Annamaria Rivera

Quando ho incontrato Alma per la prima volta mi sono sorpresa, benché su rotocalchi e quotidiani francesi ne avessi visto le foto che la ritraggono insieme alla sorella Lila. Malgrado l’evidenza di quelle foto, la immaginavo col capo coperto da un semplice hijeb. Più volte abbiamo detto e scritto contro la drammatizzazione, isterica e interessata, di un pezzo di tessuto: per questo, forse, il "velo islamico" delle ragazze francesi mi si era fissato in mente per lo più nell’immagine di un banale foulard. Alma, invece, mi viene incontro avvolta nello jilbeb, un abito costituito da più pezzi che la copre dalla testa ai piedi, fronte compresa. La vivacità dello sguardo -grandi occhi verdi- e il sorriso schietto –belle labbra carnose- spiccano nella cornice del tessuto dai colori spenti: un’icona da madonna rinascimentale che si trasmuta in un quadro surrealista.

Alma arriva al Meeting antirazzista di Cecina, organizzato come ogni anno dall’Arci, per partecipare a un convegno sulla "guerra dei simboli". E’ accompagnata dal padre Laurent, un avvocato parigino -ebreo, ateo, comunista- che ha posto le sue competenze al servizio di un’associazione antirazzista, il Mrap, e ha messo a repentaglio la sua professione nella strenua difesa del diritto delle figlie di frequentare la scuola pubblica a capo coperto. Anche Laurent mi sorprende: l’avevo immaginato un po’ contegnoso e scostante come sanno essere certi intellettuali comunisti e invece trovo una persona tanto còlta quanto umile, diretta e comunicativa, anticonformista e irriverente verso ogni ortodossia, ironica e affettuosa, e dotata di un senso dell’umorismo travolgente. Affabulatore consumato, Laurent è una miniera di blagues d’ambiente ebraico ed è la perfetta incarnazione di un cosmopolitismo che affonda le radici in un’antica storia familiare di mixité. Saranno state queste doti –ironia, humour, senso della molteplicità- a salvarlo dalla catastrofe personale. Dev’essere stato devastante, immagino, fronteggiare l’ondata d’isteria politica -così la ha definita Emmanuel Terray- che ha accompagnato il percorso verso la "legge sul velo" e al tempo stesso difendere le figlie, tentare di scongiurare la loro definitiva espulsione dalla scuola pubblica, proteggerle e proteggersi dall’invadenza mediatica. E il futuro non è roseo per i tre Lévy: alla riapertura delle scuole, i portoni restano chiusi per Alma e Lila; per Laurent si sono già chiusi non pochi spazi professionali. E poi il dilemma paradossale con cui misurarsi: escluse le scuole musulmane, gli unici licei disposti ad accogliere le due ragazze col velo sono quelli cattolici…

Il paradosso accompagna da alcuni anni la vita di Laurent. "Nel 1989, mi racconta, quando scoppiò il primo affaire del velo a partire dal caso del liceo di Creil, chiesero la mia opinione in un’intervista. Risposi, un po’ schematicamente, che portare il velo a scuola mi sembrava un’idiozia ma che non avrei espulso dalla scuola quelle ragazze. Allora, Alma e Lila avevano due e quattro anni e mai avrei potuto immaginare che avrebbero scelto quella strada…". Fra le tante appartenenze e culture che popolano il loro universo familiare, Alma e Lila ne hanno scelta una e la hanno coerentemente estremizzata attraverso un segno identitario inequivoco. Né più e né meno di quel che fa la gran parte degli adolescenti alla ricerca, spesso sofferta, d’una identità autonoma da quella dei genitori. Non poche volte quella ricerca dolorosa si rappresenta tramite segni ostentatori i più svariati ed estremi. Ma chi potrebbe sostenere che lo jilbeb di Alma e Lila significhi sottomissione al dominio maschile e adesione a un’ideologia integralista? E in ogni caso, alla scuola pubblica non spetta anche aiutare gli adolescenti a elaborare positivamente i conflitti della crescita attraverso la conoscenza e lo spirito critico? A da passà ‘a nuttata, direbbe Laurent se conoscesse il napoletano, ma è esattamente questo che vuol dire. Così ragioniamo Laurent ed io, mentre la luce del tramonto illumina di sfumature rosate il severo jilbeb di Alma, che sorridente corre incontro ai giovani amici del Meeting.

Nella cornice di libertà del Meeting antirazzista, tutto assume un senso diverso che nell’abituale contesto quotidiano, ammorbato da guerre ideologiche, martellamenti mediatici, ossessiva costruzione di nemici. In questo spazio pubblico liberato, Alma riacquista la propria umanità, la propria semplice identità di diciassettene intelligente, curiosa, inquieta. Non è più "un caso", è solo un’adolescente, certo un po’ speciale ma non troppo nel contesto francese: una famiglia in cui sono rappresentate le due sponde del Mediterraneo, i genitori separati, la ricerca di un proprio riferimento identitario, "un particolare senso del pudore", come aggiunge Laurent.

Qui nessuno la guarda con sconcerto o curiosità. Per i ragazzi e le ragazze che prestano lavoro volontario nello stand che accoglie i partecipanti, Alma è solo una coetanea che ha scelto una "tendenza" originale. Con loro trascorre molte ore al giorno, scherza, fa da interprete, impara qualche rudimento della lingua italiana, insegna un po’ di francese e di arabo…E gli adulti del Meeting tutt’al più eccedono in atteggiamenti protettivi, attenti a non mostrarsi sorpresi quando Alma più volte al giorno chiede dove sia la direzione della Mecca e quando talvolta, rapita dalla bellezza di un tramonto, si raccoglie a salmodiare in arabo.

Ma basta uscire dal recinto di quello spazio pubblico perché tutto si svolga in modo prevedibile. Noi stessi che l’accompagnamo diventiamo meno sicuri fuori del Meeting e ci comportiamo con un certo imbarazzo. Non del tutto infondato: un giorno, il direttore dell’alberghetto in cui alloggiano i Lévy non riesce a reprimere sconcerto e irritazione e la tratta in modo villano se non razzista. E una breve gita a Volterra con Laurent e Alma –lui che sembra il cliché d’un bretone, lei quello d’una giovane saudita- ci costringe a vederci come gli altri ci vedono, girandosi per strada a guardarci con insistenza: dei vecchi fricchettoni europei che s’accompagnano con un’adolescente araba e "integralista"…In stazione, due suorine gentili ammirano la mise di Alma –che carina!- e mi chiedono di lei; e quando racconto in sintesi la sua vicenda deplorano "il razzismo intollerabile delle società europee".

"Un particolare senso del pudore", dice Laurent, alludendo all’idea che lo jilbeb possa essere anche un modo per sublimare un rapporto complicato col proprio corpo. I sensi del pudore irrompono nel Meeting e travolgono il convegno sulla guerra dei simboli. Vi si discute anche di mutilazioni dei genitali femminili e alcune donne originarie di paesi africani in cui si praticano non accettano che se ne parli pubblicamente, freddamente e in presenza di maschi, che oltre tutto osano prendere la parola. In verità, la controversia, che assume toni assai accesi, non è soltanto intorno al che fare, non riguarda solo l’alternativa fra rifiuto assoluto e riduzione del danno. Chi ha subito mutilazioni, o proviene da un ambiente in cui si praticano, per pudore preferisce il silenzio oppure una parola che sia sommessa, rispettosa, partecipe, intima, condivisa: prima di ogni presa di posizione pubblica.

Pretesa assurda in un universo semantico ove tutto dev’essere svelato, ove i corpi nudi torturati e pornificati in serie fanno meno scandalo dei corpi femminili velati, ove gli unici segni ostentatori consentiti sono quelli del Capitale: le marche, le firme, le mode anche estreme, compreso il piercing più mutilante, purché siano espressione della religione del mercato o da essa siano benedette. La volontà d’infliggere all’altro l’impudicizia radicale, per rubare la formula a Baudrillard: in filigrana si potrebbe leggere anche questa fra le motivazioni inconsce che hanno spinto la commissione Stasi a suggerire la legge detta sul velo e il parlamento francese ad approvarla a larga maggioranza.

Certo, nessuno può negare che la Francia sia sinceramente preoccupata di difendere la laicità. Ma il caso delle giovani cittadine francesi Alma e Lila, per quanto peculiare, sintetizza in modo esemplare tutti i dubbi, i nodi, le aporie di quella legge. E, ben più al di là, allude a un intrico di questioni proprie di società sempre più complesse e plurali che rifiutano o stentano a negoziare con la propria crescente pluralità. E che esteriorizzano le proprie inquietudini, paure, contraddizioni, problemi sociali nel fantasma di un islàm compattamente e ovunque aggressivo e minaccioso. Il formalismo radicale della laicità potrebbe così divenire l’alibi per eludere la domanda fondamentale: come costruire una convivenza fra eguali e diversi, non rinunciando ad alcuni principi basilari condivisi?

In uno spazio pubblico temporaneamente liberato da ossessioni e angosce collettive, da eterofobia e manipolazioni sicuritarie, il velo d’una ragazza francese un po’ speciale è solo, come nella Vita variopinta di Kandinsky, un sapiente tocco di pennello che allude alla crescente e vivace varietà del mondo.

 

Scheda

Alma e Lila Lévy, cittadine francesi di sedici e diciotto anni, sono state espulse, ad ottobre del 2003, da un liceo di Aubervillers, comune "rosso" della banlieue parigina, per essersi rifiutate di togliere il "velo islamico". Il caso delle due sorelle, figlie di un avvocato ateo, comunista, di famiglia ebraica, e di un’insegnante d’origine algerina, ha contribuito a riaccendere in Francia la polemica pubblica sulla laicità ed è stato usato come pretesto per accelerare il percorso verso una legge che proibisce l’ostentazione di simboli religiosi nella scuola pubblica. A luglio del 2003 era stato costituito un gruppo di saggi, detto "commissione Stasi" dal nome del suo presidente, con il compito di elaborare un rapporto sull’applicazione del principio di laicità nelle scuole pubbliche e d’indicare strumenti legislativi per riaffermarlo o rafforzarlo. A marzo di quest’anno l’Assemblea nazionale ha approvato a larga maggioranza la legge detta sul velo, ma che proibisce anche la kippa, le croci di grandi dimensioni e qualunque segno religioso "ostentatorio". La legge ha suscitato un dibattito molto acceso su come vadano intese la laicità, la libertà religiosa, l’integrazione, la parità fra i generi; alcune opinioni anche autorevoli la hanno letta come un riflesso dell’islamofobia diffusa nella società francese e come una violazione della libertà religiosa e dei diritti umani. A schierarsi contro sono stati alcuni noti intellettuali di sinistra, i Verdi, una parte del Pcf e della Lcr, alcune realtà associative antirazziste e femministe, una parte del mondo associativo mulsulmano. La legge è applicativa a partire dalla riapertura delle scuole. L’indecifrabile ricatto del sedicente Esercito islamico iracheno, che ha chiesto l’abrogazione della legge in cambio della liberazione dei giornalisti Chesnot e Malbrunot, ha ricevuto in Francia una risposta netta e corale, anche da parte di chi non la ha condivisa: è alla società francese che spetta discutere e decidere delle proprie leggi. Della legge sul velo e d’altro si è discusso nell’ambito del Meeting antirazzista di Cecina ("Società plurali", 18-24 luglio), giunto alla sua decima edizione e organizzato come sempre dall’Arci nazionale, con la partecipazione di amministrazioni locali e di numerose realtà del mondo associativo e sindacale europeo.