shura del Fai, ha moltiplicato gli sforzi per prendere le distanze dagli attacchi dell'11 settembre: «Noi non abbiamo nulla a che vedere con al Qaeda o con i taliban e non approviamo né le loro azioni né quelle degli Stati uniti». Ma quanto queste dichiarazioni «equilibrate» possono soddisfare una opinione pubblica radicalizzata e diventata ferocemente antiamericana di fronte allo spettacolo della repressione a ovest del Giordano, che essa attribuisce alla diretta responsabilità di Washington? Altrove nella regione, l'ultimo atto del dramma palestinese ha permesso agli islamisti di riguadagnare un po' dello spazio che avevano perso.
Attraverso tutto il Medioriente, essi hanno svolto un ruolo di primo piano nell'organizzazione, a fine marzo, delle manifestazioni di solidarietà con i palestinesi. Queste manifestazioni hanno indotto i regimi arabi a una riflessione sulla loro complicità con un Occidente che approva la politica di Ariel Sharon. Ma a dispetto di queste nuove circostanze, gli islamisti hanno dovuto dar prova di prudenza. In Egitto, il movimento ha avuto cura di rimanere all'interno di spazi riconosciuti, soprattutto nei campus universitari, per non provocare il regime. Ha cercato di mantenere la calma, soprattutto dopo gli avvenimenti del 9 aprile scorso ad Alessandria, quando protesta e repressione della polizia sono degenerate, provocando la morte di un uomo. Tanto più che il regime egiziano ha preso a pretesto l'11 settembre per rafforzare le misure di repressione contro i Fratelli musulmani - prima forza di opposizione politica del paese, sebbene fuori legge. Ventidue di essi sono stati arrestati e saranno giudicati per aver partecipato a proteste contro l'aggressione americana in Afghanistan (1). Il dottor Abdel Moneim Abu Al-Futtuh, giovane e dinamico dirigente dichiara: «Gli attentati di settembre hanno fornito ai regime arabi l'occasione per attizzare la paura degli islamisti, che rappresentano la loro principale opposizione. Nel mondo musulmano, tutti hanno sofferto per l'amalgama con gli estremisti». E aggiunge: «Noi noi crediamo più alla violenza». Tuttavia in Palestina la violenza ha un significato ben diverso.
«La stupidità di Bush sta nel chiamare "violenza" ciò che fanno i palestinesi». Per gli arabi e per i musulmani della regione, e non solo per gli islamisti, i palestinesi non fanno altro che difendersi da Israele. Ovunque gli islamisti, e soprattutto le loro attività finanziarie, sono sottoposti a un sorveglianza più stretta, soprattutto nel Kuwait (2). Il governo che, per controbattere l'opposizione progressista laica, corteggiava da tempo gli islamisti (il gruppo più consistente in parlamento) ha chiuso centinaia di botteghe non autorizzate, attraverso le quali transiterebbe denaro clandestino, mentre le attività caritatevoli sono state sottoposte a controlli esasperanti. Le notevoli risorse finanziarie del paese, e il numero relativamente alto di kuwaitiani finiti a Guantanamo - compreso il portavoce di al Qaeda, Souleiman Abu Ghaith - hanno portato a una intensificazione della sorveglianza.
Il segretario al tesoro americano, Paul O'Neill si è recato personalmente nel paese nel gennaio 2002 per chiudere il rubinetto dei fondi destinati ad al Qaeda. Mentre i portavoce di questo movimento evocano la minaccia di nuovi attentati contro l'Occidente, una rivoluziore tranquilla si sta svolgendo in Egitto all'interno della più importante organizzazione radicale islamista, il Gruppo islamico (Al-Gamaa Al-Islamiya). L'attuale capo della Gamaa all'interno del paese, Karam Zouhdi, ha denunciato pubblicamente Osama bin Laden e al Qaeda. In una intervista concessa dal carcere al settimanale Al Moussawwar l'11 giugno 2002, egli spiega: «Noi condanniamo senza indugi gli attacchi dell'11 settembre che nuocciono all'islam e ai musulmani (3)». E aggiunge: «Erano illegali, perché uccidere i commercianti è haram [vietato] e il World Trade Center era pieno di commercianti. Ed è anche peccato, dal punto di vista islamico, ammesso e non concesso che siano musulmani gli autori di questi attentati, uccidere degli innocenti - donne, bambini, anziani - , senza contare che c'erano oltre 600 musulmani in questi palazzi, tutte vittime innocenti».
Zhoudi aggiunge che la Gamma presenterà le sue scuse al popolo egiziano per le sue azioni sbagliate negli anni '90 e prevede persino di risarcire le famiglie che hanno perso un parente nel corso degli attentati.
Il denaro proverrebbe dalle venditi del libro in quattro volumi, Rettifica di riflessioni sbagliate , pubblicato in arabo l'inverno scorso (Maktab al-Turah al-Islami, Il Cairo, 2002). Questo libro espone il nuovo pensiero del movimento passato dal jihad alla da'wa (la predica) nonché il rifiuto di quanto aveva in passato considerato come una dispensa islamica che l'autorizzava a ricorrere alla violenza, a qualificare altri musulmani come apostati (takfir) e agire di conseguenza.
Si tratta della conclusione di un'evoluzione avviata nel 1996, quando i dirigenti in carcere della Gamaa hanno pubblicato la loro prima dichiarazione di pace, dissociandosi dagli attivisti della jihad guidata da Ayman Zawahiri, oggi braccio destro di bin Laden. Questa notevole evoluzione è stata patrocinata da Montasser Zayat, avvocato e portavoce ufficioso della Gamaa. Egli considera la jihad responsabile di aver organizzato con Bin Laden gli attacchi del 7 agosto 1998 contro le ambasciate americane di Nairobi e di Dar es-Salaam, in cui morirono 224 civili. E ritiene che questi attentati erano una «risposta agli appelli a un cessate il fuoco da parte dei nostri dirigenti» (4). In ogni caso questi attentati hanno mostrato che il terrorismo internazionale poteva essere controproducente: la maggior parte dei morti e dei feriti erano africani. Ma la svolta decisiva sarebbe venuta dalla reazione popolare di fronte all'ondata di violenza nello stesso Egitto, scatenata dalla Gamaa, che ha raggiunto il culmine con l'assassinio di cinquantotto turisti stranieri a Luxor nel novembre 1997. Zayat spiega: «Il paese aveva attraversato dieci anni di violenza: troppi morti, era troppo costoso per il paese, in particolare dal punto di vista turistico. Certo, Luxor ha provocato un grande scisma all'interno del gruppo: era una catastrofe. Ed era anti-islamico». Gli avvenimenti dell'11 settembre 2001 aggravano la rottura tra i militanti e gli altri, e danno ancora più senso a questa incredibile trasformazione della Gamaa. Nonostante l'accusino di aver ceduto alla pressione delle autorità egiziane, sembra trattarsi di una svolta strategica. La jihad egiziana, i cui dirigenti sono anch'essi incarcerati, conosce oggi un processo simile, non ancora reso pubblico. Il professor Saededdin Ibrahim, sociologo e militante dei diritti dell'uomo, incarcerato per appropriazione indebita tra altri capi di accusa (in realtà, per aver redatto rapporti sugli scandali parlamentari e sugli scontri tra copti e musulmani nel 1995), conferma che «quest'anno, i militanti della jihad, incarcerati come me a Toura, hanno rinunciato alla violenza».
Il passaggio storico dalla rivoluzione al riformismo consentirà alla Gamaa di riprendere piede nel territorio che occupano da soli i Fratelli musulmani, ma dove si era sviluppato negli anni '70. Sempre di più, gruppi stabili, che godono di un forte appoggio e di importanti effettivi nei rispettivi paesi, tentano di lavorare all'interno del quadro nazionale, in cui la violenza non è più tollerata.



note:

*Giornalista, Londra.

(1) Nel 2001-2002 ci sono stati altri decine di arresti, in tre ondate; ai quali vanno aggiunti un centinaio di Fratelli già incarcerati senza processi.
(2) Si legga «In Kuwait, ascesa e divisioni degli islamisti», Le Monde diplomatique/Il manifesto, giugno 2002.

(3) AP, 25 giugno 2002; si veda anche Mohammed Gamal Arafa, corrispondente al Cairo per Islam Online, www.islamonline.net/English/2002-06/20/article30.shtml
(4) Dopo gli avvenimenti del settembre 2001, Zawahiri e Zayant continuano a lanciarsi rimproveri reciproci. (Traduzione di R. I.)