da LE MONDE diplomatique
Luglio 2000

 

IN UNO SPAZIO NAZIONALE FRAMMENTATO

L'islam ribelle delle Filippine

Il gruppo Abu Sayyaf, responsabile del rapimento di 21 turisti asiatici ed europei nell'isola di Jolo (Filippine), sostiene di voler ricostruire uno spazio nazionale che non sia più il risultato di un tracciato arbitrario nato dalla decolonizzazione. Come i gruppi o gruppuscoli che perseguono lo stesso tipo di obiettivo nell'arcipelago malese e indonesiano, utilizza a questo fine la leva dell'islam che costituisce l'elemento unificante di numerose etnie - 87 in totale - del sud delle Filippine. dai nostri inviati speciali

SOLOMON KANE e LAURENT PASSICOUSSET *

'ex-cittadella spagnola di Zamboanga, sviluppatasi intorno al suo porto, è ora la città più importante dell'isola di Mindanao occidentale (mare di Sulu), regione abitata da un quarto dei 75 milioni di filippini. Il 17 maggio scorso, di primo mattino, gruppetti di pescatori discutevano tranquillamente della scarsa pesca della notte, senza badare affatto alla colonna di passeggeri che sbarcavano, sotto scorta militare, da una vecchia bagnarola attraccata al molo: 85 rifugiati moros (1). Di nazionalità filippina e di religione musulmana provenivano tutti da Sabah, la parte malese dell'isola di Borneo. Tra questi Youssouf, 27 anni, gli occhi cerchiati dalla stanchezza e dalla preoccupazione, spiegava la situazione: i suoi compagni e lui stesso erano stati vittime di una retata e poi di un'espulsione da parte della polizia malese. Verso metà maggio, duemila moros circa sono stati deportati dalle autorità di Kuala Lumpur, come rappresaglia per le prese di ostaggi che da tre mesi dilagano nell'arcipelago delle Sulu, all'estremo sud delle Filippine. Ai confini della Malesia, confederazione a maggioranza musulmana, e delle Filippine, primo paese cattolico d'Asia (2), diversi gruppi separatisti dichiarano di appartenere all'islam. Mentre il 30% degli abitanti delle Filippine meridionali è musulmano (contro il 70% di cristiani), questo rapporto s'inverte nell'arcipelago delle Sulu (isole di Basilan, Jolo, Tawi-Tawi): qui il 97% della popolazione è di fede islamica. Ed è qui che in marzo e in aprile il gruppuscolo estremista Abu Sayyaf ha preso ostaggi in due momenti diversi: prima una trentina di bambini e insegnanti filippini e poi 21 turisti asiatici ed europei. Questo gruppo, Abu Sayyaf - letteralmente «il padre della spada» - fondato da Abdurajak Abubakar Janjalani, che ha studiato diritto islamico in Arabia saudita e ha partecipato alla guerriglia in Afghanistan (è stato ucciso dalla polizia nelle Filippine nel 1998) è nato all'inizio degli anni 90 e pare sia legato ai taleban afgani. Ai primi di maggio il gruppo aveva già decapitato o ucciso almeno quattro delle vittime filippine. Dal loro covo sotto gli alberi da cocco nell'isola di Jolo i ribelli dichiarano, armi in mano, di voler creare uno stato federale islamico sul modello di un antico sultanato precedente alla colonizzazione spagnola (inizio del XVI secolo). Sul modello della provincia indonesiana di Aceh, l'arcipelago delle Sulu - che fu sballottato tra la Malesia e le Filippine a seconda della posizione di forza o di debolezza dei colonizzatori britannici, spagnoli e americani (3) - è alla ricerca della propria identità in un clima di estrema violenza. Esigendo il pagamento di un riscatto i rapitori indicano chiaramente il loro obiettivo immediato: finanziare la lotta armata nel lungo periodo. Secondo testimonianze concordanti raccolte a Jolo, il riscatto dovrebbe servire principalmente a pagare i guerriglieri che sempre più numerosi si uniscono ai ribelli. All'inizio della crisi in pochi giorni un migliaio di contadini e pescatori ha risposto all'appello. Questo denaro potrebbe permettere anche ad Abu Sayyaf di rifornirsi di armi e di veicoli e di finanziare la costruzione di una potente emittente per comunicazioni a distanza. Questo duplice rapimento, con forte eco nei media, cui si aggiungono gli attentati dinamitardi di questi ultimi mesi a Mindanao e nella capitale Manila, è solo l'aspetto più spettacolare della rinascita di vecchi movimenti - in particolare islamisti, ma anche comunisti o solo separatisti - che minacciano fin dai tempi dell'indipendenza l'unità territoriale dell'arcipelago filippino, malese e indonesiano. I focolai di tensione si moltiplicano infatti in tutta l'Asia del sud-est insulare. A nord di Sumatra il movimento islamista Aceh Libero, fondato a metà degli anni 70, sogna di guidare i propri fedeli verso l'indipendenza, sull'esempio di Timor orientale. La parte indonesiana della Papuasia (ex Irian Jaya) è teatro dal 1998 di scontri molto violenti delle comunità tra di loro e con l'esercito. In ogni caso i guerriglieri e i loro simpatizzanti affermano di voler salvaguardare la loro identità culturale e religiosa di fronte alla «colonizzazione interna» attuata dai governi centrali e dai gruppi etnici maggioritari. Nelle Filippine si è costantemente allargato il fossato tra le comunità religiose, su un territorio nazionale sempre più frammentato: al centro gli ex-sudditi della Corona spagnola, di fede cristiana e che hanno contribuito alla costruzione dello stato filippino; ai margini le «tribù» degli irriducibili (Mindanao, Palawan e Sulu), che non hanno mai accettato la colonizzazione spagnola. La creazione di uno stato-nazione filippino, la cui identità si fonda sui valori cristiani della maggioranza, ha relegato le altre popolazioni alla periferia del mondo politico ed economico. I combattenti musulmani affermano di essere oggi in pericolo di fronte all'espansione demografica dei cattolici, in una regione in cui i posti di lavoro sono rari e riservati di fatto ai filippini di fede cristiana. Tra le venti province più povere del paese, quattordici si trovano nell'isola di Mindanao e nell'arcipelago delle Sulu. In questa regione di miseria, il Pil annuo pro capite è sei volte più basso della media nazionale che supera di poco i 1.000 dollari (poco più di due milioni di lire). Secondo fonti governative questa regione ha la più bassa speranza di vita di tutto l'arcipelago filippino (57 anni) e il più forte tasso di analfabetismo (25%). Peraltro la crisi degli ostaggi e più in generale l'aumento di tensione in quella zona in questi ultimi mesi risultano anche da un conflitto d'interessi e da una spirale di violenza crescente tra i clan musulmani. Abu Sayyaf è in concorrenza con un'organizzazione più vecchia e più potente: il Fronte Nazionale di Liberazione Moro (Frnlm), che conta 15.000 uomini, creato nel 1969 e osservatore permanente dell'Organizzazione della conferenza islamica. Il rapimento degli ostaggi occidentali su un isola malese e il loro trasferimento in territorio filippino sono stati realizzati da Abu Sayyaf qualche giorno dopo la rottura delle trattative di pace tra il suo rivale e le autorità centrali. Verso la fine di aprile il Fronte aveva lanciato un'offensiva militare di vasta portata contro l'esercito governativo. Secondo quanto riconosciuto dagli stessi rapitori, i loro comandanti sono ex-membri del Fronte installati a Sabah, annessa alla Malesia dal 1963 e a sua volta luogo di crescenti rivendicazioni separatiste. Secondo fonti attendibili i moro di Sabah hanno pianificato questa operazione fin da febbraio, «per rispondere ai maltrattamenti e allo sfruttamento di cui il nostro popolo è oggetto nei cantieri e nelle fabbriche malesi» (4). Sotto il regime del dittatore filippino Fernando Marcos (1965-1986) gli scontri tra comunità culturali erano stati esacerbati dall'intervento massiccio dell'esercito governativo e di milizie cristiane private (5). Il Fnlm è nato all'inizio di questo periodo. La ribellione vera e propria è scoppiata quando fu proclamata la legge marziale nel 1972: allora 200.000 moro furono costretti a rifugiarsi nello stato malese di Sabah. Solo con la firma del cosiddetto accordo di Tripoli nel 1976 la violenza diminuì un poco, ma a causa della presenza di cristiani nel Mindanao occidentale le autorità centrali rifiutarono di concedere qualsiasi forma di autonomia alle province in questione. I moro dovettero aspettare ancora 20 anni e il trattato del settembre del 1996 perché il presidente eletto Fidel Ramos s'impegnasse a fondare una regione autonoma musulmana a Mindanao. Dal 1996 non è stato fatto nulla per sviluppare l'economia di Mindanao e delle Sulu. E se all'inizio gli ex-ribelli del Fnlm hanno veramente creduto alle promesse del governo, ben presto, con metà della popolazione attiva disoccupata, la frustrazione è tornata a prevalere. «I moro hanno ripreso allora le armi e si sono uniti ai separatisti del Fronte islamico di liberazione o ai radicali del gruppo Abu Sayyaf», rivela, a patto di restare anonimo, un uomo d'affari di Zamboanga. A fine maggio sull'isola di Jolo, Global, uno dei cinque membri del misterioso Comitato centrale del Al Arakatul Islamiir (Movimento islamico, nuova denominazione di Abu Sayyaf) ci presenta il rapimento come «un mezzo tra tanti per compiere la nostra rivoluzione». In un lungo soliloquio al lume di una lampada a petrolio, il rivoluzionario sdentato precisa nella sua lingua vernacolare le grandi linee del suo progetto politico: «Creare uno stato federale islamico che comprenda Jolo, Tawi-Tawi, Basilan, Mindanao e Palawan - ovvero circa il 40% della territorio attuale delle Filippine - , paese in cui potremmo vivere secondo le nostre aspirazioni e non sotto la tutela di un governo che rifiuta il nostro diritto alla differenza». Finora Manila ha risposto con un rifiuto categorico a queste rivendicazioni che minacciano di smantellare il territorio nazionale. Per parte loro i separatisti moro sanno bene come Timor est si era staccata dall'Indonesia l'anno scorso: «Le discussioni con il governo filippino debbono avvenire in presenza delle Nazioni unite e dell'Organizzazione dei paesi islamici, esige Global, e non soltanto con i politici locali dei quali non ci fidiamo affatto». Ex-studente di criminologia dell'Università di Zamboanga sottolinea che lo stato islamico che sta sognando è già esistito «ben prima dell'arrivo di un navigatore portoghese chiamato Magellano, agli ordini di Madrid, contro il quale Lapu-Lapu, un eroe del nostro passato, si è battuto per difendere l'indipendenza del nostro territorio dagli invasori venuti da Occidente...» Il sultanato di Jolo non fu mai veramente sottomesso dagli spagnoli che s'installarono a Manila nel 1521. La resistenza dei moro si radicalizzò all'inizio del secolo XX, di fronte al nuovo colonizzatore americano. In particolare si sollevarono contro la conquista agricola che, come dovunque in Asia sudorientale, fu strumentalizzata dal governo centrale per fini d'integrazione territoriale e di assimilazione delle popolazioni minoritarie. Da quell'epoca le province a maggioranza musulmana del versante occidentale di Mindanao sono state occupate, in varie ondate, da immigrati cristiani che hanno sottratto ai moros le loro terre e li hanno emarginati culturalmente, demograficamente e nello sfruttamento delle risorse naturali. Il villaggio di Taglibi, feudo del gruppo Abu Sayyaf, universo di tuguri di bambù e foglie di palma su palafitte, illustra l'indigenza in cui vivono oggi le popolazioni musulmane nel sud delle Filippine. Il villaggio è situato lungo una spiaggia di sabbia bianca che s'affaccia su un mare azzurro, ma Taglibi non è un angolo di paradiso per coloro che ci vivono. Privo di elettricità, di acqua potabile, con la «highway» - così chiamano la pista polverosa che fa il giro dell'isola - ricoperta di sale e non asfaltata. «Qui, racconta Idjirani un pescatore, il lavoro si limita al raccolto delle noci di cocco, alla pesca e alle culture di manioca, con cui prepariamo focacce di cassava». Importato dal Vietnam attraverso Sabah il riso si mangia solo nelle grandi occasioni. La vita poi è ancor più difficile poiché un terzo dei prodotti raccolti deve essere consegnato a Panglima Ayudenee (6), patriarca di una delle sei grandi famiglie di Jolo che, sfruttando le riforme fondiarie realizzate dal 1910 in poi dal governo coloniale americano, si sono spartiti le terre dell'isola. In passato il diritto consuetudinario moro stabiliva che la terra apparteneva a chi la coltivava (7). Gli abitanti del villaggio spiegano che neppure il mare sfugge all'ingordigia dei ricchi e dei potenti. «Ma mentre i Panglima s'accontentano di poco, quelli di Manila si prendono tutto», constata Idjirani, che dice di far fatica a nutrire i suoi sette figli a causa della pesca industriale nelle zone vicine, «Dopo il passaggio dei motopescherecci, nel mare rimangono solo le alghe, soggiunge il pescatore. Datemi un buon motivo per non credere ai mujaheddin di Abu Sayyaf quando ci promettono di metter fine all'oppressione...»

note: (1) Termine generico con il quale si designano dodici gruppi etno-linguistici di confessione musulmana che vivono negli arcipelaghi di Mindanao, Palawan e delle Sulu. (2) I cristiani rappresentano più del 90% della popolazione filippina. (3) La Malesia è un'ex colonia britannica che ha ottenuto l'indipendenza nel 1957. Gli spagnoli hanno dominato le Filippine dal XVI secolo al 1898, poi gli americani li hanno soppiantati, fino al 1941, prima dell'occupazione giapponese. (4) A Sabah, gli emigrati moro vivono in un'estrema precarietà. Spesso lavorano per le industrie malesi e cinese, pagati con salari irrisori. (5) Il governo filippino stima a 120mila il numero di morti nei conflitti separatisti e interreligiosi nel sud del paese, dall'inizio degli anni '70. (6) Discendenti dei consiglieri dell'ultimo sultano di Jolo, i cinque Panglima, come pure il «signore della guerra» Tan (capo di una famiglia di immigrati cinesi che, nel corso delle generazioni ha saputo accrescere la propria influenza sullo scacchiere politico locale) non hanno cessato di darsi battaglia attraverso le loro milizie private. All'origine di questi scontri di clan, il possesso della terra. (7) All'inizio del XX secolo, pochi moro erano suffcientemente anglofoni per prendere i fondi finitimi della riforma agraria americana. Contrariamente ai Panglima, le famiglie povere non si preoccupavano di registrare le terre coltivate e in seguito furono vittime degli espropri. (Traduzione di E.P.)